[Area] R: R: Re: I: Corte Costituzionale n. 164/2017 (RESP. CIVILE MAGISTRATI)

Rodolfo M. Sabelli rodolfomaria.sabelli a giustizia.it
Gio 13 Lug 2017 11:49:48 CEST


Caro Massimiliano,

 

Seguo costantemente le mailing list e leggo sempre con interesse le tue
mail: spesso, non sempre, dissento dalle tue valutazioni, ma in questo è il
bello del dialogo. Non intervengo quasi mai, per varie ragioni: sono
rientrato a tempo pieno nell’attività giudiziaria – come fin dall’inizio
della mia esperienza associativa mi ero proposto – ma, oltre a ciò, sono
allergico alle polemiche (non al confronto critico) e non voglio dare l’idea
di una difesa a spada tratta dell’azione svolta dalla GEC 2012 – 2016.
Poiché però a volte la memoria è breve, occorre distinguere le valutazioni
dai fatti e su questi rinfrescare un po’ i ricordi.

 

Nella tua mail tocchi un tema assai sensibile – la riforma della nostra
responsabilità civile – e affermi che la Gec da me presieduta non avrebbe
mosso un dito. Ebbene, questo, consentimi, anzitutto sul piano dei fatti lo
contesto con forza.

 

Ricorderai che il tema della responsabilità civile era attualissimo prima
ancora che nascesse la Gec Sabelli – Carbone: la Camera aveva già approvato
una legge di riforma (ricorderai l’ “emendamento Pini”, approvato con voto
trasversale, che introduceva l’azione diretta, dagli effetti dirompenti
immediati, in attesa delle probabili sentenze della Corte costituzionale) e
da subito l’impegno su quel fronte fu massimo: un convegno pubblico ad alto
livello nel maggio 2012, audizioni in Commissione Giustizia, incontri col
Ministro della Giustizia, azione congiunta con l’Intermagistrature, un
profluvio di interventi pubblici e interviste. Quella legge fu per il
momento accantonata.

 

Ricorderai, peraltro, come il complessivo clima politico – riflesso del
clima diffuso nell’opinione pubblica e in parte dell’informazione –
spingesse per una profonda modifica della legge 117/1988, anche sulla base
di argomenti e pretesti spesso superficialmente ricavati dalle sentenze
della Corte europea (pur a fronte di Paesi della UE nei quali i magistrati
sono totalmente irresponsabili sul piano civile). Fu così che le spinte per
una riforma della legge Vassalli ripresero vigore, con ancora maggiore
forza.

 

Ci mobilitammo nuovamente con iniziative di ogni sorta, dirette a denunciare
le strumentalizzazioni e i guasti che la riforma avrebbe provocato:
preparammo una relazione tecnico-giuridica – grazie anzitutto all’impegno di
Luisa De Renzis e un po’ anche mio – largamente condivisa e apprezzata;
nuove audizioni in Commissione Giustizia; nuovi interventi pubblici e
interviste; iniziative varie concordate con l’Intermagistrature; incontri
col Ministro della Giustizia; e potrei continuare.

 

Non avere mosso un dito, proprio no.

 

Passiamo alle valutazioni. Mi dirai: che cosa avete ottenuto? La risposta la
trovi nei lavori parlamentari. Ti faccio una sintesi incompleta di alcune
delle modifiche originariamente previste dal testo di riforma, sul quale si
era formato un largo consenso parlamentare. Alcuni dissentivano, ma in
genere perché volevano una riforma ancora più estrema. Dunque:

- eliminazione del requisito della “grave” violazione di legge;

- introduzione, in sede civile, del sindacato circa l’adeguatezza della
motivazione dei provvedimenti cautelari;

- responsabilità in caso di inadeguata motivazione del dissenso dalla
giurisprudenza delle Sezioni Unite;

- introduzione dell’efficacia di giudicato della sentenza di condanna dello
Stato in sede di giudizio di rivalsa e in quello disciplinare, anche nei
casi in cui il magistrato non fosse intervenuto nel primo giudizio;

- eliminazione del tetto massimo risarcibile in sede di rivalsa.

 

Sono alcuni degli aspetti – ripeto, largamente sostenuti e in parte già
condivisi in Commissione – poi eliminati dal testo definitivo, e ciò grazie
alle buone ragioni da noi sostenute con forza e pubblicamente.

 

Non Sabelli ma Davigo, in un’intervista resa a Repubblica il 10 aprile 2016,
osservò che la legge sulla responsabilità civile “ci costa poco più di
quello che pagavamo prima di assicurazione”: giudizio che purtroppo a me
pare – mi perdoni Piercamillo – un po’ troppo ottimistico ma che, nella
necessità della sintesi giornalistica, coglie il risultato.

 

Certo, il “poteva andare molto peggio” non consola granché, ma credo
sinceramente che, nelle condizioni date, meglio non potesse andare. O forse
pensi che uno sciopero dei magistrati (peraltro da pochissimi sostenuto in
CDC) o qualche altra simile iniziativa clamorosa avrebbe prodotto risultati
migliori?

 

Mi fermo qui. Ci sarebbero altri aspetti sui quali sarei tentato di dire
qualcosa: ad esempio, l’azione “sindacale” realizzata dalla GEC
Palamara-Cascini, prima ancora che da quella Sabelli-Carbone, tanto per
sfatare – fatti alla mano – alcune vulgate che sembrano oggi verità di fede.
Non mi interessa però suscitare polemiche politico-associative ma solo fare
una riflessione obiettiva e serena su quanto avvenuto e fatto in passato,
per fare bene e meglio in futuro. Temo però che non sia il momento giusto
per una simile riflessione. Voglio solo ricordare – ma tu, Massimiliano, lo
sai – che fare attività associativa, quando si ha la responsabilità di
vertice dell’ANM, vuol dire essere saldi sui principi (e su questo non mi
rimprovero proprio nulla) ma vuol dire anche saper resistere alla voglia
(che anch’io e tutti a volte proviamo) di una reazione immediata ma poco
meditata, che magari darà anche soddisfazione ma può rivelarsi improduttiva
o dannosa, ed elaborare invece un’azione più efficace per il raggiungimento
di un risultato migliore e più giusto. Anche a costo, a volte, di sembrare
impopolari. E’ una scelta non facile, che a volte ho ritenuto di dover fare,
col sostegno di tanti Colleghi – della GEC, del CDC e non solo – e della
quale mi sono assunto e continuo a portare, con convinzione, la
responsabilità.

 

Cari saluti.

 

Rodolfo Sabelli

 

-----Messaggio originale-----
Da: Area [mailto:area-bounces a areaperta.it] Per conto di Siddi Massimiliano
Inviato: mercoledì 12 luglio 2017 23:21
A: giudegregorio
Cc: area a areaperta.it
Oggetto: Re: [Area] R: Re: I: Corte Costituzionale n. 164/2017 (RESP. CIVILE
MAGISTRATI)

 

Sarà, ma la logica del "poteva andare molto peggio" (che, fatte le
incommensurabili differenze, definisco dello "judenrat") è una logica che ci
sta massacrando.

Abbiamo il vizio culturale di illuderci di difenderci rifugiandoci nelle
interpretazioni; ma intanto certi principi passano e indietro non si torna.

Bisognava pensarci quando la vecchia giunta A.N.M. non ha mosso un dito per
impedire questo scempio.

È chiaro che poi, passata la legge, il circuito politico - istituzionale -
costituzionale non ci avrebbe più dato scampo.

 

           Massimiliano Siddi

 

Inviato da iPhone

 

> Il giorno 12 lug 2017, alle ore 22:59, giudegregorio <
<mailto:giudegregorio a alice.it> giudegregorio a alice.it> ha scritto:

> 

> Però la sentenza secondo me va meditata con attenzione, perché dice cose
molto importanti sulla diversità tra la responsabilità dello Stato e quella
del magistrato; e considerando quanto emerge dalle ordinanze di rimessione,
mi sembra contenga spunti di riflessione importanti e positivi.

> Saluti Giuseppe De Gregorio

> 

> 

> 

> Inviato da smartphone Samsung Galaxy.

> 

> -------- Messaggio originale --------

> Da: thorgiov < <mailto:thorgiov a libero.it> thorgiov a libero.it>

> Data: 12/07/17 20:12 (GMT+01:00)

> A:  <mailto:area a areaperta.it> area a areaperta.it

> Oggetto: Re: [Area] I: Corte Costituzionale n. 164/2017 (RESP. CIVILE
MAGISTRATI)

> 

> 

> A me invece viene in mente la politicità dell'ANM che ha deciso di non
reagire in alcun modo alla nuova normativa. Il Governo Renzi aveva
evidentemente stipulato un patto di non belligeranza ( o meglio di
sudditanza, nel senso che l'ANM ha deciso che non era il caso di contrastare
in nessun modo il sovrano, come dimostra anche l'ultimo comunicato di AREA a
proposito della decisione di Autonomia e Indipendenza di uscire dalla Giunta
Unitaria ) con il nostro sindacato, che infatti non ha reagito neppure
contro il taglio delle ferie e l'anticipo dell'età pensionabile. Ora, io mi
chiedo : a che cosa serve un sindacato di questo tipo ?

> 

> FELICE   PIZZI  ( Giudice del contenzioso del Tribunale di Napoli Nord )

> 

> Il 12/07/2017 18:51, Siddi Massimiliano ha scritto:

> E qualcuno ancora crede nella "apoliticità" di questo organismo.....

> 

>         Massimiliano Siddi

> 

> Inviato da iPhone

> 

> Il giorno 12 lug 2017, alle ore 17:34, "
<mailto:carlocitt a alice.it%3cmailto:carlocitt a alice.it%3e>
carlocitt a alice.it<mailto:carlocitt a alice.it>" <
<mailto:carlocitt a alice.it%3cmailto:carlocitt a alice.it>
carlocitt a alice.it<mailto:carlocitt a alice.it>> ha scritto:

> 

>  <http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do>
http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do

> Corte Costituzionale

> 

> SENTENZA N. 164

> 

> ANNO 2017

> 

> 

> REPUBBLICA ITALIANA

> 

> IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

> 

> LA CORTE COSTITUZIONALE

> 

> composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Alessandro
CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario
MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio
PROSPERETTI,

> 

> 

> ha pronunciato la seguente

> 

> SENTENZA

> 

> nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, lettere
a), b) e c), 3, comma 2, e 4 della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina
della responsabilità civile dei magistrati), e degli artt. 2, commi 2 e 3,
4, 7, 8, comma 3, e 9, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117
(Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie
e responsabilità civile dei magistrati), come modificati dalla legge n. 18
del 2015, promossi dal Tribunale ordinario di Verona con ordinanza del 12
maggio 2015, dal Tribunale ordinario di Treviso con ordinanza dell’8 maggio
2015, dal Tribunale ordinario di Catania con ordinanza del 6 febbraio 2016,
dal Tribunale ordinario di Enna con ordinanza del 25 febbraio 2016 e dal
Tribunale ordinario di Genova con ordinanza del 10 maggio 2016,
rispettivamente iscritte ai nn. 198 e 218 del registro ordinanze 2015, e ai
nn. 113, 126 e 130 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica nn. 40 e 43, prima serie speciale, dell’anno 2015
e nn. 23 e 27, prima serie speciale, dell’anno 2016.

> 

> Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

> 

> udito nella camera di consiglio del 9 novembre 2016 il Giudice relatore
Franco Modugno.

> 

> 

> Ritenuto in fatto

> 

> 1.– Con ordinanza del 12 maggio 2015 (r.o. n. 198 del 2015), il Tribunale
ordinario di Verona ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

> 

> a) degli artt. 2, comma 1, lettera c), e 4, comma 1, della legge 27
febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei
magistrati), nella parte in cui – sostituendo, rispettivamente, l’art. 2,
comma 3, e l’art. 7 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei
danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità
civile dei magistrati) – includono il «travisamento del fatto o delle prove»
tra le ipotesi di colpa grave che possono dar luogo a responsabilità civile
dello Stato e del magistrato, per contrasto con gli artt. 101, secondo
comma, e 111, secondo comma, della Costituzione;

> 

> b) dell’art. 2, comma 1, lettera b), della legge n. 18 del 2015, per
contrasto con l’art. 3 Cost.;

> 

> c) dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, per contrasto con gli
artt. 3, 25, primo comma, 101, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.;

> 

> d) dell’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, come modificato
dall’art. 6 della legge n. 18 del 2015, per contrasto con gli artt. 25,
primo comma, 101, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.;

> 

> e) dell’art. 4 della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui, sostituendo
l’art. 7, comma 1, della legge n. 117 del 1998, prevede che il Presidente
del Consiglio dei Ministri ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa
verso il magistrato, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.;

> 

> f) dell’art. 2, comma 1, lettere a), b) e c), e dell’art. 4 della legge n.
18 del 2015, quest’ultimo nella parte in cui prevede che il Presidente del
Consiglio dei Ministri ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa verso
il magistrato, per contrasto con l’art. 81, terzo comma, Cost.

> 

> 1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito dell’opposizione
proposta da una società cooperativa avverso il decreto con il quale le era
stato ingiunto il pagamento della somma di euro 142.292,53, oltre interessi,
in favore di una impresa agricola, quale corrispettivo di forniture di
prodotti documentate da fatture. A sostegno dell’opposizione, la cooperativa
ingiunta aveva dedotto una serie di motivi, tutti contestati dall’impresa
ingiungente, la quale – rilevato che l’opposizione non era fondata su prova
scritta, né di pronta soluzione – aveva chiesto, ai sensi dell’art. 648,
primo comma, del codice di procedura civile, che il decreto ingiuntivo
opposto fosse dichiarato provvisoriamente esecutivo.

> 

> Secondo il rimettente, ai fini della decisione su tale istanza
assumerebbero rilievo alcune delle disposizioni in materia di responsabilità
civile dei magistrati introdotte dalla legge n. 18 del 2015, in quanto
«concretamente e immediatamente produttiv[e] di una responsabilità
potenziale» di esso giudice a quo.

> 

> Al riguardo, il rimettente ricorda come la Corte costituzionale, con la
sentenza n. 18 del 1989, decidendo su una serie di questioni relative alla
pregressa disciplina della responsabilità civile dei magistrati di cui alla
legge n. 117 del 1988, abbia rilevato che l’art. 23 della legge 11 marzo
1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale) esige, ai fini della proposizione dell’incidente di
costituzionalità, che il giudizio principale non possa essere definito
indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità
costituzionale: sicché, di regola, la rilevanza della questione resta
strettamente correlata all’applicabilità della norma impugnata nel giudizio
a quo. Tuttavia – come già ritenuto implicitamente dalla stessa Corte
costituzionale in precedenti occasioni (sentenze n. 196 del 1982, n. 125 del
1977 e n. 128 del 1974) e, secondo il rimettente, anche nella più recente
sentenza n. 237 del 2013 – «debbono ritenersi influenti sul giudizio anche
le norme che, pur non essendo direttamente applicabili nel giudizio a quo,
attengono allo status del giudice, alla sua composizione nonché, in
generale, alle garanzie e ai doveri che riguardano il suo operare.
L’eventuale incostituzionalità di tali norme è destinata ad influire su
ciascun processo pendente davanti al giudice del quale regolano lo status,
la composizione, le garanzie e i doveri: in sintesi, la “protezione”
dell’esercizio della funzione, nella quale i doveri si accompagnano ai
diritti».

> 

> Occorrerebbe inoltre considerare – secondo il giudice a quo – che la nuova
legge ha ampliato le ipotesi che possono dar luogo a responsabilità civile
dello Stato e del magistrato, includendovi, in particolare, le fattispecie
del travisamento del fatto o delle prove (artt. 2, comma 3, e 7 della legge
n. 117 del 1988, come novellati dagli artt. 2, comma 1, lettera c, e 4,
comma 1, della legge n. 18 del 2015). Almeno le citate disposizioni
troverebbero immediata applicazione in tutti i giudizi in corso
potenzialmente causativi di danno, giacché i giudici che li trattano, per
non incorrere in responsabilità (anche disciplinare), dovrebbero attenersi
ai criteri di valutazione da esse stabiliti.

> 

> 1.2.– Ciò premesso, il giudice a quo dubita della legittimità
costituzionale dei citati artt. 2, comma 1, lettera c), e 4, comma 1, della
legge n. 18 del 2015, osservando come, nell’originario assetto della legge
n. 117 del 1988, la valutazione dei fatti e delle prove – costituente,
assieme all’interpretazione delle norme di diritto, l’essenza stessa della
funzione giurisdizionale – non potesse mai dar luogo a responsabilità, in
virtù della cosiddetta clausola di salvaguardia enunciata dall’art. 2, comma
2, della stessa legge. Come rilevato tanto dalla Corte costituzionale nella
sentenza n. 18 del 1989, quanto dalla giurisprudenza di legittimità, detta
clausola era funzionale alla tutela dell’indipendenza del giudice, che, a
propria volta, costituisce garanzia di apprezzamento imparziale delle
risultanze istruttorie.

> 

> La legge n. 18 del 2015 – pur riproponendo, nel suo art. 2, comma 1,
lettera b), la clausola di salvaguardia – ne avrebbe, di fatto,
sensibilmente ridotto l’àmbito di operatività. La lettera c) del medesimo
art. 2, comma 1, ha infatti ampliato i casi di colpa grave generativi di
responsabilità risarcitoria tanto sul piano numerico, con l’aggiunta
dell’ipotesi del travisamento del fatto o delle prove, quanto sotto il
profilo soggettivo, con l’eliminazione del riferimento alla negligenza
inescusabile (la quale, ai sensi dell’art. 7, comma 1, della legge n. 117
del 1988, come sostituito dall’art. 4 della legge n. 18 del 2015,
costituisce ora condizione solo per l’esercizio dell’azione di rivalsa nei
confronti del magistrato).

> 

> Ad avviso del giudice a quo, il nuovo regime si porrebbe in contrasto con
gli artt. 101, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., apparendo le
nozioni di travisamento del fatto o delle prove equivoche ed indefinibili.
Esse non coinciderebbero con le ipotesi – già contemplate dall’art. 2, comma
3, della legge n. 117 del 1988 – dell’affermazione di un fatto la cui
esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento, o della
negazione di un fatto la cui esistenza risulti incontrastabilmente dagli
atti del procedimento, per la semplice ragione che sono state aggiunte, e
non già sostituite, a queste ultime. Nessuna indicazione utile fornirebbero,
peraltro, i lavori parlamentari, dai quali emergerebbe, anzi, l’estrema
difficoltà di definire gli esatti confini della nuova fattispecie di
illecito.

