[Area] R: [Nuovarea] (senza oggetto)

Carlo Brusco c.brusco a alice.it
Mer 27 Set 2017 16:23:48 CEST


Per chi fosse interessato unisco copia di un intervento da me svolto ad
un’iniziativa di Libera per ricordare la figura di Pietro Scaglione non solo
vittima di “cosa Nostra” ma anche di quelle che ritengo siano state
insinuazioni (espresse in mala fede ?) nei suoi confronti. Mi sembra giusto
infatti ricordare anche le vittime meno note di questo fenomeno non ancora
debellato.

 

Carlo Brusco

 

 

I) Pietro Scaglione, allora Procuratore della Repubblica presso il Tribunale
di Palermo, fu ucciso il 5 maggio 1971. All’epoca le norme processuali
prevedevano – nel caso di reati commessi in danno di magistrati – non
un’automatica assegnazione ad altra autorità giudiziaria (come avviene oggi)
ma che fosse la Corte di Cassazione a individuare l’autorità giudiziaria
competente e la scelta cadde su Genova.

Le indagini svolte per alcuni decenni non portarono a conclusioni idonee a
sostenere l’accusa in giudizio – anche se apparve subito evidente che
l’omicidio era maturato all’interno del sodalizio mafioso di “Cosa nostra” –
e nel 1990 si pervenne ad una sentenza di proscioglimento delle persone (in
buona sostanza i vertici del sodalizio) cui era stato addebitato l’omicidio.

Pochi anni dopo, a seguito delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di
giustizia che avevano riferito alcuni particolari riguardanti l’omicidio, le
indagini furono riprese e il fascicolo fu assegnato a me che all’epoca
svolgevo funzioni di sostituto procuratore della Repubblica addetto alla
Direzione distrettuale antimafia.

Faccio una premessa. Io nulla sapevo di questo fatto criminoso ma, da
cittadino, mi ero fatto un’idea di questo evento come se si trattasse di uno
scontro interno a “Cosa nostra” perché i giornali così l’avevano in
prevalenza presentato. Insomma mi ero fatto l’idea che Pietro Scaglione
fosse un personaggio ambiguo forse eliminato perché non aveva eseguito
qualche ordine mafioso e non perché fosse un magistrato che aveva fatto la
sua parte nel contrasto con la mafia.

Bene: anticipo subito che la lettura delle carte e le ulteriori indagini
svolte da me e da altri colleghi (dopo che, nel 1994, fui trasferito ad
altro incarico) hanno smentito in pieno questa impressione (in effetti solo
di questo si trattava perchè non esiste alcun elemento di conferma di questa
falsa immagine) e mi sono convinto che Scaglione fu ucciso, al contrario,
perché aveva svolto in modo indipendente e coraggioso le sue funzioni.

 

II) Oggi, da un punto di vista storico, restano due domande alle quali deve
darsi risposta. Chi furono gli autori dell’omicidio e quale fu il movente.

Alla prima domanda credo che la risposta posa essere data con tranquillità
sia con argomentazioni logiche che in base alle dichiarazioni acquisite dai
collaboratori di giustizia. All’omicidio parteciparono personalmente sia
Luciano Liggio che Salvatore Riina; lo hanno riferito i collaboratori
Buscetta, Mutolo, Di Carlo e Cancemi. Alcuni (in particolare Mutolo) parlano
anche della partecipazione di Gerlando Alberti (detto “u paccarrè”) che
altri escludono (o non confermano) mentre Di Carlo in un primo tempo fa il
nome di Bernardo Provenzano per poi mettere in dubbio questa affermazione.

Non partecipò personalmente, secondo i collaboratori, Pippo Calò ma tutti
danno per scontato che, quanto meno, vi fosse il suo assenso all’omicidio
perché questo fu eseguito nel “mandamento” al cui vertice Calò si trovava e
le regole mafiose imponevano che ogni evento criminoso di rilievo fosse
autorizzato dal capo del mandamento.

Perché questa verità storica non è approdata ad un processo, per lo meno nei
confronti dell’unica persona ancora vivente (Riina) tra quelle indicate ? 

