[Area] Fw: QUESTIONE GIUSTIZIA - La Corte di cassazione e l’assegno divorzile

Stefano Calabria stefano.calabria a giustizia.it
Ven 21 Lug 2017 11:14:44 CEST


La recente sentenza n. 11504/2017 della Cassazione, che si commenta nell’articolo di Isabella Mariani, mi lascia molto perplesso, se non contrario.

Sul piano letterale l’approdo raggiunto non è così univoco e necessitato, come invece si afferma nella sentenza: il legislatore del 1987 discorre di assenza di “mezzi adeguati”, ma non precisa altro, ossia non precisa l’adeguatezza a che cosa si debba riferire. Pertanto, sul piano letterale, è ben possibile che l’adeguatezza la si correli tanto all’autosufficienza economica quanto al pregresso tenore di vita matrimoniale, necessario antefatto del divorzio e parametro tuttora utilizzato durante la fase della separazione. Anche sul piano storico, la normativa ante 1987 non parlava di “tenore di vita”, né direttamente né indirettamente sicché alla novella del 1987 si è voluto far dire troppo. 
Del resto, se il dato letterale fosse stato insuperabile, la giurisprudenza costante dal 1990 ad oggi avrebbe violato la legge, il che mi pare difficile da sostenere e da credere.
Si è trattato quindi, da parte del collegio giudicante, di un’interpretazione evolutiva, a mio avviso ispirata da scoperti intenti ideologici, volti ad eliminare quella “cripto-indissolubilità” del matrimonio che l’estensore della sentenza aveva denunciato in un articolo, pubblicato sempre su Questione Giustizia.
Sarebbe stato (e sarebbe tuttora) decisamente preferibile rimettere la questione alle sezioni unite alla luce del completo ribaltamento di una giurisprudenza granitica, ed anche confermata di recente, nonché del rilievo sociale della questione.

Ciò detto, nell’articolo di Isabella Mariani, si scrive che tale interpretazione “se fornisce la corretta risposta a fattispecie ricorrenti di matrimonio fra persone anche redditualmente omogenee e comunque autosufficienti, rischia di ledere i diritti del soggetto che ha posposto la propria dimensione individuale alla cura della famiglia”. 
Non si può che essere d’accordo, e si deve aggiungere che tutto ciò costituisce una mortificazione dei princìpi solidaristici che informano la nostra Costituzione e che non riguardano soltanto i rapporti verticali ma anche i rapporti orizzontali.
E spiace che tutto ciò passi più o meno sotto silenzio; spiace ma non sorprende, perché è un ulteriore sintomo di come (purtroppo, dal mio punto di vista) in tutti i settori della società il tessuto solidaristico di impostazione costituzionale sia sempre più spesso travolto e sommerso da impostazioni culturali di carattere individualistico, tanto nei rapporti economici quanto in quelli sociali. E ciò accade anche nella cultura progressista, dove la prospettiva solidaristica sembra sempre più sbiadita dalla difesa del “mio” e del “sè”: non mi stupirei troppo se, in tempi non troppo lontani, si arriverà senza troppe proteste anche ad una modifica degli articoli 41, 42 e 44 della Costituzione eliminando i criteri dell’utilità sociale dell’iniziativa economica privata, della funzione sociale della proprietà e così via. 
Il tutto per tutelare “le magnifiche sorti e progressive” dei diritti individuali; ovviamente di quegli individui “forti” che hanno da loro la forza e la capacità per tutelarli.

Esemplifico e torno al tema specifico. Tizio e Caia si sono sposati, hanno vissuto insieme per venti o trent’anni ed hanno avuto figli. Poi si separano e divorziano. Uno dei due coniugi ha un reddito ed un patrimonio molto superiore all’altro, che magari non lavora, è un impiegato o un insegnante e/o , per seguire il coniuge più benestante, ha cambiato città, ha rinunciato ad opportunità professionali ed altro. A 50 o 60 anni potrebbe trovare lavoro? Con scelte di vita già fatte? E’ giusto farlo vivere con 1.500 euro quando la famiglia ne introitava 10.000? “Like a rolling stone”, come cantava Dylan? 
Pensiamo soprattutto al caso dei figli, i quali si ritroveranno un genitore con un tenore di vita abissalmente superiore all’altro, con tutto quel che ne consegue: sarà educativo per loro tutto ciò? Garantirà loro una crescita equilibrata ed armonica?
Penso quindi che la giurisprudenza in questione sia un serio passo indietro sul piano sociale, a detrimento della parte più debole dei rapporti obbligatori che scaturiscono dalla cessazione degli effetti del matrimonio. E che il diritto vivente, se ben interpretato, ben poteva e ben può scongiurare ipotesi di ingiusti vitalizi per matrimoni di breve durata e senza figli, magari interrotti per scelta, se non per addebito, proprio di chi richiama l’assegno divorzile. 

Ove il mutamento giurisprudenziale si confermi, a mio avviso bisognerà interpretare con equilibrio il concetto di autosufficienza economica, calandolo in concreto nell’effettiva capacità lavorativa offerta dal mercato anche in relazione alla concreta condizione sociale del coniuge più debole. Evitando ad esempio di dire che una casalinga di 50 anni che è sempre stata tale può lavorare, ad esempio come colf e come badante e che soltanto i gravi problemi di salute o l’età molto avanzata escludono l’autosufficienza economica.

Osservo infine che, almeno a mio  parere, un mutamento giurisprudenziale non dovrebbe integrare quei “giustificati motivi” che, ai sensi dell’art. 9 della legge 898/1970, consentono la revisione delle condizioni di divorzio pur in presenza del giudicato: i “giustificati motivi” devono riguardare una modifica in fatto delle condizioni patrimoniali degli ex coniugi, e non certo una modifica giurisprudenziale, per quanto importante (non è un caso, in proposito, che dopo che si è formato il giudicato sul diritto all’assegno divorzile l’intervenuta nullità del matrimonio ecclesiastico non incide in alcun modo sulle statuizioni economiche relative al divorzio). 
Dunque il revirement giurisprudenziale di cui sopra, ove dovesse confermarsi, sarebbe a mio avviso applicabile soltanto alle fattispecie dove non si sia formato un giudicato sull’assegno divorzile.

Saluti

Stefano Calabria



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