> 

> La formula in esame si rivelerebbe, quindi, del tutto inidonea a
delimitare l’àmbito della responsabilità del magistrato, come invece
esigerebbero i parametri costituzionali evocati. In effetti, erano state
proprio la limitatezza e la tassatività delle ipotesi di colpa grave,
originariamente prefigurate dalla legge n. 117 del 1988, ad indurre la Corte
costituzionale ad escludere, con la sentenza n. 18 del 1989, che la loro
previsione potesse compromettere la serenità e l’imparzialità di giudizio
del giudice.

> 

> In difetto di una sufficiente tipizzazione, la nuova fattispecie
offrirebbe, di contro, ampie possibilità di condizionare l’esercizio della
funzione giurisdizionale: qualsiasi valutazione dei fatti o del materiale
probatorio potrebbe essere, infatti, censurata semplicemente qualificandola
come travisamento, con ulteriori ricadute negative in termini di ampliamento
indefinito della possibilità di sindacato disciplinare sui provvedimenti
giudiziari e di estrema incertezza sull’àmbito applicativo dell’azione
obbligatoria di rivalsa.

> 

> Peraltro, nemmeno la sfera applicativa della clausola di salvaguardia
–formalmente ribadita dall’art. 2, comma 1, lettera b), della legge n. 18
del 2015 – risulterebbe individuabile con esattezza relativamente
all’attività di valutazione del fatto o delle prove, tanto da potersi
dubitare che la clausola stessa conservi un reale spazio operativo. Sotto
tale profilo, la norma da ultimo citata risulterebbe irragionevole e,
quindi, in contrasto con l’art. 3 Cost.

> 

> 1.3.– Il rimettente censura, altresì, l’art. 3, comma 2, della legge n. 18
del 2015, che, abrogando l’art. 5 della legge n. 117 del 1988, ha soppresso
la fase preliminare del giudizio risarcitorio comunemente definita «filtro
di ammissibilità».

> 

> In forza del citato art. 5, il tribunale investito di una domanda
risarcitoria nei confronti dello Stato per fatto illecito del magistrato
doveva deliberare, preventivamente e in tempi ristretti, sulla sua
ammissibilità. A tal fine, il giudice istruttore doveva, alla prima udienza,
rimettere le parti dinanzi al collegio, che era tenuto a decidere entro
quaranta giorni dalla rimessione. La domanda era dichiarata inammissibile
con decreto motivato quando non fossero stati rispettati i termini previsti
a pena di decadenza per l’esercizio dell’azione o non sussistessero i
presupposti stabiliti dagli artt. 2, 3 e 4 della stessa legge n. 117 del
1988, ovvero quando la domanda risultasse manifestamente infondata. Ove,
invece, il tribunale avesse ritenuto la domanda ammissibile, doveva disporre
la prosecuzione del giudizio e la trasmissione di copia degli atti al
titolare dell’azione disciplinare.

> 

> Tale meccanismo – rileva il giudice a quo – perseguiva il duplice
obiettivo di impedire la proliferazione di inutili giudizi di merito e,
soprattutto, di tutelare «la serenità del singolo magistrato, che, al riparo
da azioni pretestuose e temerarie, poteva veder limitato il peso
dell’esposizione processuale a casi e tempi razionalmente circoscritti». In
questa prospettiva, la Corte costituzionale aveva riconosciuto il «rilievo
costituzionale» del filtro di ammissibilità, quale strumento di salvaguardia
dei valori di autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale
(sentenza n. 468 del 1990), rilevando anche come esso impedisse che si
creassero con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione
(sentenza n. 18 del 1989).

> 

> Nell’abolire l’istituto, la disposizione censurata si porrebbe, quindi, in
contrasto non solo con gli artt. 101, secondo comma, e 111, secondo comma,
Cost., ma anche con l’art. 25, primo comma, Cost. Proponendo una domanda
risarcitoria palesemente infondata o inammissibile, la parte potrebbe,
infatti, sottrarre il processo dal quale si assume danneggiata al giudice
naturale che ne è investito, il quale – nel caso di instaurazione di un
giudizio di responsabilità per provvedimenti a lui attribuiti – non potrebbe
non ravvisare le gravi ragioni di convenienza per astenersi ai sensi
dell’art. 51, secondo comma, cod. proc. civ., o dell’art. 36, comma 1,
lettera h), del codice di procedura penale.

> 

> L’esposizione del giudice alle conseguenze ora indicate risulterebbe,
altresì, protratta nel tempo, diversamente da quanto accadeva nel regime
anteriore. Ogni giudizio di responsabilità, per quanto inammissibile, deve
ora svolgersi nelle forme del giudizio ordinario di cognizione ed essere
deciso con sentenza, soggetta ad impugnazione nei termini ordinari, molto
più ampi di quelli previsti in precedenza per l’impugnazione del decreto di
inammissibilità emesso ai sensi dell’art. 5 della legge n. 117 del 1988
(dieci giorni dalla comunicazione per l’appello, quaranta giorni per il
ricorso per cassazione).

> 

> Non rappresenterebbero, d’altronde, una sufficiente remora alla
proposizione di giudizi risarcitori temerari né la possibile applicazione –
futura e remota – dell’istituto della responsabilità aggravata, previsto
dall’art. 96 cod. proc. civ., né gli oneri relativi all’iscrizione a ruolo
della causa, posto che, per effetto della modifica dell’art. 15 della legge
n. 117 del 1988 disposta dall’art. 300, comma 6, del d.P.R. 30 maggio 2002,
n. 115, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», i giudizi
promossi ai sensi di detta legge sono esenti dal pagamento del contributo
unificato.

> 

> L’eliminazione del filtro di ammissibilità si porrebbe in contrasto anche
con l’art. 3 Cost., risultando contraddittoria rispetto alle scelte che lo
stesso legislatore ha operato con riguardo al giudizio di appello e al
giudizio di cassazione, in relazione ai quali sono stati viceversa
recentemente introdotti meccanismi di filtro (artt. 342, primo comma, numero
2, 348-ter e 360-bis cod. proc. civ.).

> 

> 1.4.– Il rimettente osserva, altresì, che, in correlazione all’abolizione
del filtro di ammissibilità, l’art. 6 della legge n. 18 del 2015 ha
soppresso l’inciso dell’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988 che
ricollegava l’inizio del procedimento disciplinare, per i fatti che avessero
«dato causa all’azione di risarcimento», alla comunicazione, da parte del
tribunale, del provvedimento che aveva dichiarato ammissibile la domanda. È
rimasta, invece, invariata la parte della disposizione che obbliga il
titolare dell’azione disciplinare a procedere per i predetti fatti.

> 

> In base alla nuova disciplina, pertanto, l’attore potrebbe rendere note al
titolare dell’azione disciplinare le doglianze esposte nel giudizio
risarcitorio, per quanto manifestamente infondate, costringendolo, per ciò
solo, a promuovere l’azione disciplinare. Anche l’art. 9, comma 1, della
legge n. 117 del 1988, come novellato, si porrebbe, quindi, in contrasto con
gli artt. 25, primo comma, 101, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.,
consentendo ad una parte processuale di influire indebitamente sul corso del
giudizio e sulla serenità del giudice, senza una preventiva verifica dei
suoi assunti.

> 

> 1.5.– Il Tribunale veronese sottopone, ancora, a scrutinio di legittimità
costituzionale l’art. 4 della legge n. 15 del 2018, nella parte in cui,
sostituendo l’art. 7, comma 1, della legge n. 117 del 1988, prevede che il
Presidente del Consiglio dei ministri ha l’obbligo di esercitare l’azione di
rivalsa nei confronti del magistrato.

> 

> La disposizione sottrarrebbe, infatti, al Presidente del Consiglio dei
ministri il diritto di valutare la convenienza di detta azione, sulla base
di un raffronto tra i costi del giudizio risarcitorio nei confronti dello
Stato e quelli del giudizio nei confronti del magistrato, nonché delle
probabilità di successo di quest’ultimo. In questo modo, essa violerebbe
tanto l’art. 24, primo comma, Cost. – che, nel garantire il diritto di
difesa, riconoscerebbe implicitamente anche il diritto di non agire in
giudizio – quanto il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.). Al
riguardo, si dovrebbe considerare che – diversamente da quanto accadeva nel
sistema originario della legge n. 117 del 1988 – i presupposti per
l’esercizio dell’azione nei confronti dello Stato non sono i medesimi
dell’azione di rivalsa, occorrendo, per questa, che i comportamenti
individuati dalla norma siano connotati da negligenza inescusabile. Il
Presidente del Consiglio dei ministri si troverebbe, di conseguenza, a dover
esercitare l’azione di rivalsa “al buio”, ossia senza che si sia avuta una
positiva verifica dell’esistenza di quel presupposto.

> 

> Irragionevole apparirebbe anche l’assimilazione, operata dalla norma
censurata, delle ipotesi del risarcimento sulla base di transazione e sulla
base di sentenza di condanna, quali presupposti dell’esercizio dell’azione
obbligatoria di rivalsa. Diversamente dalla condanna, la transazione
sarebbe, infatti, frutto di una scelta discrezionale del Presidente del
Consiglio dei ministri, basata su ragioni di convenienza: scelta che
potrebbe risultare viziata da un errore di valutazione riguardo
all’ammissibilità o alla fondatezza della domanda risarcitoria. Anche in
tale evenienza, tuttavia, il magistrato subirebbe l’azione di rivalsa,
destinata ad un insuccesso per lo Stato.

> 

> L’art. 3 Cost. risulterebbe violato anche sotto il profilo della
ingiustificata disparità di trattamento dell’azione in discorso rispetto
all’azione di regresso nei confronti degli altri dipendenti pubblici. Tale
ultima azione – in base ai principi generali in tema di azione di garanzia
personale (art. 1950 del codice civile), non derogati dall’art. 22, primo
comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni
concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) – non è, infatti,
obbligatoria, pur presupponendo che nel giudizio nei confronti dello Stato
sia stato accertato il dolo o la colpa grave del funzionario danneggiante: e
ciò anche nel caso di transazione della lite, come si evincerebbe dal
disposto dell’art. 30 del d.P.R. n. 3 del 1957.

> 

> La denunciata disparità di trattamento non potrebbe essere spiegata
facendo leva sulla differente entità economica della rivalsa (limitata, per
i magistrati, ad una somma pari alla metà dello stipendio annuale al momento
in cui l’azione di risarcimento è proposta, ai sensi dell’art. 5 della legge
n. 18 del 2015). Tale limitazione dovrebbe costituire, al contrario, un
ulteriore motivo per rendere discrezionale l’azione di rivalsa contro il
magistrato, posto che la ridotta entità della somma recuperabile potrebbe
sconsigliare l’iniziativa.

> 

> 1.6.– Da ultimo, il rimettente denuncia il contrasto con l’art. 81, terzo
comma, Cost. dell’art. 2, comma 1, lettere a), b) e c), e dell’art. 4 della
legge n. 18 del 2015, quest’ultimo nella parte in cui prevede che il
Presidente del Consiglio dei ministri ha l’obbligo di esercitare l’azione di
rivalsa nei confronti del magistrato.

> 

> La novella non indicherebbe, infatti, i mezzi per far fronte ai maggiori
oneri derivanti, a carico dello Stato, dall’applicazione delle norme che
ampliano le ipotesi di responsabilità (art. 2, comma 1, lettere b e c), di
quella che riconosce la risarcibilità anche del danno non patrimoniale
conseguente ad un atto o provvedimento del magistrato (art. 2, comma 1,
lettera a) e di quella che prevede l’obbligatorietà dell’azione di rivalsa
(art. 4, comma 2). Ciò, sebbene la stima di tali oneri fosse ben possibile
sulla base dell’esperienza applicativa della legge n. 117 del 1988, come
emerge dalla relazione al disegno di legge n. 1626, di iniziativa
governativa, che conteneva, in effetti, una norma sulla copertura
finanziaria (art. 4).

> 

> 1.7.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che
le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.

> 

> 1.7.1.– La difesa dell’interveniente eccepisce, in via preliminare,
l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza.

> 

> Le norme censurate verrebbero, infatti, in rilievo solo nell’ipotesi,
teorica ed eventuale, in cui il giudice a quo adottasse un provvedimento
errato con dolo o con colpa grave, costituenti il presupposto della
responsabilità civile dei magistrati (o, meglio, della responsabilità dello
Stato per l’attività dei magistrati). Si dovrebbe, inoltre, trattare di
errore non emendabile tramite i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri
rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, al cui
preventivo esaurimento è subordinata l’azione risarcitoria (art. 4, comma 2,
della legge n. 117 del 1988). Le disposizioni in esame non avrebbero,
pertanto, alcuna incidenza sulla decisione che il rimettente è chiamato ad
assumere nel caso di specie, attinente alla concessione della provvisoria
esecuzione di un decreto ingiuntivo: decisione che implica semplicemente la
verifica del fumus della fondatezza dell’opposizione e dell’esistenza di
eventuali vizi procedurali, e che è destinata, comunque sia, a rimanere
assorbita dalla sentenza di merito.

> 

> Le questioni risulterebbero, dunque, formulate in termini astratti,
facendo leva su ipotetici condizionamenti psicologici da ritenere inidonei,
in relazione all’alta professionalità che caratterizza la funzione
giurisdizionale del magistrato, ad influire sulla sua serenità di giudizio.

> 

> Del tutto privo di consistenza risulterebbe, altresì, l’argomento del
rimettente basato sull’avvenuta introduzione, tra le ipotesi che possono dar
luogo a responsabilità dello Stato e del magistrato, della fattispecie del
«travisamento del fatto o delle prove». Sarebbe, infatti, evidente che, a
prescindere dalla censurata innovazione, il giudice non debba, comunque sia,
travisare i fatti di causa e le prove offerte dalle parti: senza
considerare, poi, che, data la natura eclatante dell’ipotetico errore, esso
sarebbe rimediabile dallo stesso giudice (in sede di revoca del
provvedimento o di pronuncia della sentenza), ovvero dal giudice di appello,
cui la questione andrebbe devoluta come motivo di impugnazione.

> 

> Il giudice a quo non avrebbe neppure prospettato l’esistenza di elementi
di particolare complessità della materia del contendere sottoposta al suo
esame, sicché, anche sotto tale profilo, l’ipotizzata “pericolosità” della
nuova disciplina sulla responsabilità civile risulterebbe meramente
astratta.

> 

> Ove si seguisse il ragionamento del rimettente, d’altro canto, ogni
modifica della legge n. 117 del 1988 diverrebbe rilevante in tutti i giudizi
– civili, penali e amministrativi – «con effetti distorsivi sul
funzionamento dell’intero sistema giudiziario».

> 

> 1.7.2.– Nel merito, le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate.

> 

> Quanto all’inserimento dell’ipotesi del «travisamento del fatto o delle
prove» tra i casi di colpa di grave, detta fattispecie presenterebbe –
contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente – i caratteri della
«limitatezza» e della «tassatività», atti ad escludere la ventilata
compromissione della serenità e imparzialità di giudizio del magistrato.
L’ipotesi in discorso si porrebbe, infatti, al di fuori dell’attività
valutativa cui fa riferimento la clausola di salvaguardia tuttora presente
nell’art. 2, comma 2, della legge n. 117 del 1988 (in base alla quale «non
può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di
diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove»), rappresentandone
un grave ed ingiustificato sviamento determinato da un errore di tale
gravità da escluderne la scusabilità.

> 

> Pur in presenza di possibili «spazi di sovrapposizione» con il cosiddetto
errore revocatorio – ossia con le ipotesi dell’affermazione di un fatto
escluso e della negazione di un fatto risultante incontestabilmente dagli
atti – il concetto di travisamento conserverebbe un proprio autonomo e
definito àmbito di operatività. Il travisamento potrebbe, infatti,
consistere non solo nella «“svista” rappresentativa» che integra l’errore
revocatorio, ma anche nello stravolgimento del dato fattuale, dovuto ad una
macroscopica omissione nella percezione di fatti secondari decisivi, ovvero
della regola di inferenza logica applicata.

> 

> Nell’ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata, il
travisamento dovrebbe risultare, altresì, di assoluta evidenza: prospettiva
nella quale la soluzione adottata dal legislatore si sottrarrebbe a censure
anche sul piano della ragionevolezza.

> 

> 1.7.3.– Quanto, poi, all’abrogazione del filtro di ammissibilità previsto
dall’art. 5 della legge n. 117 del 1988, la ratio dell’intervento andrebbe
rinvenuta nella volontà del legislatore – esplicitata nell’art. 1 della
legge n. 18 del 2015 – di rendere effettiva la disciplina della
responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce
dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Con l’eliminazione della
fase del filtro, si è inteso consentire, in specie, l’accesso diretto del
danneggiato all’azione risarcitoria, tenuto conto di quanto emerso nei
ventisette anni di esperienza applicativa della legge n. 117 del 1988,
durante i quali solo un esiguo numero di domande risarcitorie era approdato
ad un esame nel merito a cognizione piena.

> 

> Non decisivi risulterebbero i richiami del rimettente alle affermazioni
delle sentenze n. 468 del 1990 e n. 18 del 1989, circa il «rilievo»
costituzionale del filtro, le quali non equivarrebbero al riconoscimento
della sua indispensabilità. Al riguardo, si dovrebbe sempre tenere conto del
fatto che l’azione del danneggiato è diretta contro lo Stato (unico
legittimato passivo), essendo rimasta ferma, anche dopo la novella
legislativa, l’impossibilità di agire direttamente contro il magistrato.
Rientrerebbe, quindi, nella discrezionalità del legislatore regolare le
modalità procedurali dell’azione di responsabilità, senza che le relative
scelte incidano sul principio di autonomia e indipendenza della funzione
giurisdizionale, adeguatamente salvaguardato dalla posizione differenziata
del magistrato rispetto alla responsabilità dei pubblici dipendenti prevista
dall’art. 28 Cost.