Perché tutte le dichiarazioni dei collaboratori riportano frasi dette e
convinzioni espresse da numerosi personaggi facenti capo a “Cosa nostra” che
non avevano partecipato personalmente o dato una qualche collaborazione al
fatto criminoso ma ne avevano sentito parlare da fonti certamente informate.
Insomma siamo nel “sentito dire” e non da parte dei protagonisti ma di
persone che a loro volta avevano sentito parlare di quegli eventi. In
particolare i collaboratori alcun riferimento hanno fatto a dichiarazioni a
loro rese da Liggio, Calò o Riina (e tanto meno da Gerlando Alberti neppure
da tutti indicato come partecipe dell’azione).

Sono dunque elementi insufficienti per avviare un processo anche se,
considerando la provenienza delle dichiarazioni riferite dai collaboratori,
credo si possano ritenere del tutto sufficienti per ritenere raggiunta la
verità storica su questo gravissimo fatto criminoso.

 

III) Dalle indagini svolte è peraltro apparso evidente che la decisione di
uccidere il procuratore maturò all’interno del gruppo dei “corleonesi” che
già si era formato e che si contrapponeva in modo deciso al gruppo dei
“palermitani” che volevano evitare che il sodalizio giungesse ad una
contrapposizione armata con lo Stato. 

Non è un caso – hanno riferito alcuni collaboratori (non tutti per la
verità) – che Gaetano Badalamenti (che insieme a Stefano Bontate era il
l’esponente di maggior rilievo dell’ala c.d. “moderata” di “cosa nostra”,
quelli che uccidevano quando era necessario e non per dimostrare la loro
potenza) fu molto contrariato dell’omicidio di Pietro Scaglione.

Questa contrapposizione tra i due gruppi – pur facenti entrambi parte di
“Cosa nostra” – si svilupperà poi in una vera e propria guerra tra le due
formazioni con centinaia di morti (tra i quali Stefano Bontate ucciso dai
corleonesi nel 1981) e con la vittoria di questa fazione mafiosa che
costrinse Gaetano Badalamenti ad emigrare.

 

IV) Meno chiare sono le ragioni dell’omicidio. Dalle indagini svolte due
eventi sono emersi che possono aver indotto i corleonesi ad attuarlo. 

Da parte di alcuni collaboratori si è detto che Liggio era furioso perché
Scaglione aveva mandato sua sorella al soggiorno obbligato. Il ricordo dei
collaboratori su questo aspetto è certamente impreciso perché la sorella di
Liggio fu effettivamente inviata al soggiorno obbligato ma nel 1973. E’ però
possibile che vi fosse stata una richiesta di Scaglione antecedente alla sua
uccisione anche perché ne parlano diversi collaboratori ma non se ne è
trovata traccia documentale.

Ciò che è certo è che Liggio in più occasioni si espresse dicendo che
“Scaglione lo perseguitava”. Questo convincimento di Liggio può dunque
quanto meno aver rafforzato il movente per uccidere il Procuratore.

 

V) E’ forse più convincente l’altra ipotesi cui alcuni collaboratori hanno
ricollegato il movente dell’omicidio anche se v’è da dire che non può certo
escludersi la coesistenza di entrambe le motivazioni.

Scaglione aveva seguito un processo nel quale Filippo e Vincenzo RIMI erano
stati rinviati a giudizio  per l’omicidio in danno del figlio di Serafina
Battaglia divenuta poi nota come “vedova della mafia” perché il marito era
stato ucciso da appartenenti all’organizzazione mafiosa di cui faceva parte
e la Battaglia aveva testimoniato in più occasioni su quanto a sua
conoscenza sulle frequentazioni e sulle confidenze del marito. Il figlio
della Battaglia aveva cercato di uccidere i Rimi, senza riuscirvi, e poi era
rimasto vittima della ritorsione perché era stato ucciso e di questo
omicidio erano appunto accusati i Rimi.

Nell’ambito di questa vicenda i corleonesi erano molto interessati perché i
Rimi erano imparentati con Gaetano Badalamenti e seguivano la sua linea
“moderata” avversata dai corleonesi i quali, a quanto riferito dai
collaboratori, avrebbero voluto che i Rimi venissero condannati. Scaglione –
secondo questa ricostruzione – aveva continuato a svolgere indagini e, in
particolare, aveva sentito come testimone un avvocato le cui dichiarazioni
avrebbero screditato quelle della Battaglia rese sull’omicidio del figlio.

Di qui la decisione di uccidere il Procuratore perché, con le sue indagini,
stava creando i presupposti per l’assoluzione dei Rimi (poi effettivamente
assolti).