> 

> Le citate sentenze della Corte costituzionale sono state, d’altro canto,
emesse all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 117 del 1988 e non
potevano tener conto, quindi, né della concreta applicazione della legge da
parte della giurisprudenza interna, né degli approdi della giurisprudenza
comunitaria in punto di responsabilità dello Stato per l’esercizio delle
funzioni giudiziarie (Corte di giustizia, 30 settembre 2003, causa C-224/01,
Gerhard Köbler; Corte di giustizia, Grande Sezione, 12 giugno 2006, causa
C-173/03, Traghetti del Mediterraneo; Corte di giustizia, 24 novembre 2011,
causa C-379/10, Commissione contro Italia).

> 

> Privo di fondamento risulterebbe, inoltre, il timore che, in mancanza del
filtro, possano trovare ingresso azioni palesemente inammissibili o
infondate, idonee a provocare l’astensione del giudice o a minarne la
serenità. L’azione risarcitoria si propone, infatti, contro lo Stato ed è
prevista soltanto una facoltà di intervento volontario del magistrato del
giudizio, con la conseguenza che non sussisterebbe un obbligo di astensione
di quest’ultimo ai sensi dell’art. 51, primo comma, cod. proc. civ.
(l’astensione per gravi ragioni di convenienza, prevista dal secondo comma
dello stesso articolo, è meramente facoltativa ed è subordinata ad
autorizzazione del capo dell’ufficio). Il magistrato non potrebbe, quindi,
neppure essere ricusato dalla parte che si assume danneggiata, dato che la
ricusazione può essere proposta solo nei casi in cui l’astensione è
obbligatoria. La proposizione di cause pretestuose risulterebbe, per altro
verso, scoraggiata dal meccanismo della «condanna aggravata» del litigante
temerario, previsto dall’art. 96 cod. proc. civ.

> 

> Il paventato rischio della sovrapposizione temporale dei due giudizi –
quello da cui deriva il presunto danno e quello di responsabilità –
sussisteva, d’altronde, anche in presenza del filtro, posto che i termini di
definizione di tale fase non erano perentori e che i decreti di
inammissibilità erano soggetti a reclamo davanti alla corte d’appello e indi
a ricorso per cassazione.

> 

> Quanto, infine, all’asserita contraddittorietà dell’eliminazione del
filtro rispetto all’avvenuta introduzione di meccanismi processuali di
valutazione semplificata dell’ammissibilità o della fondatezza in rapporto
al giudizio di appello e al giudizio di cassazione, sarebbe sufficiente
osservare che tali meccanismi attengono ai giudizi di impugnazione, mentre
il filtro previsto dall’art. 5 della legge n. 117 del 1988 ineriva al
giudizio di primo grado. La comparazione andrebbe semmai operata con le
altre controversie disciplinate dal rito ordinario di cognizione davanti al
tribunale in composizione collegiale, rispetto alle quali nessuna previa
delibazione di ammissibilità è prevista.

> 

> 1.7.4.– Riguardo alle censure inerenti alle ricadute dell’abolizione del
filtro sull’azione disciplinare, risulterebbe assorbente il rilievo che, in
precedenza, l’azione disciplinare non era affatto subordinata all’esito
positivo della fase di filtro. L’art. 9 della legge n. 117 del 1988
prevedeva, infatti, che l’azione disciplinare fosse obbligatoriamente
esercitata entro due mesi dalla comunicazione dell’ammissibilità della
domanda, «salvo che non sia stata già proposta». Il superamento della fase
di filtro rappresentava, dunque, un impulso obbligatorio all’azione
disciplinare, ma non una condizione di ammissibilità della stessa.

> 

> L’art. 6 della legge n. 18 del 2015 si sarebbe limitato a modificare il
citato art. 9 della legge n. 117 del 1988 per renderlo coerente con
l’abolizione del filtro, non avendo più senso, dopo di questa, la ricordata
previsione relativa al termine di attivazione del procedimento disciplinare.

> 

> Il timore di procedimenti disciplinari di fronte a domande manifestamente
infondate non avrebbe, quindi, ragion d’essere, posto che simili
procedimenti si concluderebbero con un’archiviazione.

> 

> 1.7.5.– Per quel che attiene all’obbligatorietà dell’azione di rivalsa nei
confronti del magistrato, la difesa dell’interveniente osserva come già
nella previgente disciplina la doverosità dell’azione di rivalsa apparisse
indubbia, alla luce delle previsioni degli artt. 7, comma 1, e 8, commi 1 e
2, della legge n. 117 del 1988. Non avrebbe avuto senso, infatti, far carico
allo Stato di valutare se agire o meno in ripetizione di quanto corrisposto
a causa dell’errore del magistrato (peraltro entro i limiti di
responsabilità previsti dall’art. 8 di detta legge).

> 

> Sarebbe, d’altra parte, arduo ipotizzare casi di manifesti errori di
diritto, gravi violazioni di legge o travisamenti dei fatti o delle prove
idonei a determinare una condanna dello Stato, ma non ad integrare la
negligenza inescusabile del magistrato.

> 

> Nessun pregio avrebbe, altresì, l’assunto del rimettente, secondo il quale
l’obbligo di rivalsa sarebbe ingiustificato nel caso di transazione tra lo
Stato e il danneggiato, essendo evidente che il Presidente del Consiglio dei
ministri non concluderebbe mai delle transazioni su cause manifestamente
infondate, con sicuro insuccesso, poi, dell’azione di rivalsa.

> 

> Nessuna irragionevole disparità di trattamento sarebbe poi ravvisabile
rispetto agli altri dipendenti pubblici, la cui posizione è palesemente
diversa da quella dei magistrati, potendo i primi essere convenuti
direttamente in giudizio dai danneggiati senza alcuna limitazione della
responsabilità dal punto di vista economico.

> 

> 1.7.6.– Quanto, infine, alla censura relativa alla mancata previsione dei
mezzi di copertura finanziaria dei maggiori oneri derivanti dall’ampliamento
delle ipotesi di responsabilità, essa risulterebbe generica e assiomatica,
basandosi su una stima del tutto ipotetica dell’impatto delle nuove
disposizioni in termini di aumento delle cause contro lo Stato.

> 

> 2. – Con ordinanza dell’8 maggio 2015 (r.o. n. 218 del 2015), il Tribunale
ordinario di Treviso ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

> 

> a) dell’art. 7 della legge n. 117 del 1988, nella parte in cui non prevede
che «non può dar luogo a responsabilità personale del singolo magistrato
l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione
del fatto e delle prove in tutti i casi di azione di rivalsa dello Stato nei
confronti del magistrato stesso», per contrasto con gli artt. 101, secondo
comma, e 104, primo comma, Cost.;

> 

> b) dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, nonché degli artt. «4
e/o 7» della legge n. 117 del 1988, come modificati dalla legge n. 18 del
2015, nella parte in cui «non prevedono che il Tribunale competente a
decidere sull’azione di risarcimento proposta contro lo Stato e/o il
Tribunale competente a decidere sull’azione di rivalsa dello Stato nei
confronti del magistrato verifichi con rito camerale la non manifesta
infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilità», per contrasto
con gli artt. 25, 101, 104 e 113 Cost.;

> 

> c) dell’art. 8, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come sostituito
dall’art. 5 della legge n. 18 del 2015, «nella parte in cui prevede che
l’esecuzione della rivalsa nei confronti del magistrato, quando viene
effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, può comportare il pagamento
per rate mensili fino ad un importo corrispondente ad un terzo, anziché ad
un quinto, dello stipendio netto», per contrasto con gli artt. 3 e «101 e
seguenti» Cost.

> 

> 2.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale
nei confronti di una persona imputata del reato di illegale detenzione, nel
territorio dello Stato, di un rilevante quantitativo di tabacco lavorato
estero.

> 

> Riferisce, altresì, che, alla luce delle risultanze dell’istruzione
dibattimentale, l’esito del giudizio dipenderebbe da un’unica questione: se
si possa, cioè, ritenere provato che l’imputato sapesse che all’interno di
un capannone da lui locato era custodito il tabacco di cui al capo di
imputazione. Sul punto non sarebbero state acquisite prove dirette, ma solo
semplici elementi indiziari. La valutazione di elementi di tal fatta
risulterebbe, tuttavia, sempre particolarmente difficile e “rischiosa”,
tanto che lo stesso legislatore ha subordinato la possibilità di desumere un
fatto da indizi ai requisiti della gravità, precisione e concordanza di
questi ultimi (art. 192 cod. proc. pen.).

> 

> Proprio nei procedimenti nei quali i risultati probatori sono meramente
indiziari – e, dunque, di più problematico apprezzamento – si
manifesterebbero i riflessi negativi della nuova disciplina della
responsabilità civile dei magistrati introdotta con la legge n. 18 del 2015.
Alcune previsioni della novella inciderebbero, infatti, sul principio del
libero convincimento del giudice, il quale, per essere indipendente, deve
poter valutare le prove senza temere conseguenze negative secondo l’esito
del suo giudizio. La nuova disciplina, di contro, esporrebbe il giudice alle
pressioni delle parti e, prevedendo come possibile fonte di responsabilità
civile anche la valutazione dei fatti e delle prove, minerebbe «il cuore
dell’attività giurisdizionale». Di fronte alla prospettiva di una
responsabilità per danni, il giudice sarebbe portato, «per forza di cose»,
soprattutto nei casi più difficili, ad assumere la decisione per lui meno
“rischiosa”: decisione che, nel processo penale, si identifica quasi sempre
nell’assoluzione dell’imputato.

> 

> Le questioni sarebbero, dunque, rilevanti, in quanto le norme censurate
inciderebbero, nei sensi indicati, anche sulla valutazione che il rimettente
è chiamato ad operare nel giudizio a quo: conclusione che troverebbe,
d’altra parte, puntuale conforto nelle indicazioni della sentenza della
Corte costituzionale n. 18 del 1989 in precedenza ricordate.

> 

> 2.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo dubita, in
primo luogo, della legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge n. 117
del 1988, come sostituito dall’art. 4 della legge n. 18 del 2015, nella
parte in cui non prevede che «non può dar luogo a responsabilità personale
del singolo magistrato l’attività di interpretazione di norme di diritto né
quella di valutazione del fatto e delle prove in tutti i casi di azione di
rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato stesso».

> 

> Il rimettente rileva come la novella del 2015, nel sostituire il comma 2
dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988, abbia mantenuto fermo solo
formalmente il principio per cui «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie
non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di
diritto né quelle di valutazione del fatto e delle prove». La nuova
disposizione si apre, infatti, con una «eccezione totalizzante» («fatti
salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo»), per effetto della quale la
clausola di salvaguardia non opera in tutti i casi di colpa grave in cui
scatta la responsabilità dello Stato e, in sede di rivalsa, del magistrato:
sicché, nella sostanza – secondo il giudice a quo – «è come se la clausola
non ci fosse».

> 

> Rendere civilmente responsabile il giudice pure per la sua attività di
interpretazione di norme giuridiche e di valutazione del fatto e delle prove
comporterebbe, peraltro, una evidente lesione dei principi di soggezione del
giudice solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.) e di indipendenza
della magistratura (art. 104, primo comma, Cost.). Un simile regime
genererebbe, infatti, il concreto pericolo che il giudice sia portato a
preferire, tra due opzioni ermeneutiche o tra due ricostruzioni probatorie
dei fatti, quella che appare meno rischiosa sul piano di una eventuale
responsabilità risarcitoria, tenuto conto anche del “peso” delle parti in
causa. Sul piano interpretativo, inoltre, il giudice sarebbe indotto –
sempre per limitare i rischi – ad uniformarsi agli indirizzi della Corte di
cassazione e della giurisprudenza europea, con una surrettizia elusione
della regola, desumibile dal citato art. 101, secondo comma, Cost., che
esclude l’efficacia vincolante dei precedenti giurisprudenziali.

> 

> Al fine di rendere conforme a Costituzione la nuova disciplina, sarebbe
necessario – secondo il rimettente – reintrodurre la clausola di
salvaguardia in rapporto all’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del
magistrato: operazione che risulterebbe pienamente rispettosa delle
indicazioni della Corte di giustizia dell’Unione europea, che hanno
costituito il principale stimolo alla riforma. È ben vero, infatti, che la
Corte di Lussemburgo ha ritenuto incompatibile con il diritto comunitario
l’esclusione della responsabilità civile nei casi in cui il danno connesso
all’esercizio di funzioni giudiziarie sia dovuto ad una errata
interpretazione di norme di diritto o ad una errata valutazione del fatto o
delle prove (sentenza 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del
Mediterraneo), ma tale affermazione – come precisato espressamente dalla
sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler – si riferisce solo alla
responsabilità dello Stato, e non anche alla responsabilità personale del
magistrato. Alcuni passaggi delle pronunce della Corte di giustizia
parrebbero, anzi, evocare necessari limiti alla responsabilità personale del
giudice.

> 

> 2.3.– Il Tribunale trevigiano dubita, in secondo luogo, della legittimità
costituzionale dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, che,
abrogando l’art. 5 della legge n. 117 del 1988, ha eliminato qualunque
filtro sulla domanda risarcitoria, nonché degli artt. «4 e/o 7» della legge
n. 117 del 1988, come riformulati, «nella parte in cui non prevedono, per
l’appunto, alcun meccanismo di filtro volto a delibare la manifesta
infondatezza della domanda di risarcimento».

> 

> Il rimettente denuncia innanzitutto il contrasto delle norme censurate con
gli artt. 101, 104 e 113 Cost., ricordando come il «rilievo costituzionale»
del meccanismo di filtro – quale strumento di salvaguardia dei valori
dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura – fosse stato
specificamente affermato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 468
del 1990 e n. 18 del 1989. Il filtro apparirebbe, peraltro, ancora più
necessario nel nuovo regime, essendo tutt’altro che remota la possibilità
che l’azione di responsabilità venga esercitata quando il giudizio in cui si
sarebbe verificato il danno pende ancora dinanzi al giudice “accusato”
dell’illecito civile. È vero, infatti, che l’art. 4, comma 2, della legge n.
117 del 1988, come novellato, subordina l’esercizio dell’azione risarcitoria
contro lo Stato all’esperimento dei mezzi ordinari di impugnazione o dei
rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, ovvero – se
tali rimedi non sono previsti – all’esaurimento del grado di giudizio
nell’àmbito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. Il
successivo comma 3 aggiunge, tuttavia, che «l’azione può essere esercitata
decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal
termine non si è concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il
fatto stesso si è verificato».

> 

> La possibile sovrapposizione dei due giudizi – quello che si assume
produttivo di danno e quello risarcitorio – provocherebbe, peraltro, un
«grave “cortocircuito giudiziario”», che aprirebbe la strada a ricusazioni e
astensioni, con conseguente lesione anche del principio del giudice naturale
precostituito per legge (art. 25 Cost.).

> 

> Il rimettente lascia alla Corte costituzionale il compito di stabilire se,
ai fini della tutela dei valori costituzionali evocati, il filtro debba
riguardare, ab origine, la domanda di risarcimento proposta dal danneggiato
contro lo Stato oppure la successiva domanda di rivalsa dello Stato nei
confronti del magistrato.

> 

> 2.4.– Il giudice a quo censura, infine, l’art. 8, comma 3, della legge n.
117 del 1988, come sostituito dall’art. 5 della legge n. 18 del 2015, «nella
parte in cui prevede che l’esecuzione della rivalsa da parte dello Stato nei
confronti del magistrato, quando viene effettuata mediante trattenuta sullo
stipendio, può comportare il pagamento per rate mensili fino ad un importo
corrispondente ad un terzo dello stipendio».

> 

> Il rimettente rileva come la norma tratti i magistrati in modo deteriore
rispetto a tutti gli altri dipendenti pubblici, i cui emolumenti – in forza
dell’art. 2 del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (Approvazione del testo unico
delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli
stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle Pubbliche Amministrazioni)
e dell’art. 33, ottavo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico
delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello
Stato) – possono formare oggetto di sequestro e di pignoramento solo nei
limiti del quinto del rateo mensile.

> 

> Tale disparità di trattamento, oltre a violare anch’essa gli artt. «101 e
seguenti» Cost., togliendo serenità al magistrato, si porrebbe in contrasto
con l’art. 3 Cost., risultando priva di ogni ragionevole giustificazione.
Quest’ultima non potrebbe essere rinvenuta, in specie, nell’ammontare dello
stipendio, essendovi notoriamente dipendenti pubblici che percepiscono
stipendi più elevati di quello dei magistrati.

> 

> 2.5.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dell’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha
eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza sulla
base di considerazioni analoghe a quelle svolte in rapporto all’ordinanza
r.o. n. 198 del 2015, contestandone, in ogni caso, la fondatezza nel merito.

> 

> Quanto alle questioni aventi ad oggetto l’art. 7 della legge n. 117 del
1988, la difesa dell’interveniente rileva che la cosiddetta clausola di
salvaguardia non è stata eliminata dal legislatore, ma solo ridisegnata
anche al fine di renderla conforme alle pronunce della Corte di giustizia
dell’Unione europea. L’«erosione» della clausola sarebbe stata, d’altra
parte, ragionevolmente circoscritta ai casi di «manifesto e ingiustificato
esercizio non corretto dell’attività di interpretazione delle norme e di
valutazione dei fatti e delle prove».

> 

> Infondate sarebbero anche le questioni inerenti all’abolizione del filtro
di ammissibilità, previsto dall’art. 5 della legge n. 117 del 1988, per le
stesse ragioni indicate in rapporto all’ordinanza r.o. n. 198 del 2015. Con
particolare riguardo all’assunto del rimettente, secondo il quale la Corte
costituzionale dovrebbe valutare se il filtro sia indispensabile in
relazione alla causa contro lo Stato ovvero solo per l’azione di rivalsa,
l’Avvocatura generale dello Stato aggiunge che la presenza del filtro
nell’azione di rivalsa non avrebbe, in realtà, alcun senso, tanto da non
essere prevista neppure nella previgente disciplina.

> 

> Quanto, infine, alle questioni inerenti alla misura della rivalsa, nel
caso di esecuzione mediante trattenuta sullo stipendio, le posizioni poste a
confronto dal rimettente – quella del magistrato e quella degli altri
dipendenti pubblici – sarebbero palesemente diverse e non comparabili.

> 

> 3.– Con ordinanza del 6 febbraio 2016 (r.o. n. 113 del 2016), il Tribunale
ordinario di Catania ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

> 

> a) dell’art. 7 della legge n. 117 del 1988, come sostituito dall’art. 4,
comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui prevede che l’azione
di rivalsa sia esperibile anche nelle ipotesi di ritenuto «travisamento del
fatto o delle prove di cui all’art. 2, commi 2, 3», per contrasto con gli
artt. 3, 24, 28 e «101-113» Cost.;

> 

> b) dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, che ha abrogato
l’art. 5 della legge n. 117 del 1988, per contrasto con gli artt. 3 e
«101-113» Cost.;

> 

> c) dell’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, come modificato
dall’art. 6, comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui prevede
l’obbligo del titolare dell’azione disciplinare di procedere nei confronti
del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento,
a seguito della proposizione dell’azione risarcitoria, indipendentemente
dall’esito della domanda, per contrasto con gli artt. 3, e «101-113» Cost.;

> 

> d) dell’art. 4, comma 3, della legge n. 117 del 1988, per contrasto con
gli artt. 3 e «101-113» Cost.;

> 

> e) dell’art. 8, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come sostituito
dall’art. 5, comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui prevede
che la rivalsa, ove effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, possa
comportare il pagamento per rate mensili fino ad importo corrispondente ad
un terzo dello stipendio netto, anziché ad un quinto, per contrasto con gli
artt. 3, 101 e 111 Cost.

> 

> 3.1.– Il giudice a quo riferisce di essere investito dell’opposizione
proposta da un datore di lavoro avverso l’ordinanza – emessa dallo stesso
Tribunale, nella medesima composizione monocratica – con la quale, in
parziale accoglimento del ricorso proposto da una lavoratrice contro il
licenziamento per giusta causa, era stata disposta la reintegrazione della
medesima nel posto di lavoro a norma dell’art. 18 della legge 20 maggio
1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento).

> 

> L’ordinanza opposta, pur dando atto dell’esistenza di elementi indiziari a
carico della lavoratrice, li aveva ritenuti non sufficienti per considerare
provati gli addebiti a questa mossi (impossessamento illecito di beni
commercializzati dal datore di lavoro), per difetto dei caratteri
dell’univocità e della concordanza (art. 2729 cod. civ.).

> 

> L’opponente aveva censurato aspramente l’ordinanza, sostenendo che essa
avesse disatteso risultanze decisive dell’istruttoria con affermazioni
contrarie «alla logica e al buon senso, prima ancora che ai principi di
diritto», dovendo l’ordinanza stessa, «all’evidenza», «smontare tutte le
prove raccolte per dar credito alla tesi dell’opposta».

> 

> Alla prima udienza di discussione, lo stesso opponente, rilevata
l’identità fisica tra il giudice della fase sommaria e il giudice
dell’opposizione, aveva proposto istanza di ricusazione ai sensi dell’art.
51, numero 4), cod. proc. civ.: istanza rigettata, tuttavia, dal collegio,
sul rilievo che la fase di opposizione, prevista dall’art. 1, comma 51,
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del
mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), non costituisce un
giudizio di impugnazione, ma un giudizio ordinario di cognizione in materia
di lavoro.

> 

> Riassunta la causa, le parti avevano chiesto un rinvio per la discussione,
ritenendo esaustiva l’istruttoria già espletata nella fase sommaria. Nelle
more, era entrata, peraltro, in vigore la legge n. 18 del 2015.

> 

> Tanto premesso, il rimettente rileva come l’oggetto del giudizio di cui è
investito sia costituito dalla conferma, o meno, della decisione assunta
nella fase preliminare, sulla base di una nuova valutazione dello stesso
materiale probatorio. Rileva, altresì, come i vizi che l’opponente addebita
all’ordinanza opposta possano essere ricondotti alla nozione,
particolarmente generica, di «travisamento del fatto o delle prove».
Sarebbe, quindi, del tutto verosimile che il medesimo addebito verrebbe
mosso dalla parte opponente alla decisione di conferma del provvedimento. La
stessa lavoratrice, peraltro, in caso di accoglimento delle tesi avversarie,
potrebbe a sua volta ravvisare un omologo vizio. Sussisterebbe, dunque, la
«reale e tangibile probabilità» che qualsiasi decisione possa essere
contestata «per ritenuto “travisamento del fatto o delle prove”»: ipotesi,
questa, oggi rientrante nei casi di «colpa grave», costituenti presupposto
tanto dell’azione risarcitoria nei confronti dello Stato per i danni
cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, quanto della successiva
azione di rivalsa nei confronti del magistrato.

> 

> La novella legislativa del 2015 ha anche stabilito che l’azione
risarcitoria dia subito luogo ad un giudizio a cognizione piena, essendo
stato abolito il filtro di ammissibilità già previsto dall’art. 5 della
legge n. 117 del 1988; che il titolare dell’azione disciplinare debba
attivarsi indipendentemente da un esito della domanda risarcitoria; che la
misura delle somme ripetibili dallo Stato attraverso la trattenuta sullo
stipendio del magistrato sia elevata ad un terzo (art. 8 della legge n. 117
del 1988, come novellato); che l’azione risarcitoria, decorsi tre anni, sia
esperibile ove il grado di giudizio nel quale il fatto si è verificato non
risulti esaurito (art. 4, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come
novellato).

> 

> Tale complesso di disposizioni sarebbe direttamente rilevante nel giudizio
a quo – considerati i termini della controversia – in quanto idoneo a
pregiudicare la serenità del giudizio, l’imparzialità ed il libero
convincimento di esso rimettente: il timore di poter subire svantaggi –
anche solo sul piano dell’esigenza di svolgere «una considerevole attività
difensiva» – potrebbe indurre, infatti, il giudice, «anche inconsapevolmente
o in maniera del tutto istintiva, ad adottare una decisione, anziché
un’altra, non perché ritenuta più corretta […], ma solo perché, per lui,
meno rischiosa».

> 

> Né varrebbe obiettare che la decisione emananda è suscettibile di
impugnazione, posto che, nel caso di conferma della sentenza nei successivi
gradi di giudizio, l’eventuale domanda risarcitoria riguarderebbe, comunque
sia, anche e innanzitutto, l’operato del giudice di primo grado.

> 

> Le conclusioni ora esposte sarebbero, d’altronde, conformi – anche secondo
il Tribunale di ordinario di Catania – alle affermazioni contenute nella
sentenza n. 18 del 1989 della Corte costituzionale.

> 

> 3.2.– Ciò posto, il giudice a quo dubita, anzitutto, della legittimità
costituzionale dell’art. 7 della legge n. 117 del 1988, come sostituito
dall’art. 4, comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in cui prevede
che l’azione di rivalsa sia esperibile anche nelle ipotesi di ritenuto
«travisamento del fatto o delle prove di cui all’art. 2, commi 2, 3».

> 

> Ad avviso del rimettente, la disposizione violerebbe l’art. 3 Cost.,
riducendo irragionevolmente, se non addirittura eliminando, «il carattere
tassativo delle ipotesi per le quali il magistrato, nell’attività di
valutazione del fatto o delle prove, può essere convenuto civilmente in sede
di rivalsa»: carattere di fronte al quale la giurisprudenza costituzionale
(e, in particolare, la sentenza n. 18 del 1989) aveva escluso che
l’originario impianto della legge n. 117 del 1988 si esponesse a rilievi sul
piano della legittimità costituzionale.

> 

> La formula «travisamento del fatto o delle prove» – evidentemente non
riferibile alle ipotesi dell’affermazione o della negazione di un fatto
incontrastabilmente escluso o emergente dagli atti del procedimento, già
originariamente contemplate dalla legge n. 117 del 1988 e da essa tuttora
menzionate – risulterebbe, infatti, generica ed ambigua, apparendo idonea a
ricomprendere un numero indefinito di casi e prestandosi, perciò, a letture
soggettive e opinabili.

> 

> L’ipotesi di responsabilità in questione rischierebbe, quindi, di
instaurare «una sorta di “contro-processo”», sovrapponendo al giudizio del
giudice naturale precostituito per la definizione della controversia quello
di altro giudice, con sostanziale soppressione della clausola di
salvaguardia pure formalmente ribadita dall’art. 2, comma 2, della legge n.
117 del 1988, volta a tutelare «l’indipendenza del giudice nel cuore della
propria attività» (quella di valutazione del fatto e delle prove).

> 

> La norma censurata violerebbe anche il «principio di legalità» desumibile
dalle previsioni degli artt. 28 e 101 Cost., in forza del quale dovrebbe
essere il legislatore a stabilire in quali casi il giudice è civilmente
responsabile. Con l’adozione di formule così generiche quale quella
censurata, il predetto compito verrebbe, di fatto, delegato al giudice
dell’azione risarcitoria, con conseguente rischio di affermazioni di
responsabilità basate semplicemente sulla mancata condivisione dei criteri
valutativi e interpretativi applicati nel giudizio che si assume produttivo
di danno.

> 

> Sarebbero violati, ancora, i principi di indipendenza ed autonomia del
giudice «di cui agli artt. 101-113 Cost.». La mera possibilità che il
giudice sia sottoposto ad azione di rivalsa per aver “travisato” il
materiale probatorio o il fatto genera il pericolo che egli sia indotto a
scegliere, tra più opzioni disponibili, non quella ritenuta più giusta, ma
quella che appare «meno rischiosa», favorendo così – in contrasto con il
principio del libero convincimento – «atteggiamenti remissivi o
conformisti».

> 

> In questo modo, il giudice verrebbe anche privato – in contrasto con
l’art. 111 Cost. – della sua terzietà, perdendo la propria necessaria
“indifferenza” rispetto alle parti e alla causa. Il timore di pregiudizi
personali lo porterebbe, infatti, «istintivamente» ad adottare soluzioni
“accomodanti”, tanto più quando taluna delle parti vanti particolari risorse
economiche od ostenti «atteggiamenti audaci ovvero velatamente minacciosi».

> 

> Il pericolo di condizionamenti non è escluso dal fatto che, in base alla
norma denunciata, l’azione di rivalsa deve essere esercitata solo se il
travisamento del fatto o delle prove siano stati determinati da dolo o da
«negligenza inescusabile». Tale condizione non è, infatti, prevista
dall’art. 2, comma 3, della legge n. 117 del 1988, nel testo vigente, ai
fini della proponibilità dell’azione risarcitoria nei confronti dello Stato.
Di conseguenza, il mero risarcimento del danno per ritenuto travisamento
assoggetterebbe il giudice alla decisione del Presidente del Consiglio dei
ministri di attivare l’azione di rivalsa, potendo ogni ulteriore valutazione
dell’elemento soggettivo rilevare in tale sede. In ogni caso, il presunto
travisamento potrebbe attenere ad una attività di valutazione che il giudice
ha svolto con perfetta consapevolezza, nell’adempimento del suo dovere di
decidere secondo il proprio convincimento: sicché egli potrebbe essere
chiamato a rispondere addirittura per aver travisato il fatto con dolo.

> 

> Per superare gli esposti rilievi non si potrebbe far leva sugli indirizzi
della giurisprudenza comunitaria, secondo i quali l’esclusione della
responsabilità civile, nei casi di danno determinato da un’errata
interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto o delle
prove, non è compatibile con il diritto dell’Unione europea. L’affermazione
riguarda, infatti, la sola responsabilità dello Stato e non investe la
responsabilità del singolo giudice, rispetto alla quale, anzi, lo stesso
Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa – con la raccomandazione
CM/Rec(2010) 12 del 17 novembre 2010 – ha sollecitato gli Stati aderenti ad
evitare aggravamenti suscettibili di minacciare un esercizio della funzione
giurisdizionale conforme ai principi dello Stato di diritto. Le limitazioni
apposte dalla legge n. 18 del 2015 alla clausola di salvaguardia («Fatti
salvi i commi 3 e 3-bis») sarebbero quindi giustificabili in rapporto alla
responsabilità dello Stato, ma non in relazione alla responsabilità del
giudice.

> 

> 3.3.– Il Tribunale etneo dubita, altresì, della legittimità costituzionale
dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, che abroga l’art. 5 della
legge n. 117 del 1988.

> 

> L’eliminazione, «senza […] appositi bilanciamenti», del filtro di
ammissibilità sulla domanda risarcitoria previsto dalla norma abrogata
violerebbe i principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di indipendenza e
autonomia della magistratura (artt. «101-113» Cost.). In occasione dello
scrutinio dell’impianto originario della legge n. 117 del 1988, la Corte
costituzionale aveva, infatti, posto in rilievo come il meccanismo fosse
indispensabile al fine di garantire i valori costituzionali evocati, ponendo
al riparo il magistrato da azioni temerarie e intimidatorie (sentenze n. 468
del 1990 e n. 18 del 1989).

> 

> La soppressione del filtro non potrebbe essere logicamente giustificata
con la supposizione che l’istituto abbia favorito, in passato, atteggiamenti
«di tipo corporativo», posto che analoghi atteggiamenti potrebbero, comunque
sia, manifestarsi, dopo la sua scomparsa, nelle sedi di merito. L’intervento
sarebbe contrario, per converso, alle esigenze di deflazione e di efficienza
del sistema, creando fenomeni di congestione degli uffici giudiziari
competenti sulle domande risarcitorie.

> 

> Nell’attuale sistema, d’altro canto, qualsiasi domanda risarcitoria,
indipendentemente dalla sua fondatezza, esporrebbe il giudice a pregiudizi
di carattere non patrimoniale, dovendo egli preoccuparsi di predisporre
un’adeguata difesa, eventualmente già come interveniente nel giudizio
risarcitorio ai sensi dell’art. 6 della legge n. 117 del 1988. Di qui un
ulteriore possibile stimolo a scelte accomodanti e arrendevoli.

> 

> 3.4.– Il rimettente censura ancora, per violazione dei medesimi parametri
costituzionali, l’art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, come
sostituito dall’art. 6, comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in
cui prevede l’obbligo del titolare dell’azione disciplinare di procedere nei
confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di
risarcimento, a seguito della mera proposizione di quest’ultima,
indipendentemente dall’esito della domanda.

> 

> Tale modifica – conseguente alla soppressione del filtro di ammissibilità
– violerebbe anch’essa i principi di indipendenza, terzietà ed imparzialità
del giudice, facendo sì che quest’ultimo possa risultare esposto
contemporaneamente, a seguito della mera proposizione della domanda
risarcitoria, «a più oneri difensivi, sia in sede risarcitoria che in sede
disciplinare, anche in chiave meramente preventiva», con conseguenti rischi
di condizionamento della sua serenità di giudizio.

> 

> La norma violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., apparendo irragionevole
imporre l’avvio del procedimento disciplinare a prescindere da ogni
valutazione di fondatezza della domanda risarcitoria, con il risultato di
provocare intuibili disfunzioni sia presso l’ufficio del giudice coinvolto
(le cui energie verrebbero distolte dall’esigenza di curare le proprie
difese), sia presso l’ufficio titolare dell’azione disciplinare.

> 

> 3.5.– Il rimettente ventila, poi, l’illegittimità costituzionale dell’art.
4, comma 3, della legge n. 117 del 1988, ove si stabilisce – in deroga alla
regola generale enunciata dal comma 2 dello stesso articolo – che l’azione
risarcitoria può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che
ha cagionato il danno, se in tale termine non si è concluso il grado del
procedimento nell’àmbito del quale il fatto stesso si è verificato.

> 

> La norma denunciata violerebbe gli artt. 3 e «101-113» Cost., in quanto
idonea «a turbare la serenità, l’indipendenza e, dunque, l’imparzialità del
giudice». Questi, nell’ipotesi di prolungamento del giudizio nel medesimo
grado oltre i tre anni, potrebbe, infatti, veder promossa un’azione
risarcitoria riferita ad un proprio provvedimento interinale, pur essendo
ancora investito della causa. In questo modo, la serenità del giudicante –
chiamato a confermare le valutazioni interinali cui è riferita la domanda
risarcitoria – risulterebbe del tutto compromessa. Il condizionamento
dell’autonomia di giudizio – acuito dall’avvenuta abolizione del filtro di
ammissibilità su detta domanda – potrebbe, peraltro, estendersi anche al
giudice del grado successivo, chiamato a verificare la correttezza
dell’operato del primo giudice.

> 

> La soluzione costituzionalmente corretta – anche in un’ottica di
bilanciamento degli interessi contrapposti – sarebbe, per converso, quella
di differire, in ogni caso, l’esperibilità dell’azione risarcitoria al
momento in cui il provvedimento che si assume dannoso non sia più
modificabile.

> 

> 3.6.– Con i medesimi parametri costituzionali si porrebbe in contrasto, da
ultimo, anche l’art. 8, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come
sostituito dall’art. 5, comma 1, della legge n. 18 del 2015, nella parte in
cui prevede che la rivalsa, ove effettuata mediante trattenuta sullo
stipendio, possa comportare il pagamento per rate mensili fino ad un importo
corrispondente ad un terzo dello stipendio netto, anziché ad un quinto.

> 

> La norma censurata discriminerebbe, infatti, irragionevolmente i
magistrati rispetto agli altri dipendenti pubblici – le cui retribuzioni, a
mente degli artt. 2 del d.P.R. n. 180 del 1950 e 3, ottavo comma, del d.P.R.
n. 3 del 1957, sono sequestrabili e pignorabili solo fino a concorrenza di
un quinto – perturbando, una volta ancora, con il timore di una così
rilevante compressione dei propri emolumenti, il sereno svolgimento delle
loro funzioni.

> 

> 3.7.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo
l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, sulla base di
considerazioni analoghe a quelle già svolte in rapporto alle precedenti
ordinanze di rimessione.

> 

> Le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate.

> 

> Con riguardo alle prime tre delle cinque norme censurate, la difesa
dell’interveniente ripropone argomenti similari a quelli prospettati nei
precedenti atti di intervento. In particolare, con riguardo alle questioni
concernenti l’art. 7 della legge n. 117 del 1988, ribadisce che il concetto
di «travisamento» non sarebbe affatto ambiguo e generico e, soprattutto,
esulerebbe dall’àmbito dell’attività valutativa, rappresentandone un grave e
ingiustificato sviamento. La circostanza, poi, che l’azione di rivalsa
presupponga, a mente della disposizione censurata, il dolo o la negligenza
inescusabile del magistrato escluderebbe senz’altro il rischio che questi
possa essere chiamato a rispondere civilmente per la mera «non condivisione»
dei criteri valutativi e interpretativi da lui applicati. Del tutto
infondato sarebbe, altresì, l’assunto del rimettente stando al quale la
consapevole scelta della decisione da parte del giudice potrebbe addirittura
integrare il «dolo». Quest’ultimo si configurerebbe, infatti, solo nei casi
di scelte contra legem perché frutto di interessi o di accordi illeciti, e
non perché si tratti di scelte «consapevoli».

> 

> Riguardo, poi, alle questioni che investono l’art. 4, comma 3, della legge
n. 117 del 1988, l’Avvocatura generale dello Stato rileva come sia
comprensibile e ragionevole che, a tutela del danneggiato, sia prevista la
possibilità di agire per il risarcimento quando il grado di giudizio non si
sia concluso nel termine di tre anni. Il riconoscimento di tale facoltà –
peraltro di rara esplicazione pratica – trova, infatti, giustificazione
nella irragionevole durata del grado del procedimento in cui si è verificato
il fatto dannoso. La circostanza che penda una causa risarcitoria contro lo
Stato non dovrebbe, d’altra parte, in alcun modo intaccare la serenità di
giudizio del magistrato che ha operato secondo diligenza.

> 

> Infondate, da ultimo, risulterebbero anche le questioni relative
all’esecuzione della rivalsa, per le stesse ragioni già indicate in rapporto
alle omologhe questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Treviso.

> 

> 4.– Con ordinanza del 25 febbraio 2016 (r.o. n. 126 del 2016), il
Tribunale ordinario di Enna ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale:

> 

> a) dell’art. 2, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come sostituito
dall’art. 2, comma 1, lettera c), della legge n. 18 del 2015, nella parte in
cui, secondo il diritto vivente, configurerebbe come «colpa grave» del
magistrato, per «violazione manifesta del diritto», l’adozione di
un’interpretazione di norme di diritto contrastante con quella adottata
dalla Corte costituzionale in una pronuncia interpretativa di rigetto, resa
in un diverso processo, per violazione degli artt. 101, secondo comma, 104,
primo comma, 107, terzo comma, e 134 Cost.;

> 

> b) dell’art. 2, comma 2, della legge n. 117 del 1988, come sostituito
dall’art. 2, comma 1, lettera b), della legge n. 18 del 2015, nella parte in
cui, secondo il diritto vivente, non estenderebbe la clausola di esclusione
della responsabilità per l’«interpretazione delle norme di diritto» anche
all’ipotesi in cui l’interpretazione accolta dal giudice sia in contrasto
con quella adottata dalla Corte costituzionale in una pronuncia
interpretativa di rigetto, resa in un diverso processo, per violazione degli
artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, 107, terzo comma, e 134 Cost.

> 

> 4.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del giudizio di
opposizione a un decreto ingiuntivo, emesso per il pagamento della somma di
euro 13.679,92 a titolo di regresso nell’àmbito di un contratto di
fideiussione.

> 

> Il debitore ingiunto aveva dedotto, a fondamento dell’opposizione,
l’usurarietà degli interessi applicati dalla banca garantita sulle rate di
mutuo rimaste inadempiute, per il cui pagamento era stato escusso il
fideiussore ingiungente. Quest’ultimo, nel costituirsi in giudizio, aveva
contestato le avverse deduzioni, aveva chiesto di chiamare in causa la banca
e, infine, aveva fatto istanza per la concessione della provvisoria
esecuzione del decreto ingiuntivo opposto.

> 

> Con riguardo a tale ultima istanza, il rimettente rileva che l’opposizione
– oltre a non apparire di pronta soluzione – non risulta neppure fondata su
prova scritta. Alla luce del tenore letterale dell’art. 648, primo comma,
cod. proc. civ., ciò dovrebbe portare all’accoglimento della richiesta
dell’ingiungente, impedendo una rivalutazione in fase di opposizione della
prova documentale da questi offerta in sede monitoria: soluzione che
risulterebbe conforme al principio di ragionevole durata del processo,
apparendo «superfluo» e illogico sottoporre a due diversi giudici la
valutazione delle stesse prove, in un ristretto arco temporale.

> 

> La Corte costituzionale, tuttavia, con una pronuncia interpretativa di
rigetto – l’ordinanza n. 295 del 1989 – ha offerto una diversa lettura della
disposizione, affermando che anche «nel procedimento di opposizione a
decreto ingiuntivo, non fondata su prova scritta, la concessione della
provvisoria esecuzione […] deve ovviamente essere esercitata – come in ogni
ipotesi di misura avente (anche) natura cautelare – attraverso la congiunta
valutazione del fumus boni iuris e del periculum in mora». La riconduzione
del provvedimento previsto dall’art. 648 cod. proc. civ. nell’alveo dei
provvedimenti lato sensu cautelari, quindi, legittimerebbe – secondo la
Corte – una rivalutazione dell’intero materiale offerto dalla parte
creditrice anche di fronte a un’opposizione non fondata su prova scritta.

> 

> In una simile situazione, verrebbero in rilievo, ai fini della decisione
che il giudice a quo è chiamato ad assumere, alcune delle disposizioni della
legge n. 117 del 1988 – e, in particolare, il suo art. 2, commi 2 e 3 –
«così come interpretate dal diritto vivente della Corte di cassazione».

> 

> Secondo il rimettente, le sezioni unite civili della Corte di cassazione
avrebbero infatti affermato, con la sentenza 16 dicembre 2013, n. 27986, che
le pronunce interpretative di rigetto della Corte costituzionale hanno
effetto vincolante nei confronti di tutti i giudici comuni, e non solo del
giudice che ha sollevato l’incidente di costituzionalità. Con altra
pronuncia (sezione terza civile, 5 novembre 2013, n. 24798), la Corte di
cassazione avrebbe, altresì, ritenuto che l’adozione di una soluzione
interpretativa rifiutata dalla Corte costituzionale in una pronuncia
interpretativa di rigetto costituisca, per il giudice, una «grave violazione
di legge determinata da negligenza inescusabile», ai sensi dell’originario
testo dell’art. 2, comma 3, lettera a), della legge n. 117 del 1988:
affermazione riferita proprio a fattispecie nella quale il giudice si era
discostato dall’interpretazione adottata dalla citata ordinanza della Corte
costituzionale n. 295 del 1989, in punto di presupposti per la concessione
della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo.

> 

> Sulla ricordata conclusione non inciderebbero le modifiche normative
operate dalla legge n. 18 del 2015: la nozione di «manifesta violazione
della legge», utilizzata dalla novella, sarebbe infatti sovrapponibile a
quella di «grave violazione di legge», da essa sostituita.

> 

> Di conseguenza, per non incorrere in responsabilità, il giudice a quo
dovrebbe – a suo avviso – scartare a priori una delle possibili opzioni
interpretative dell’art. 648 cod. proc. civ. (la prima dianzi prospettata).
Una motivazione che disattendesse expressis verbis l’interpretazione accolta
dall’ordinanza n. 295 del 1989 esporrebbe il rimettente – sempre secondo la
sua ricostruzione – addirittura ad una responsabilità diretta nei confronti
delle parti, potendosi configurare una ipotesi di dolo.

> 

> Di qui, dunque, la rilevanza delle questioni, anche alla luce dei principi
affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 18 del 1989 e
implicitamente ribaditi – a parere del rimettente – nella sentenza n. 237
del 2013.

> 

> 4.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale di Enna assume
che le norme censurate – nella parte in cui, secondo il «diritto vivente»,
configurano come ipotesi di «colpa grave» del giudice l’adozione di una
interpretazione contrastante con quella adottata dalla Corte costituzionale
in una pronuncia interpretativa di rigetto resa in un diverso processo –
violerebbero i principi di soggezione del giudice soltanto alla legge e di
indipendenza della magistratura, espressi dagli artt. 101, secondo comma,
104, primo comma, e 107, terzo comma, Cost.

> 

> Detti principi, sottraendo il giudice ad ogni vincolo gerarchico,
escluderebbero che possa attribuirsi efficacia vincolante ad interpretazioni
di disposizioni di legge provenienti da giurisdizioni superiori, compresa la
Corte costituzionale. Diversamente opinando, si attribuirebbe alla Corte –
in violazione dell’art. 134 Cost. – una «funzione nomofilattica»,
riconoscendo a tale organo, non solo il potere di dichiarare erga omnes
l’incompatibilità della legge con la Costituzione, ma anche il «monopolio
interpretativo della compatibilità tra legge e Costituzione».

> 

> 4.3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo
l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza.

> 

> Le norme della cui compatibilità costituzionale si dubita verrebbero,
infatti, in rilievo solo in linea teorica ed eventuale, qualora il giudice a
quo decidesse di disattendere il richiamato orientamento della Corte
costituzionale. Peraltro, il Tribunale rimettente non avrebbe neppure
indicato le ragioni che dovrebbero indurlo ad una simile opzione.

> 

> Ove pure, poi, il giudice a quo si ritenesse vincolato all’interpretazione
della Corte costituzionale riguardo alla natura del giudizio sulla
concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, potrebbe
pur sempre sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 648
cod. proc. civ. Questa soltanto sarebbe, in effetti, la norma rilevante nel
giudizio a quo, e non già le disposizioni sulla responsabilità civile dei
magistrati. Nella stessa sentenza delle sezioni unite civili della Corte di
cassazione citata dal rimettente si afferma specificamente, del resto, che
il vincolo che deriva, sia per il giudice a quo che per tutti i giudici
comuni, dalle pronunce interpretative di rigetto è solo negativo,
consistendo nell’imperativo di non applicare la “norma” ritenuta non
conforme al parametro scrutinato dalla Corte costituzionale. Non è preclusa,
invece, la possibilità di seguire “terze interpretazioni” ritenute
compatibili con la Costituzione, oppure di sollevare nuovamente, in diversi
gradi dello stesso processo a quo o in diversi processi, la questione di
legittimità costituzionale della medesima disposizione sulla base
dell’interpretazione rifiutata dalla Corte costituzionale.

> 

> Non pertinente risulterebbe, altresì, il richiamo del giudice a quo alla
sentenza della Corte di cassazione n. 24798 del 2013, concernente una
fattispecie nella quale il giudice aveva negato l’esistenza del fumus boni
iuris, concedendo, ciò nondimeno, la provvisoria esecuzione del decreto
opposto.

> 

> Nel merito, la questione sarebbe, ad ogni modo, infondata. La clausola di
salvaguardia, in base alla quale «non può dar luogo a responsabilità
l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione
del fatto e delle prove», sarebbe rimasta inalterata nell’impianto della
legge n. 117 del 1988 anche dopo le modifiche di cui alla legge n. 18 del
2015, «salva la sua erosione derivante anche dagli interventi della Corte di
Giustizia dell’Unione Europea». In ogni caso, tale clausola cesserebbe di
operare nei casi di «manifesto ed ingiustificato esercizio non corretto
dell’attività di interpretazione delle norme», quale quello del giudice che
si discostasse immotivatamente dal diritto vivente e dall’unica opzione
ermeneutica suggerita dalla Corte costituzionale come legittima, senza
sollevare un nuovo incidente di costituzionalità.

> 

> 5.– Con ordinanza del 10 maggio 2016 (r.o. n. 130 del 2016), il Tribunale
ordinario di Genova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, che ha abrogato l’art. 5
della legge n. 117 del 1988, per contrasto con gli artt. 3, 25, 101, 104 e
111 Cost.

> 

> 5.1.– Il Tribunale premette di essere investito della causa civile per
risarcimento del danno promossa nei confronti del Presidente del Consiglio
dei ministri, con ricorso depositato il 2 aprile 2015, da una persona che si
assume danneggiata dall’operato di alcuni giudici del Tribunale di Firenze e
della Corte d’appello di Firenze. Il ricorrente si era lamentato del fatto
che il Tribunale fiorentino, con sentenza poi confermata dalla Corte
d’appello, avesse dichiarato il fallimento di una società in accomandita
semplice e del ricorrente stesso, quale socio illimitatamente responsabile,
senza che gli fosse stato dato valido avviso dell’udienza a seguito della
quale il fallimento era stato pronunciato. Il ricorso per cassazione
dell’interessato era stato accolto con sentenza del maggio 2013, che aveva
annullato la sentenza di fallimento rimettendo gli atti al giudice di primo
grado. Nel 2011, peraltro – e, dunque, prima ancora della pronuncia della
Corte di cassazione – il fallimento era stato chiuso per mancanza di attivo.

> 

> L’Avvocatura dello Stato, nel giudizio a quo, aveva contestato la pretesa
del ricorrente, eccependo l’inammissibilità della domanda sotto un duplice
profilo: da un lato, per tardività, in quanto, trattandosi di fallimento
chiuso nel 2011, il ricorso sarebbe stato depositato oltre il termine
previsto a pena di decadenza dalla legge n. 117 del 1988; dall’altro, per
mancato esperimento di tutti i mezzi di impugnazione, non avendo il
ricorrente riassunto il giudizio dopo l’annullamento con rinvio della
decisione della Corte d’appello. Nel merito, la difesa dello Stato aveva
negato la sussistenza dei vizi procedurali denunciati dal ricorrente.

> 

> Il giudice istruttore – sul presupposto che l’abolizione del filtro di
ammissibilità, disposta dall’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015,
dovesse ritenersi inoperante in rapporto alle domande risarcitorie proposte
dopo l’entrata in vigore della novella, ma per illeciti anteriori ad essa
(quale quella in esame) – aveva rimesso le parti davanti al collegio per la
deliberazione preliminare di ammissibilità ai sensi del previgente art. 5
della legge n. 117 del 1988.

> 

> Il collegio rimettente ritiene, tuttavia, di dover aderire alle opposte
indicazioni della giurisprudenza di legittimità, secondo le quali la
soppressione del filtro opera anche rispetto alle domande relative agli
illeciti pregressi: circostanza che gli imporrebbe di restituire la causa al
giudice istruttore per la prosecuzione del giudizio nelle forme ordinarie.
Di qui, dunque, la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale
della citata norma abrogatrice.

> 

> 5.2.– Ciò premesso, il rimettente denuncia, in primo luogo, la violazione
dell’art. 111 Cost., assumendo che il filtro di ammissibilità costituisca
strumento imprescindibile per l’attuazione del «giusto processo» sia
nell’àmbito del giudizio risarcitorio promosso dal danneggiato contro lo
Stato, sia nell’àmbito del giudizio in cui si è verificato il fatto che si
assume dannoso.

> 

> Sul primo versante, il filtro risulterebbe essenziale al fine di
assicurare la ragionevole durata del giudizio risarcitorio. In virtù di
esso, il collegio era chiamato a valutare in limine litis l’ammissibilità e
la non manifesta infondatezza della domanda, nel comune interesse del
soggetto che si pretendeva danneggiato e dello Stato, dichiarando
immediatamente l’eventuale inammissibilità con decreto, la cui procedura di
impugnazione era «snella e compressa» e, soprattutto, «alleggerita della
valutazione del merito». A seguito dell’abolizione del filtro, i tempi per
pervenire ad una pronuncia sull’ammissibilità sono invece quelli del
processo ordinario, di «lunghezza eccessiva ed irragionevole», senza
considerare, poi, i maggiori tempi dell’impugnazione, «appesantita dalla
commistione tra profili di ammissibilità e profili di merito».

> 

> Tali effetti negativi della riforma sarebbero bene apprezzabili nel caso
sottoposto all’esame del rimettente, nel quale potrebbero rivelarsi fondate
alcune delle eccezioni di inammissibilità formulate dalla difesa del
Presidente del Consiglio dei ministri, con la conseguenza che la pronuncia
immediata su di esse consentirebbe uno svolgimento della causa «adeguato ai
principi di effettività e celerità della tutela».

> 

> L’intervento considerato si porrebbe, d’altra parte, in frizione con la
recente introduzione, da parte del legislatore, di «pronunce semplificate di
inammissibilità» in rapporto alle impugnazioni ordinarie, quali quelle
previste dagli artt. 360-bis e 375, primo comma, numeri 1) e 5), cod. proc.
civ., riguardo al ricorso per cassazione, e dagli artt. 348-bis e 348-ter
cod. proc. civ., in relazione all’appello. Per questo verso, la soppressione
del filtro di ammissibilità disposta dalla legge n. 18 del 2015 si porrebbe
in contrasto anche con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza (art. 3
Cost.), posto che il giudizio sulla responsabilità civile del giudice
assumerebbe assai spesso il carattere di un “processo sul processo”,
presentando, perciò, evidenti «comunanze logiche» con le impugnazioni.

> 

> L’abolizione del filtro pregiudicherebbe, peraltro, l’attuazione del
giusto processo anche nel giudizio nel quale si assume essersi verificato il
fatto dannoso. Le peculiarità dell’attività giurisdizionale – in
particolare, la circostanza che ogni processo comporti un pregiudizio per
almeno una delle parti – e la difficoltà che la parte soccombente
incontrerebbe nel comprendere quando vi sia stato realmente un cattivo
esercizio della giurisdizione incentiverebbero, infatti, la proposizione di
azioni di responsabilità anche inammissibili o palesemente infondate. Un
meccanismo di filtro che blocchi sul nascere iniziative di tal fatta
assumerebbe, quindi, una essenziale funzione di tutela della serenità di
giudizio del magistrato.

> 

> Per converso, l’assenza del filtro genererebbe il rischio della cosiddetta
«giurisprudenza “difensiva”», ossia che il giudice si curi – già nel
processo “a monte” – del proprio interesse e della propria difesa, abdicando
alla propria posizione di terzietà ed imparzialità. Tale atteggiamento
potrebbe manifestarsi in varie forme, dal semplice ricorso a motivazioni
ridondanti e poco aderenti al caso concreto, sino al vero e proprio
“snaturamento” del contenuto delle decisioni, secondo quale fra le parti
possa più facilmente proporre un’azione di responsabilità: e ciò specie in
presenza di parti «agguerrite o già larvatamente minacciose».

> 

> L’abolizione del meccanismo in questione – impedendo l’immediata
declaratoria di inammissibilità della domanda per mancato esaurimento dei
mezzi di impugnazione – favorirebbe, altresì, la contemporanea pendenza del
giudizio di responsabilità intentato nei confronti dello Stato e di quello
che vi ha dato origine, con conseguente lesione anche del principio del
contraddittorio. Sarebbe, infatti, ben difficile che la controparte di un
soggetto che ha proposto azione di responsabilità civile «possa essere certa
di non avere un trattamento diverso da parte di un giudice “coinvolto”».

> 

> Risulterebbero violati anche i principi di soggezione del giudice solo
alla legge (art. 101 Cost.) e di autonomia e indipendenza della magistratura
(art. 104 Cost.). La giurisprudenza costituzionale, infatti, avrebbe posto
in evidenza a più riprese come la presenza di un filtro, che ponga il
giudice al riparo da domande temerarie o intimidatorie, debba ritenersi
indispensabile per la salvaguardia di detti valori (sono citate le sentenze
n. 468 del 1990, n. 18 del 2015 e n. 2 del 1968).

> 

> Da ultimo, il giudice a quo ravvisa la violazione del principio del
giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.).

> 

> Secondo il rimettente, sarebbe condivisibile l’orientamento della
giurisprudenza di legittimità in base al quale la proposizione di un’azione
di responsabilità, ai sensi della legge n. 117 del 1988, quando è ancora
pendente il primo giudizio non comporta automaticamente un obbligo di
astensione per il giudice di quest’ultimo, né consente alle parti di
ricusarlo. In mancanza del filtro, tuttavia, il magistrato sarebbe
incentivato ad esercitare la facoltà di intervento nel giudizio
risarcitorio, non essendo più nettamente distinto l’esame dei profili di
ammissibilità della domanda da quello del merito: opzione che, rendendolo
parte di quel giudizio, farebbe scattare l’obbligo di astensione nel
processo originario ai sensi dell’art. 51, primo comma, numero 3), cod.
proc. civ. Anche laddove non sussista tale obbligo, il giudice potrebbe
ravvisare, comunque sia, gravi ragioni di convenienza per un’astensione
facoltativa, «che difficilmente gli verrebbe negata».

> 

> La proposizione dell’azione di responsabilità potrebbe, pertanto,
costituire uno strumento per distogliere la causa dal suo giudice naturale,
specie nei casi in cui il magistrato assegnatario della stessa abbia assunto
decisioni interinali che facciano presagire la soccombenza di una delle
parti.

> 

> 5.3.– Intervenuto a ministero dell’Avvocatura generale dello Stato, il
Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle
questioni per difetto di rilevanza.

> 

> Il collegio rimettente non avrebbe, infatti, considerato che, essendo
stato investito della decisione dal giudice istruttore a norma dell’art. 189
cod. proc. civ., avrebbe potuto, comunque sia, definire nel merito la
controversia, a prescindere dal previo esame della domanda in sede di
filtro. Nella stessa ordinanza di rimessione si rileva, d’altro canto, che
alcune delle eccezioni di inammissibilità prospettate dalla parte convenuta
potrebbero rivelarsi fondate. Di conseguenza, il collegio avrebbe dovuto
darsi carico di verificare se la causa potesse essere decisa, esaminando le
questioni preliminari pur di fronte all’erronea rimessione della causa da
parte del giudice istruttore sulla base della disciplina previgente.

> 

> Nel merito, le questioni sarebbero, ad ogni modo, infondate.

> 

> Quanto al dedotto contrasto con l’art. 111 Cost., la difesa
dell’interveniente rileva che, pur essendo ovvio che un rito accelerato è
più breve di un rito ordinario, nondimeno anche l’ordinario giudizio di
cognizione si presta ad essere definito in tempi brevi in base alle
scansioni processuali delineate dalla normativa vigente, sulle quali possono
incidere negativamente solo mere circostanze di fatto, irrilevanti ai fini
del giudizio di costituzionalità, quali l’organizzazione degli uffici
giudiziari o la limitatezza delle risorse disponibili.

> 

> Né l’eliminazione del filtro potrebbe ritenersi contraddittoria rispetto
all’avvenuta introduzione di meccanismi di valutazione preliminare
dell’ammissibilità e della non manifesta infondatezza con riguardo al
giudizio di appello e al giudizio di cassazione. Tali ultimi meccanismi
attengono, infatti, alle impugnazioni, mentre il filtro previsto dall’art. 5
della legge n. 117 del 1988 condizionava l’accesso al giudizio di primo
grado.

> 

> Seguendo il ragionamento del rimettente, poi, si dovrebbe ritenere che
l’applicazione del rito ordinario a qualsiasi tipo di controversia determini
una violazione del principio di ragionevole durata del processo.

> 

> Privo di pregio sarebbe, altresì, l’assunto del giudice a quo, secondo il
quale l’eliminazione del filtro di ammissibilità creerebbe il pericolo di un
atteggiamento “difensivo” del magistrato, il quale sarebbe indotto ad
adottare la soluzione per lui meno “rischiosa” a detrimento della giustizia
sostanziale. L’alta professionalità che caratterizza la funzione
giurisdizionale dovrebbe essere, infatti, idonea a scongiurare un simile
pericolo; d’altra parte, la decisione meno “rischiosa” per il giudice è
quella presa secondo legge e sulla base del prudente apprezzamento dei fatti
e delle prove, non quella che pregiudichi la parte più «agguerrita» o
«larvatamente minacciosa».

> 

> Il rimettente non valorizzerebbe, poi, adeguatamente la duplice
circostanza che l’azione risarcitoria ha come unico legittimato passivo lo
Stato e che la proposizione di cause pretestuose o preordinate ad incidere
sulla serenità del giudicante è già scoraggiata dalla responsabilità
aggravata del soccombente temerario prevista dall’art. 96 cod. proc. civ.

> 

> Quanto alla censura di violazione dei principi di autonomia e indipendenza
della magistratura, l’Avvocatura generale dello Stato, dopo aver ribadito
alcune delle considerazioni svolte su questioni consimili nei precedenti
atti di intervento, pone in risalto come il principio che si ricava dalla
giurisprudenza costituzionale evocata dal giudice a quo sia solo quello
della necessità di prevedere adeguate garanzie e limiti nella disciplina
della responsabilità civile dei magistrati, correlate alla peculiarità delle
funzioni giudiziarie e alla natura dei relativi provvedimenti, non anche
quello dell’imprescindibilità di una fase di valutazione preliminare
dell’ammissibilità della domanda risarcitoria indiretta (contro lo Stato).

> 

> Dette garanzie e limiti non mancherebbero nell’attuale assetto normativo,
caratterizzato dalla previsione della sola legittimazione passiva dello
Stato nell’azione risarcitoria, con esclusione dell’azione diretta verso il
magistrato; dalla previsione di un termine di decadenza (ora triennale) per
la proposizione dell’azione, inferiore a quello quinquennale valevole per
tutti gli altri dipendenti pubblici, e di uno ancora più breve (biennale)
per l’azione di rivalsa; dall’onere, per il danneggiato, di esperire
preventivamente tutti i rimedi impugnatori avverso il provvedimento che si
assume dannoso; dalla previsione di rigidi presupposti sostanziali che
delimitano l’àmbito della colpa grave e di un tetto massimo (pari alla metà
dello stipendio annuo) alla eventuale condanna del magistrato in sede di
rivalsa.

> 

> La questione riferita all’art. 25 Cost. sarebbe, infine, inammissibile per
difetto di rilevanza, essendo argomentata con il riferimento all’astratta
possibilità che il magistrato sia indotto a spiegare intervento volontario
nella causa risarcitoria con maggiore frequenza che non in passato:
evenienza che non risulta, tuttavia, essersi concretamente verificata nel
giudizio a quo. Lo stesso rimettente, d’altra parte, condivide la tesi
secondo cui la proposizione dell’azione di responsabilità non comporta alcun
obbligo di astensione del magistrato e, correlativamente, non ne consente la
ricusazione.

> 

> La questione risulterebbe, comunque sia, infondata nel merito, posto che,
in nessun caso, l’esercizio dell’azione risarcitoria potrebbe costituire
strumento per sottrarre la causa al giudice naturale. Seguendo il
ragionamento del rimettente, d’altronde, anche nella vigenza del filtro una
situazione come quella ipotizzata (intervento del magistrato e richiesta di
astensione) si sarebbe potuta parimente verificare.

> 

> 

> Considerato in diritto

> 

> 1.– Questa Corte è chiamata a pronunciarsi su un articolato complesso di
questioni di legittimità costituzionale, dianzi analiticamente descritte,
tutte attinenti alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati,
quale risultante a seguito delle modifiche apportate dalla legge 27 febbraio
2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati) alle
previgenti disposizioni della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei
danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità
civile dei magistrati).

> 

> 2.– In ragione della rilevata comunanza di oggetto e dei profili
problematici coinvolti, le questioni vanno riunite per essere decise con
unica sentenza.

> 

> 3.– Deve preliminarmente essere esaminata l’eccezione con cui l’Avvocatura
generale dello Stato ha contestato l’ammissibilità, per difetto di
rilevanza, di tutte le questioni sollevate con le ordinanze dei Tribunali
ordinari di Verona (r.o. n. 198 del 2015), di Treviso (r.o. n. 218 del
2015), di Catania (r.o. n. 113 del 2016) e di Enna (r.o. n. 126 del 2016).

> 

> Nei vari atti di intervento, la difesa del Presidente del Consiglio dei
ministri, con argomentazioni similari, ove non anche identiche, pone in
evidenza che i giudici rimettenti non sono chiamati a fare diretta
applicazione delle disposizioni della cui costituzionalità dubitano, sicché
la rilevanza di esse, nei rispettivi giudizi a quibus, è affermata «solo in
linea teorica ed eventuale». Le disposizioni impugnate – secondo
l’Avvocatura - potrebbero venire in rilievo esclusivamente nell’ipotesi «in
cui il giudicante adottasse un provvedimento errato con dolo o colpa grave»
e, dunque, nel caso di una «patologia conclamata del futuro provvedimento».
Ma, in tale ipotesi, esso sarebbe rimediabile dallo stesso giudice che lo ha
emesso ovvero dal giudice cui sarebbe devoluta l’impugnazione, considerata
la natura dell’azione di responsabilità, la quale presuppone che il rimedio
previsto sia stato esperito. In conseguenza, risulterebbe del tutto
insussistente la dedotta incidenza sulla serenità del giudicante, come
invece ipotizzato dai giudici a quibus.

> 

> In ogni caso – risultando imprescindibile presupposto dell’azione
risarcitoria l’irrevocabilità del provvedimento, ai sensi dell’art. 4 della
legge n. 117 del 1988 - i dedotti profili di disarmonia costituzionale
potrebbero venire in rilievo solo dopo l’eventuale esaurimento dei gradi dei
rispettivi giudizi incidentali, con la «definitività del provvedimento
giudiziario», che, invece, neppure risulta adottato nei giudizi in
questione. La rilevanza delle questioni affermata dai giudici rimettenti
risulterebbe, pertanto, pressoché virtuale, in quanto ancorata solo al mero
«pericolo di una valutazione errata delle risultanze di causa»: non
sussisterebbe, infatti, alcuna correlazione «tra la regola da applicare e la
soluzione della questione controversa», fino al punto che, in alcune delle
ordinanze di rimessione, la «pericolosità decisionale» sarebbe, addirittura,
semplicemente postulata, trattandosi piuttosto di semplici problemi
decisori, risolvibili in base ad elementari ed ordinarie regole di diritto e
sulla base del prudente apprezzamento del giudice.

> 

> L’Avvocatura dello Stato ha ulteriormente osservato che, nelle questioni
di costituzionalità prospettate, la sussistenza della rilevanza sarebbe
stata dedotta dall’asserito perturbamento del giudice conseguente ad
un’ipotetica azione di rivalsa intentabile, nei suoi confronti, dallo Stato:
azione a sua volta meramente eventuale ed effetto di altra azione di
risarcimento danni esperita nei confronti di quest’ultimo, per la
responsabilità derivante dal provvedimento giudiziario, frutto dell’«errore
commesso dal magistrato». Per effetto di tale catena ipotetica, la rilevanza
delle questioni di costituzionalità sollevate risulterebbe, tuttavia,
giustificata solo dalla stessa «pericolosità […] della funzione
giurisdizionale», ritenuta, sempre e comunque sia, incidente sulla serenità
di giudizio e, quindi, sullo status del magistrato.

> 

> Il presupposto della rilevanza, in conclusione, riposerebbe solo su
postulati ed «ipotetici condizionamenti psicologici»: con la paradossale
conseguenza che qualsivoglia modifica della legge n. 117 del 1988
risulterebbe rilevante in tutte le controversie di ogni tipo (civili, penali
e amministrative), «con effetti distorsivi sul funzionamento dell’intero
sistema giudiziario, in contrasto, peraltro, con i principi costituzionali e
del diritto dell’U.E. sull’effettività della tutela giurisdizionale».

> 

> 3.1.– L’eccezione d’inammissibilità è fondata, per i motivi che seguono.

> 

> 3.2.– Nelle quattro ordinanze di rimessione, i giudici a quibus – di là
dalla complessità o difficoltà decisoria specifica dei singoli giudizi in
corso, di cui non è necessario dar conto in questa sede - affermano che le
sollevate questioni di costituzionalità, pur concernenti alcune delle norme
introdotte dalla legge n. 18 del 2015, risultano direttamente rilevanti nei
rispettivi giudizi incidentali in quanto tale disciplina normativa sarebbe
«concretamente ed immediatamente produttiva di una responsabilità
potenziale» di essi giudicanti, «potendo dar luogo ad un giudizio di
responsabilità» (così, testualmente, l’ordinanza del Tribunale ordinario di
Verona, iscritta al r.o. n. 198 del 2015); ovvero in quanto essa va «ad
incidere, in generale, sulla libertà del giudice di valutare i fatti e le
prove secondo la legge e, quindi, anche sulla valutazione che il Giudice è
chiamato ad operare nel presente processo» (in tal senso si esprime
l’ordinanza del Tribunale ordinario di Treviso, iscritta al r.o. n. 218 del
2015); ovvero, ancora, che non è da escludersi che ogni decisione adottabile
«possa essere contestata per ritenuto travisamento del fatto e delle prove»,
integrando dunque un’ipotesi di colpa grave ai sensi della normativa, come
oggi modificata, sulla responsabilità civile dei magistrati (in tal senso
opina, ad esempio, l’ordinanza del Tribunale ordinario di Catania, iscritta
al r.o. n. 113 del 2016).

> 

> Tali affermazioni – che pure delineano la semplice e sola “potenzialità”
dell’evenienza di una responsabilità civile dello Stato (e della successiva,
eventuale, azione di rivalsa nei confronti del magistrato) connessa ai
provvedimenti adottati nel giudizio a quo – assurgono a discorso
giustificativo della rilevanza delle plurime questioni di legittimità
costituzionale a mezzo del richiamo, comune a tutte le predette ordinanze di
rimessione e su cui esse lungamente insistono, alle statuizioni della
sentenza n. 18 del 1989.

> 

> Rammentano invero i rimettenti che, in tale pronuncia, questa Corte –
chiamata a scrutinare alcune questioni di legittimità costituzionale
sollevate in relazione alla disciplina della responsabilità civile dei
magistrati di cui alla legge n. 117 del 1988 ed a fronte della eccezione di
inammissibilità delle stesse per difetto di rilevanza, anche allora avanzata
dall’Avvocatura generale dello Stato - ebbe a statuire l’infondatezza di
detta eccezione.

> 

> Si osservò, in proposito, che, effettivamente, l’art. 23 della legge 11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), stabilendo che la questione di costituzionalità proposta
debba essere tale che «il giudizio non possa essere definito
indipendentemente dalla risoluzione» di essa, «implica, di regola, che la
rilevanza sia strettamente correlata all’applicabilità della norma impugnata
nel giudizio a quo». Tuttavia, si affermò che «debbono ritenersi influenti
sul giudizio anche le norme che, pur non essendo direttamente applicabili al
giudizio a quo, attengono allo status del giudice, alla sua composizione
nonché, in generale, alle garanzie ed ai doveri che riguardano il suo
operare», e che pertanto la «eventuale incostituzionalità di tali norme è
destinata a influire su ciascun processo pendente davanti al giudice del
quale regolano lo status, la composizione, le garanzie e i doveri: in
sintesi, la “protezione” dell’esercizio della funzione, nella quale i doveri
si accompagnano ai diritti».

> 

> Tali affermazioni, secondo i giudici a quibus, risulterebbero
ulteriormente corroborate, ai fini della rilevanza delle odierne questioni
di legittimità costituzionale, dalla circostanza che la nuova disciplina
sulla responsabilità civile, risultante dalle modifiche introdotte dalla
legge n. 18 del 2015, ha ampliato le ipotesi che possono dar luogo a
responsabilità dello Stato e del magistrato, introducendo, tra l’altro,
quelle del «travisamento del fatto o delle prove». Pertanto, quantomeno le
relative disposizioni modificate in tal senso (vale a dire gli artt. 2,
comma 3, e 7, comma 1, della legge n. 117 del 1988) inciderebbero
immediatamente su tutti i giudizi in corso.

> 

> I soli Tribunali ordinari di Verona ed Enna, inoltre, affermano che le
statuizioni della sentenza n. 18 del 1989 sarebbero state implicitamente
richiamate, da questa Corte, nella sentenza n. 237 del 2013.

> 

> 3.3.– Movendo dall’esame di tale ultimo argomento, si deve rilevare che il
convincimento dei due rimettenti è erroneo.

> 

> Nel giudizio conclusosi con la sentenza n. 237 del 2013, infatti, questa
Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di
norme che avevano disposto la soppressione di diversi uffici giudiziari:
oggetto del giudizio di costituzionalità era, dunque, la potestà di ius
dicere dei giudici rimettenti, direttamente e immediatamente dipendente
dalle norme censurate. Nessun dubbio poteva sussistere, pertanto, sulla
rilevanza – secondo l’ordinaria regola posta dall’art. 23 della legge n. 87
del 1953 – delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, «ben
potendo, in limine litis, ogni giudice investire questa Corte della verifica
di conformità a Costituzione delle disposizioni legislative che affermino,
ovvero escludano, la sua legittimazione a trattare un determinato
procedimento» (ordinanza n. 258 del 2016), rientrando detta facoltà nel suo
«potere-dovere di verificare la regolare costituzione dell’organo
giudicante, anche in rapporto alla legittimità costituzionale delle norme
che la disciplinano» (sentenza n. 71 del 1975).

> 

> 3.4.– Quanto, poi, al richiamo operato da tutti i giudici rimettenti alla
sentenza n. 18 del 1989, in funzione di giustificazione della rilevanza
delle odierne questioni di legittimità costituzionale, esso non risulta
pertinente.

> 

> È qui doveroso sottolineare il ben diverso àmbito dell’incidente di
costituzionalità nel quale vennero a collocarsi le richiamate affermazioni
di questa Corte. In quella circostanza, infatti, il nucleo principale delle
varie questioni sollevate dai diversi giudici (ordinari, amministrativi e
tributari), che dubitavano della legittimità costituzionale della prima
legge sulla responsabilità civile dei magistrati, fece leva – per dedurre la
rilevanza delle questioni stesse – sul fatto che nei diversi giudizi veniva
in discorso l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 16 della legge
n. 117 del 1988 (poi dichiarata parzialmente incostituzionale con la
sentenza n. 18 del 1989), la quale introduceva – nel processo civile (art.
131 del codice di procedura civile) ed in quello penale (art. 148 del codice
di procedura penale) – il verbale relativo alla opinione dissenziente per i
provvedimenti collegiali, per i conseguenti riverberi che la stessa
disciplina presentava proprio sul piano della responsabilità civile.

> 

> Veniva in rilievo inoltre – e in relazione a ciò questa Corte affermò
quanto oggi è richiamato - la stessa struttura e composizione dell’organo
giudicante, assumendosi, da una delle ordinanze di rimessione, che il
“concorso decisorio”, all’interno dell’organo collegiale civile, non potesse
essere egualmente distribuito tra il relatore e gli altri componenti del
collegio, poiché era da escludere che questi ultimi fossero «tenuti ad
esaminare gli atti di causa, a ciò ostando l’immensa mole di lavoro gravante
sui tribunali» e che, conseguentemente, a tale diversa collocazione
“funzionale” interna avrebbe dovuto corrispondere anche una diversa
graduazione di responsabilità. Prospettiva che indusse questa Corte a
ribadire, al contrario, e proprio in ordine alla struttura e funzione
dell’organo, che «la decisione emessa dall’organo giudiziario collegiale è
un atto unitario, alla formazione del quale concorrono i singoli membri del
collegio in base allo stesso titolo ed agli stessi doveri» (sentenza n. 18
del 1989).

> 

> Altra ordinanza di rimessione, poi, era stata adottata dalla sezione
specializzata per le tossicodipendenze, a componente mista, in relazione
alla quale si prospettava questione di legittimità costituzionale in ordine
alla responsabilità dei laici componenti il collegio.

> 

> Infine, per le questioni sollevate da una commissione tributaria, si
osservava, nella ordinanza di rimessione, che esse attenevano «alla
costituzione del giudice», con la conseguenza che la rilevanza sussisteva in
quanto, «ove le norme impugnate fossero illegittime, la decisione della
Commissione tributaria sarebbe nulla», anche in questo caso evocando (come
pure nella questione sollevata da un pretore onorario) il tema della
partecipazione dei laici alla giustizia.

> 

> Nello scrutinio allora operato da questa Corte in punto di ammissibilità
delle questioni di legittimità costituzionale, pertanto, ben si spiega la
motivazione adottata (poi meramente richiamata soltanto dall’immediatamente
successiva sentenza n. 243 del 1989). Essa, appunto, si fondava –
coerentemente con il rilievo delle norme processuali allora coinvolte nei
diversi giudizi a quibus – sui profili che concernevano lo «status di
giudice», la «sua composizione, nonché, in generale, [le] garanzie e [i]
doveri che riguardano il suo operare»: aspetti, questi, ontologicamente
rilevanti nell’àmbito dei relativi procedimenti – ordinari, speciali,
amministrativi o tributari – dai quali le questioni provenivano. Come dire
che le quaestiones sulla responsabilità civile dei magistrati erano allora
rilevanti in quanto direttamente collegate con profili attinenti alla
struttura dell’organo e ad ipotizzate “distinzioni” funzionali interne ad
esso: dunque, alla sua stessa composizione.

> 

> 3.5.– Si trattava di un quadro profondamente diverso da quello che viene
oggi in attenzione e che, in sé, vale a tracciare un netto distinguo tra
dette statuizioni – pertinenti a quello specifico quadro di riferimento – e
le altre che questa Corte è chiamata ad adottare circa la rilevanza delle
questioni ora in esame.

> 

> Nell’àmbito delle odierne questioni, infatti, ciò che questa Corte è
tenuta a verificare è la necessaria relazione di “dipendenza funzionale” tra
giudizio a quo e tema agitato attraverso la questione di legittimità
costituzionale: relazione che, secondo la costante giurisprudenza di questa
Corte, deve assumere i connotati della pregiudizialità, la quale comporta
l’impossibilità di definire il procedimento pregiudicato in assenza della
delibazione della quaestio pregiudicante.

> 

> Ebbene, alla luce di tali preliminari rilievi e tenuto conto di quanto gli
stessi giudici rimettenti hanno posto in luce al fine di asseverare la
sussistenza della rilevanza, se ne deve desumere che le questioni sono state
dai rimettenti delibate a prescindere da qualsiasi considerazione circa una
loro diretta incidenza sullo statuto di autonomia e di indipendenza dei
magistrati, tale da condizionare strutturalmente e funzionalmente lo ius
dicere, ma facendo esclusivo riferimento alle sue modalità di esercizio. Né
rileva che tali modalità possano costituire elementi variamente perturbatori
della condizione psicologica di questo o quel magistrato, secondo i
principi, del resto, costantemente ribaditi – sia prima sia dopo la sentenza
n. 18 del 1989 – dalla giurisprudenza di questa Corte.

> 

> Si è escluso, infatti, che potesse strutturare il nesso di
pregiudizialità, richiesto ai fini di rendere rilevante la questione, il
mero richiamo del giudice a quo al turbamento psicologico e della propria
serenità di giudizio prodotto dall’applicazione dei «ferri di sicurezza»
nelle operazioni di traduzione degli imputati detenuti, «non potendosi
ovviamente qualificare per tale una soggettiva situazione psicologica come
quella allegata dal giudicante che, oltre tutto, deriva da norme
assolutamente estranee all’oggetto del processo principale» (sentenza n. 147
del 1974).

> 

> Allo stesso modo, si è pure escluso che potessero considerarsi rilevanti,
in un qualsiasi giudizio di competenza della Corte dei conti, questioni
volte a denunciare l’asserita menomazione della serenità e autonomia di
giudizio dei magistrati di detta Corte derivante dal carattere, in assunto,
«troppo latamente discrezionale» dei poteri riconosciuti al Presidente della
Corte stessa in materia di assegnazione di funzioni e promozioni: le
doglianze attenevano, infatti, a disposizioni che non dovevano essere
applicate dal giudice rimettente, riflettendo «violazioni solo potenziali ma
non attuali delle garanzie costituzionali» (sentenza n. 19 del 1978).

> 

> Nessun seguito hanno avuto, altresì, più di recente, le questioni intese a
censurare, nell’àmbito di ordinari giudizi, la previsione di compensi dei
giudici di pace e dei componenti delle commissioni tributarie collegati ad
ogni singolo processo definito: sistema che si asseriva idoneo a
condizionare psicologicamente l’operato di detti giudici, e dunque a
comprometterne la terzietà ed imparzialità, inducendoli ad optare non per le
soluzioni ritenute più corrette, ma per quelle che permettevano di decidere
un maggior numero di cause in minor tempo, e consentendo, inoltre, alla
parte attrice o ricorrente di avvantaggiarli economicamente con la
proposizione di domande o ricorsi separati, anziché di domande o ricorsi
cumulativi. Anche simili questioni sono state ritenute, infatti, prive di
rilevanza, in quanto attinenti a norme che non venivano affatto in rilievo
ai fini della decisione delle controversie di cui i giudici rimettenti erano
investiti (ex plurimis, ordinanze n. 421 del 2008, n. 180 del 2006 e n. 326
del 1987).

> 

> 3.6.– Più in generale, va riconosciuto, tuttavia, che un sistema che non
garantisse un adeguato presidio istituzionale in capo alla posizione del
giudice si presenterebbe, a sua volta, fortemente asintonico rispetto a quel
rigoroso presupposto di legalità a cui il giudice è costituzionalmente
tenuto.

> 

> Il ruolo del giudice, nell’architettura costituzionale della
giurisdizione, appare infatti peculiare, non potendosi escludere a priori
che norme, pur non immediatamente applicabili nel processo, vadano ad
incidere in maniera evidente ed attuale sulle garanzie costituzionali della
funzione giurisdizionale, così condizionando l’esercizio della relativa
attività. Ciò tuttavia presuppone che tale incidenza – per qualità,
intensità, univocità ed evidenza della sua direzione, immediatezza ed
estensione dei suoi effetti – sia tale da determinare una effettiva
interferenza sulle condizioni di indipendenza e terzietà nel decidere, a
prescindere da qualsiasi profilo che possa riguardare un eventuale
“perturbamento psicologico” del singolo giudice.

> 

> Di là da questa prospettiva, ai fini della rilevanza occorrerà
ulteriormente verificare se la norma asseritamente interferente sullo status
di magistrato ne comprometta o possa comprometterne l’indipendenza e la
terzietà in relazione alla concreta regiudicanda posta al suo esame ed alla
specifica e conseguente decisione che è chiamato ad adottare nel giudizio a
quo. Presupposti - questi – che non è dato rinvenire nelle odierne
questioni, alla luce della stessa motivazione sulla rilevanza fornita dai
giudici a quibus in relazione all’attuale sistema normativo sulla
responsabilità civile del giudice.

> 

> 3.7.– In conclusione sul punto, devono pertanto essere dichiarate
inammissibili, perché irrilevanti, tutte le questioni sollevate con le
ordinanze dei Tribunali ordinari di Verona (r.o. n. 198 del 2015), di
Treviso (r.o. n. 218 del 2015), di Catania (r.o. n. 113 del 2016) e di Enna
(r.o. n. 126 del 2016).

> 

> 4.– I profili di inammissibilità dianzi evidenziati non coinvolgono,
invece, l’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Genova (r.o. n.
130 del 2016), unica, fra quelle in esame, emessa nell’àmbito di un giudizio
risarcitorio promosso nei confronti dello Stato ai sensi della legge n. 117
del 1988.

> 

> 4.1.– Con riguardo alle questioni sollevate da detta ordinanza,
l’Avvocatura generale dello Stato ha formulato una diversa eccezione di
inammissibilità.

> 

> In base al previgente art. 5 della legge n. 117 del 1988 – abrogato
dall’impugnato art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015 – il giudice
istruttore della causa volta ad ottenere il ristoro dei danni conseguenti
all’esercizio delle funzioni giudiziarie doveva rimettere le parti davanti
al collegio alla prima udienza, ai fini della preliminare verifica della
sussistenza dei presupposti dell’azione, della sua tempestività in rapporto
al previsto termine biennale di proposizione e della sua non manifesta
infondatezza (cosiddetto “filtro di ammissibilità”).

> 

> Nel caso di specie, il giudice istruttore ha provveduto nel modo ora
indicato, sul presupposto che, in assenza di una disciplina transitoria, il
meccanismo di “filtro” dovesse ritenersi ancora applicabile in rapporto alle
domande risarcitorie proposte dopo l’entrata in vigore della legge di
riforma, ma per illeciti anteriori ad essa, quale quella di cui si discute
nel giudizio principale.

> 

> Il collegio rimettente reputa, tuttavia, di dover aderire alle opposte
indicazioni della giurisprudenza di legittimità (e, in particolare, della
sentenza della Corte di cassazione, sezione terza civile, 15 dicembre 2015,
n. 25216), secondo le quali l’abolizione del “filtro” – in ragione della sua
valenza processuale e non sostanziale – opera per tutti i giudizi introdotti
dopo l’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015 (ancorché relativi ad
illeciti pregressi): circostanza che imporrebbe al collegio stesso di
restituire gli atti al giudice istruttore per la prosecuzione del giudizio
nelle forme ordinarie. Di qui la ritenuta rilevanza delle questioni
sollevate, intese a censurare proprio e soltanto l’avvenuta soppressione del
“filtro”.

> 

> Obietta il Presidente del Consiglio dei ministri che il collegio
rimettente, essendo stato investito della decisione dal giudice istruttore
ai sensi dell’art. 189 cod. proc. civ., avrebbe potuto definire in ogni caso
la controversia, a prescindere dal previo esame della domanda in sede di
filtro. Nella stessa ordinanza di rimessione si dà atto, d’altro canto, di
come alcune fra le plurime eccezioni di inammissibilità della domanda
risarcitoria, formulate dalla parte convenuta nel giudizio a quo, potrebbero
rivelarsi fondate. A parere dell’Avvocatura generale dello Stato, pertanto,
il collegio avrebbe dovuto verificare preventivamente se la causa potesse
essere decisa, esaminando le questioni preliminari pur di fronte all’erronea
rimessione della causa da parte del giudice istruttore sulla base della
disciplina previgente.

> 

> 4.2.– L’eccezione della difesa dell’interveniente non è fondata.

> 

> Ove pure fosse immediatamente riscontrabile una ragione di inammissibilità
della domanda, le questioni inciderebbero, comunque sia, sulle modalità
procedurali della relativa verifica, che l’abrogato art. 5 regolava con
disciplina ad hoc, allo stato non più applicabile e che il rimettente mira
per l’appunto a ripristinare, tramite la dichiarazione di illegittimità
costituzionale della norma meramente abrogatrice.

> 

> In base alla disposizione abrogata, infatti, il tribunale doveva
deliberare entro 40 giorni in camera di consiglio, anziché nelle forme
ordinarie del giudizio di cognizione (che prevedono la possibile discussione
in udienza pubblica, ai sensi dell’art. 275 cod. proc. civ.), dichiarando
l’inammissibilità della domanda con decreto motivato (e non già con
sentenza), impugnabile non nei modi ordinari, ma in quelli previsti
dall’art. 739 cod. proc. civ. per i provvedimenti in camera di consiglio.

> 

> Se la domanda era ritenuta ammissibile, d’altro canto, il tribunale doveva
disporre la prosecuzione del processo e la trasmissione degli atti ai
titolari dell’azione disciplinare (previsione anche questa venuta meno).

> 

> La rilevanza delle questioni è, pertanto, indubbia.

> 

> 5.– Ancorché ammissibili, le questioni prospettate dall’ordinanza di
rimessione del Tribunale ordinario di Genova (r.o. n. 130 del 2016) sono
tuttavia infondate.

> 

> 5.1.– Il giudice a quo prospetta plurimi dubbi di legittimità
costituzionale del solo art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, il
quale, come già detto, abrogando l’art. 5 della legge n. 117 del 1988, ha
eliminato il “filtro di ammissibilità” della domanda risarcitoria proposta
nei confronti dello Stato.

> 

> Il Tribunale ordinario di Genova reputa, preliminarmente, che la
soppressione del meccanismo dianzi descritto non possa trovare «pertinente»
giustificazione nel richiamo alle pronunce «della Corte di Strasburgo» o di
quelle della Corte di giustizia dell’Unione europea, il cui fondamento non
riposerebbe sulla «responsabilità del singolo magistrato, ma (su) quella
dello Stato», con la conseguenza che tali decisioni «non imponevano alcuna
modifica della legge n. 117/1988 dal punto di vista processuale».

> 

> Ciò premesso, il rimettente ritiene che la disposizione denunciata
violerebbe, anzitutto, l’art. 111 Cost., per contrasto con il principio di
ragionevole durata del processo. Il meccanismo di “filtro” risponderebbe,
infatti, al comune interesse tanto del cittadino, che si ritenga leso,
quanto dello Stato, potenziale responsabile, a che l’eventuale
inammissibilità della domanda risarcitoria sia dichiarata al più presto e
con procedura snella. In assenza di tale meccanismo, i tempi per la
pronuncia sono invece quelli del processo ordinario, di «lunghezza eccessiva
ed irragionevole».

> 

> La norma censurata violerebbe, inoltre, l’art. 3 Cost., sotto il duplice
profilo della disparità di trattamento e della irragionevolezza.
L’abolizione del “filtro”, da essa disposta, contrasterebbe, infatti, con il
sempre più diffuso ricorso del legislatore a meccanismi di questo tipo e, in
particolare, con l’avvenuta introduzione di «pronunce semplificate di
inammissibilità» in rapporto alle impugnazioni ordinarie: istituti, questi
ultimi, comparabili all’azione prevista dalla legge n. 117 del 1988,
atteggiandosi essa, spesso, come un «processo sul processo» (il riferimento
del rimettente è alle previsioni degli artt. 348-bis e 348-ter cod. proc.
civ., quanto all’appello, e degli artt. 360-bis e 375, primo comma, numeri 1
e 5, cod. proc. civ., quanto al ricorso per cassazione).

> 

> L’intervento abrogativo censurato pregiudicherebbe, inoltre, l’attuazione
del giusto processo – così integrando un ulteriore vulnus all’art. 111 Cost.
- anche nel giudizio nel quale si assume essersi verificato il fatto
dannoso. Imbrigliando immediatamente le azioni di responsabilità
inammissibili o palesemente infondate, il meccanismo processuale soppresso
svolgerebbe, infatti, una essenziale funzione di tutela della serenità di
giudizio del giudice, scongiurando il pericolo della cosiddetta
«giurisprudenza “difensiva”», ossia che il giudice abdichi alla propria
posizione di terzietà e imparzialità in favore delle decisioni che appaiono
per lui meno “rischiose”.

> 

> Risulterebbero altresì violati i principi di soggezione del giudice solo
alla legge (art. 101 Cost.) e di autonomia e indipendenza della magistratura
(art. 104 Cost.), alla luce delle affermazioni della giurisprudenza
costituzionale secondo cui la presenza di un “filtro”, che ponga il giudice
al riparo da domande temerarie o intimidatorie, dovrebbe ritenersi
indispensabile per la salvaguardia dei corrispondenti valori (sono citate le
sentenze n. 468 del 1990, n. 18 del 1989 e n. 2 del 1968).

> 

> La norma censurata si porrebbe, infine, in contrasto con il principio del
giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.). In mancanza del
meccanismo del “filtro”, infatti, il magistrato sarebbe incentivato ad
esercitare la facoltà di intervento nel giudizio risarcitorio prevista
dall’art. 6 della legge n. 117 del 1988, non essendo più nettamente distinto
l’esame dei profili di ammissibilità della domanda da quello del merito: ciò
che, rendendolo parte di quel giudizio, farebbe scattare l’obbligo di
astensione nel processo originario ai sensi dell’art. 51, primo comma,
numero 3), cod. proc. civ. In ogni caso, il giudice potrebbe ravvisare i
presupposti per un’astensione facoltativa. In conseguenza, la proposizione
dell’azione di responsabilità potrebbe costituire indiretto strumento per
distogliere la causa dal suo giudice naturale.

> 

> 5.2.– Movendo dal preliminare riferimento del giudice a quo alle decisioni
della Corte di giustizia dell’Unione europea, va rammentato come un forte
stimolo alla riforma operata dalla legge n. 18 del 2015 sia venuto proprio
dai principi affermati dalla Corte di Lussemburgo, riguardo all’obbligo
degli Stati membri di riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni
del diritto comunitario (ora, dell’Unione europea) commesse da organi
giurisdizionali nazionali (anche di ultimo grado): principi con i quali
alcune delle limitazioni previste dalla legge n. 117 del 1988 sono state
ritenute incompatibili (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 13
giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa), tanto da
dar luogo all’apertura di una procedura di infrazione, decisa in senso
sfavorevole per il nostro Paese (Corte di giustizia, sentenza 24 novembre
2011, in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana).

> 

> Nel contesto di tali principi, assumono qui rilievo, in particolare,
quelli relativi alla “giustiziabilità” della pretesa risarcitoria del
danneggiato.

> 

> La Corte di Giustizia, a partire dalla nota pronuncia Köbler (sentenza 30
settembre 2003, in causa C-224/01, Gerhard Köbler), ebbe infatti a statuire
che «[…] è nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla
responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno
provocato, fermo restando che le condizioni stabilite dalle legislazioni
nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno
favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non
possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o
eccessivamente difficile ottenere il risarcimento».

> 

> In tale affermazione – ribadita dai costanti arresti successivi (ex
multis, Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 13
marzo 2007, in causa C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group
Litigation; Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 25 novembre
2010, in causa C-429/09, Günter Fuß; Corte di giustizia dell’Unione europea,
sentenza 9 settembre 2015, in causa C-160/14, João Filipe Ferreira da Silva
e Brito e altri) – risultano compendiati tanto il «principio di equivalenza»
quanto il «principio di effettività», i quali così assurgono a cardini
necessari di ogni diritto nazionale in tema di responsabilità dello Stato
per le conseguenze del danno provocato da provvedimenti giurisdizionali
adottati in violazione del diritto europeo.

> 

> Il «principio di equivalenza» - secondo denominazione propria ed originale
della Corte di giustizia – postula che le condizioni stabilite dalle
legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni nei confronti
dello Stato, per la responsabilità civile in esito alla violazione del
diritto europeo per mezzo di provvedimento giurisdizionale, non possono
essere «meno favorevoli» di quelle riguardanti analoghi reclami di natura
interna, vale a dire delle altre “normali” azioni risarcitorie esercitabili
dai cittadini nei confronti dello Stato in altre e diverse materie.

> 

> Il «principio di effettività» esige, poi, che i meccanismi procedurali del
diritto nazionale non siano congegnati in modo da rendere praticamente
impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento.

> 

> 5.3.– L’affermazione di tali principi - pur se non immediatamente e
specificamente pretensivi dell’abolizione del cosiddetto “filtro di
ammissibilità” contemplato dall’art. 5 della legge n. 117 del 1988 – ha
rappresentato un considerevole mutamento del quadro normativo di riferimento
in tema di responsabilità civile dello Stato e del giudice, finendo
inevitabilmente per ispirare e permeare l’intervento riformatore, sul punto,
della legge n. 18 del 2015. Al riguardo, il legislatore ha ritenuto che, per
un verso, l’azione di responsabilità nei confronti dello Stato per i danni
conseguenti ad un provvedimento giudiziario non si collocasse in una
condizione di equivalenza rispetto alle azioni risarcitorie nei confronti
dello Stato in altre materie che non prevedono un simile “filtro” e, per
altro verso, che l’esperienza applicativa della legge n. 117 del 1988,
arrestando le azioni di danno contro lo Stato in larghissima misura nella
fase della delibazione preliminare, non avesse garantito l’effettività del
risarcimento per il cittadino danneggiato. È appena il caso di sottolineare,
al proposito, che l’intervento riformatore non era evidentemente limitabile
alle sole violazioni del diritto europeo, se non al prezzo di determinare
una irragionevole disparità di trattamento rispetto alle violazioni delle
norme del diritto nazionale che fossero all’origine, anch’esse, di danno per
il cittadino.

> 

> Come più volte affermato da questa Corte, nella materia in esame occorre
perseguire il delicato bilanciamento tra due interessi contrapposti: da un
lato, il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento
giudiziario ad ottenere il ristoro del pregiudizio patito, posto che «una
legge che negasse al cittadino danneggiato dal giudice qualunque pretesa
verso l’amministrazione statale sarebbe contraria a giustizia» (sentenza n.
2 del 1968); dall’altro, la salvaguardia delle funzioni giudiziarie da
possibili condizionamenti, a tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità
della magistratura, «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e
la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla
responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti
costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113),
a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni»
(sentenza n. 26 del 1987).

> 

> Tale bilanciamento è stato operato anche dalla legge di riforma n. 18 del
2015, fondamentalmente tramite una più netta divaricazione tra la
responsabilità civile dello Stato nei confronti del danneggiato - che le
istituzioni europee chiedevano con forza di espandere - e la responsabilità
civile del singolo magistrato. Il legislatore della riforma ha cioè mirato a
superare la piena coincidenza oggettiva e soggettiva degli àmbiti di
responsabilità dello Stato e del magistrato e, in tale prospettiva, ha
ritenuto di ampliare il perimetro della prima a prescindere dai confini, più
ristretti, della seconda, così stemperando il meccanico ed automatico
effetto dell’accertamento della responsabilità dello Stato sul magistrato
nel giudizio di rivalsa.

> 

> In tale cornice di rinnovato bilanciamento normativo - i cui termini sono
rimessi alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della
ragionevolezza - si colloca la scelta legislativa di abolizione del
cosiddetto “filtro di ammissibilità”, ritenuta funzionale al nuovo impianto
normativo, specie se riguardata alla luce dei già ricordati principi
affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. Non è
costituzionalmente necessario, infatti, che, per bilanciare i contrapposti
interessi di cui si è detto, sia prevista una delibazione preliminare
dell’ammissibilità della domanda contro lo Stato, quale strumento
indefettibile di protezione dell’autonomia e dell’indipendenza della
magistratura. Tale esigenza può essere infatti soddisfatta dal legislatore
per altra via: ciò è quanto accaduto con la legge n. 18 del 2015, per un
verso mediante il mantenimento del divieto dell’azione diretta contro il
magistrato e con la netta separazione dei due àmbiti di responsabilità,
dello Stato e del giudice; per un altro, con la previsione di presupposti
autonomi e più restrittivi per la responsabilità del singolo magistrato,
attivabile, in via di rivalsa, solo se e dopo che lo Stato sia rimasto
soccombente nel giudizio di danno; per un altro ancora, tramite il
mantenimento di un limite della misura della rivalsa. Tanto vale a stornare
il paventato pericolo che l’abolizione del meccanismo processuale in esame
determini un pregiudizio alla «serenità del giudice» come pure la temuta
deriva verso una «giurisprudenza difensiva», ipotesi, questa, che
evidentemente oblitera l’elevato magistero proprio di ogni funzione
giurisdizionale. Che tutto ciò valga ad escludere il rischio – secondo una
direttrice opposta a quanto riscontrato nel precedente assetto circa la
sostanziale “irresponsabilità” dei magistrati – di un eventuale abuso
dell’azione risarcitoria è questione, poi, che solo l’attuazione nel tempo
della nuova disciplina potrà chiarire.

> 

> 5.4.– Né le conclusioni sopra assunte palesano disarmonia o, tantomeno,
contrasto con le pregresse affermazioni sul punto di questa Corte,
richiamate dal Tribunale rimettente.

> 

> Il giudice a quo evoca taluni contenuti argomentativi delle sentenze n. 2
del 1968 e, soprattutto, n. 18 del 1989 e n. 468 del 1990.

> 

> È agevole tuttavia rilevare che la più remota di tali pronunce si è
limitata ad affermare in termini generali, come già ricordato, l’esigenza di
prevedere «condizioni e limiti» alla responsabilità del magistrato, avuto
riguardo alla situazione normativa dell’epoca (che prevedeva una
responsabilità civile diretta del magistrato limitata ai casi di dolo,
frode, concussione e denegata giustizia, condizionando la domanda
risarcitoria all’autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia:
originari artt. 55, 56 e 74 cod. proc. civ.). Affermazione, questa, di
imprescindibile ed immutabile valenza, ma che risulta, al più, neutra
rispetto all’odierno thema decidendum.

> 

> Le affermazioni sul preteso «rilievo costituzionale» del filtro sono
piuttosto contenute nella già citata sentenza n. 18 del 1989 e, soprattutto,
nella n. 468 del 1990. Nella prima di tali pronunce, questa Corte ebbe ad
affermare che «la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda
(art. 5, l. cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di
azioni “manifestamente infondate”, che possano turbarne la serenità,
impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per
l’astensione e la ricusazione». Nella sentenza n. 468 del 1990, si enunciò
poi l’assunto della «indispensabilità di un “filtro” a garanzia della
indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale».

> 

> Se doverosamente riguardate nella cornice storica e normativa, oltre che
nella specifica occasio che ebbe a determinarle, queste affermazioni
risultano tuttavia di valore assai meno dirimente rispetto a quello loro
attribuito dalle argomentazioni del tribunale rimettente.

> 

> L’affermazione – contenuta nella sentenza n. 18 del 1989 - relativa alla
“garanzia adeguata” derivante dal preventivo giudizio di ammissibilità
rispetto alla proposizione di azioni manifestamente infondate o temerarie
non individua di certo, in tale rimedio, la soluzione unica e
costituzionalmente obbligata affinché un sistema di responsabilità civile
non risulti strutturalmente lesivo dell’autonomia ed indipendenza della
magistratura, incidendo sul “perturbamento della serenità” del giudice. Già
si è osservato che, in un mutato quadro storico e normativo, il legislatore
ha praticato, in forme diverse e non censurabili per irragionevolezza, quel
bilanciamento di valori contrapposti che, vigente la legge n. 117 del 1988,
risultava svolto dal meccanismo procedurale in esame, oggi abrogato dalla
norma censurata. Ciò è tanto più vero considerando, inoltre, che, anche a
mezzo della citata argomentazione, questa Corte, con la sentenza n. 18 del
1989, ebbe a ritenere non fondato il dubbio di costituzionalità inerente
all’«intera l. 13 aprile 1988, n. 117»: dubbio allora prospettato per «la
previsione, in sé, di tale responsabilità», reputando, il giudice rimettente
dell’epoca, che la stessa introduzione di una disciplina della
responsabilità civile dei giudici per colpa grave compromettesse
«l’imparzialità della magistratura, con l’attribuire alle parti uno
strumento di pressione idoneo ad influenzarne le decisioni». Da qui la
precisa valenza che il riferimento alla “garanzia adeguata” del filtro
assumeva in quella decisione.

> 

> Parimente, anche l’indicata affermazione della sentenza n. 468 del 1990 –
circa la «indispensabilità di un “filtro” a garanzia della indipendenza ed
autonomia della funzione giurisdizionale» - assume una connotazione diversa
rispetto a quella propugnata dal tribunale rimettente di soluzione
costituzionalmente imposta. Mette conto, infatti, di rammentare l’assoluta
peculiarità della prospettiva da cui tale affermazione trasse origine:
quella, cioè, dell’estensione del meccanismo del filtro alle azioni di danno
promosse per fatti anteriori alla sua entrata in vigore; azioni che – se
pure fortemente limitate nei presupposti, in base all’abrogato art. 55 cod.
proc. civ. – avevano, però, come destinatario diretto il magistrato. Come
dire che il riferimento all’«indispensabilità di un “filtro”» quale garanzia
dell’indipendenza ed autonomia del giudice risultava riferito ad un sistema
così congegnato, del tutto diverso da quello odierno che non prevede forme
di responsabilità diretta del magistrato.

> 

> Alla luce di quanto precede, le questioni sollevate dal Tribunale
ordinario di Genova in riferimento ai principi di indipendenza e autonomia
della magistratura e di terzietà e imparzialità del giudice, di cui agli
artt. 101, 104 e 111 Cost., debbono ritenersi quindi non fondate.

> 

> 5.5.– Infondato è, altresì, il dubbio di costituzionalità avanzato dal
giudice a quo in relazione all’art. 3 Cost., sulla base della ritenuta
irragionevolezza intrinseca della soppressione del filtro di ammissibilità e
della violazione del principio di eguaglianza rispetto alle «pronunce
semplificate di inammissibilità» introdotte dal legislatore in rapporto alle
impugnazioni ordinarie.

> 

> Invero, l’àmbito del tutto eterogeneo in cui si muove il raffronto
prospettato dal rimettente – e rappresentato dagli artt. 348-bis e 348-ter
cod. proc. civ., in relazione all’appello, e dagli artt. 360-bis e 375,
primo comma, numeri 1) e 5), cod. proc. civ., riguardo al ricorso per
cassazione – rende la censura priva di fondamento. La mera «comunanza
logica» evocata dal giudice a quo non vale evidentemente ad accomunare
normativamente – e, dunque, a rendere comparabili - strumenti deflattivi e
semplificativi innestati dal legislatore nel regime delle impugnazioni
civili con l’abrogato meccanismo del “filtro di ammissibilità”, il quale
riguardava il giudizio di primo grado, la cui disciplina generale non
contempla analoghi meccanismi. E ciò anche a prescindere dalla diversità di
scopi degli istituti nonché dalla discrezionalità di cui gode il legislatore
nelle scelte in materia processuale, il cui limite della manifesta
irragionevolezza, ad ogni modo, non risulta, nel caso in esame, travalicato
né in senso assoluto, né “per comparazione”.

> 

> 5.6.– È altresì infondata la censura dell’art. 3, comma 2, della legge n.
18 del 2015 per violazione del principio del giudice naturale precostituito
per legge (art. 25 Cost.), che si verificherebbe, secondo il giudice
rimettente, perché la contemporanea pendenza del giudizio contro lo Stato e
di quello principale – agevolata dall’eliminazione del “filtro di
ammissibilità” – indurrebbe il giudice del secondo giudizio ad astenersi o
all’astensione addirittura lo obbligherebbe, nel caso in cui intervenisse
nel giudizio intentato nei confronti dello Stato.

> 

> A prescindere dalla considerazione che l’identica situazione oggi
paventata dal rimettente ben poteva verificarsi anche in vigenza del
meccanismo abrogato, è sufficiente osservare che, secondo la giurisprudenza
di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 22
luglio 2014, n. 16627), la pendenza della causa di danno contro lo Stato non
costituisce motivo di astensione o ricusazione del giudice autore del
provvedimento. E ciò – come recentemente affermato dalla Corte di
cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23 giugno 2015, n. 13018 –
neppure nel caso di intervento del magistrato in detta causa: non vi è,
infatti, un rapporto diretto parte-magistrato, che valga a qualificare il
secondo come debitore – anche solo potenziale – della prima.

> 

> 5.7.– È infine non fondata la questione in riferimento all’art. 111 Cost.,
sotto il profilo del contrasto con il principio della ragionevole durata del
processo.

> 

> Il giudice a quo – motivando tale dubbio di legittimità costituzionale
sulla base dell’assunto che, abolito il filtro preliminare, i tempi per
pervenire ad una pronuncia sull’ammissibilità sono invece quelli del
processo ordinario, di «lunghezza eccessiva ed irragionevole» - non
considera che detto dubbio dovrebbe per ciò stesso inerire a tutti i giudizi
civili ordinari se non preceduti da meccanismi di preliminare delibazione
della domanda simili a quello contemplato dall’abrogato art. 5 della legge
n. 117 del 1988. Ciò che rende di evidente precarietà logica la premessa
argomentativa del rimettente e, dunque, non fondata la questione che da essa
si sviluppa.

> 

> 5.8.– In conclusione, tutte le questioni di legittimità costituzionale,
aventi per oggetto l’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015,
prospettate dal Tribunale ordinario di Genova, debbono essere dichiarate non
fondate.

> 

> 

> per questi motivi

> 

> LA CORTE COSTITUZIONALE

> 

> riuniti i giudizi,

> 

> 1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 2, comma 1, lettere a), b) e c), 3, comma 2, e 4 della legge 27
febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei
magistrati), e dell’art. 9, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117
(Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie
e responsabilità civile dei magistrati), come modificato dall’art. 6 della
legge n. 18 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, primo
comma, 81, terzo comma, 101, secondo comma, e 111, secondo comma, della
Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona, con l’ordinanza indicata in
epigrafe;

> 

> 2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli
artt. «4 e/o 7», 7 e 8, comma 3, della legge n. 117 del 1988, come
modificati o sostituiti dalla legge n. 18 del 2015, e dell’art. 3, comma 2,
della legge n. 18 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, 101,
«101 e seguenti», 104 e 113 Cost., dal Tribunale ordinario di Treviso, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;

> 

> 3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 4, comma 3, 7, 8, comma 3, e 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988,
come modificati o sostituiti dalla legge n. 18 del 2015, e dell’art. 3,
comma 2, della legge n. 18 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3,
24, 28, 101, 111 e «101-113» Cost., dal Tribunale ordinario di Catania, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;

> 

> 4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 2, commi 2 e 3, della legge n. 117 del 1988, come sostituito
dall’art. 2, comma 1, lettere b) e c), della legge n. 18 del 2015,
sollevate, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, 104, primo comma,
107, terzo comma, e 134 Cost., dal Tribunale ordinario di Enna, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;

> 

> 5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015, sollevate, in riferimento
agli artt. 3, 25, 101, 104 e 111 Cost., dal Tribunale ordinario di Genova
con l’ordinanza indicata in epigrafe.

> 

> Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 3 aprile 2017.

> 

> F.to:

> 

> Paolo GROSSI, Presidente

> 

> Franco MODUGNO, Redattore

> 

> Roberto MILANA, Cancelliere

> 

> Depositata in Cancelleria il 12 luglio 2017.

> 

> Il Direttore della Cancelleria

> 

> F.to: Roberto MILANA

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