 

VI) Da tutto quanto emerge dai fatti accertati e dalle dichiarazioni rese da
collaboratori e da coloro che collaboratori non erano (mi riferisco in
particolare a Giuseppe Di Cristina capo dell’organizzazione criminale di
Riesi che, prima di essere ucciso, rese ai Carabinieri dichiarazioni non
verbalizzate sull’organizzazione di “Cosa nostra” e sui crimini commessi)
mai alcuno ha espresso dubbi sull’onestà e sulla dedizione allo Stato del
Procuratore Scaglione.

Anche lui avrà commesso errori e sottovalutazioni – come avvenuto a tanti in
quegli anni nei quali a nessuno erano chiare le dimensioni e la natura del
fenomeno mafioso – ma quel che è certo che alcun elemento è emerso che
potesse far dubitare della sua lealtà nei confronti dello Stato che ha
servito fedelmente fino alla fine. Del resto entrambi i moventi ipotizzati
si inseriscono in una logica di contrasto al fenomeno mafioso (la asserita
volontà persecutoria nei confronti di Liggio) e comunque di affermazione
della legalità e di accertamento dei responsabili di un crimine (indagini
sull’omicidio del figlio della Battaglia).

Nessuno dei collaboratori sentiti nel procedimento ha mai espresso dubbi in
proposito. Buscetta parla di Scaglione come di un “uomo integerrimo e
contrario al fenomeno mafioso” (e Buscetta parlava solo delle cose di cui
era certo; se no diceva lui stesso di avere dubbi sulle sue affermazioni).
Abbiamo visto che Luciano Liggio lo vedeva come un nemico che lo
perseguitava.

Credo proprio che Francesco Scaglione abbia diritto ad essere riconosciuto
come persona di assoluta onestà che è stata vittima della mafia.

 

 

 

 

 

 

 

Da: Nuovarea [mailto:nuovarea-bounces a nuovarea.it] Per conto di Sferlazza
Ottavio
Inviato: lunedì 25 settembre 2017 01:41
A: movgiust a yahoogroups.com; mailinglist-anm a associazionemagistrati.com;
nuovarea a nuovarea.it; area a areaperta.it; magistratirc a yahoogroups.com
Oggetto: [Nuovarea] (senza oggetto)

 

A distanza di appena quattro giorni dal 27° anniversario dell'assassinio di
Rosario Livatino sento oggi il dovere morale di ricordare il sacrifico di un
altro giudice siciliano, Antonino Saetta, presidente della Corte di assise
di appello di Palermo, anch'egli di Canicattì come Rosario, e come lui
ucciso, insieme al figlio Stefano, mentre percorreva la stessa SS 640 a
pochi chilometri da Caltanissetta per fare rientro a Palermo nella tarda
serata del 25 settembre 1988.
Lo voglio ricordare, a distanza di 29 anni,  perchè Saetta, appartenente
alla lista dei primi magistrati giudicanti uccisi da "Cosa Nostra", è un
eroe civile poco noto e quasi dimenticato.
Lo voglio ricordare soprattutto per i colleghi più giovani che nel 1988
erano nati solo da qualche anno.
Ho conosciuto la statura morale del presidente Saetta solo attraverso lo
studio delle carte processuali, avendo avuto l'onore di presiedere la corte
di assise di Caltanissetta che ha condannato, con sentenza ormai passata in
giudicato, i mandanti Salvatore Riina e Francesco Madonia, ed un esecutore
materiale, Pietro Ribisi.
E' giusto ricordare, per rendere onore al suo altissimo senso del dovere e
dello Stato, che in esito alle indagini preliminari ed alla istruttoria
dibattimentale, come risulta dalla motivazione della sentenza che ho
redatto, fu accertato che con l'uccisione del dr. Antonino Saetta, "cosa
nostra" volle perseguire una duplice finalità.
Innanzitutto vendicarsi nei confronti di un giudice che non aveva voluto
piegarsi in più occasioni alle intimidazioni ed alle richieste di quella
organizzazione.
Il presidente Saetta aveva presieduto la Corte di Assise di appello che dopo
un tormentato iter processuale, fortemente condizionato da molteplici
tentativi di "aggiustamento" dei precedenti giudizi, aveva condannato, in
sede di rinvio dalla cassazione, gli esecutori materiali dell'omicidio del
capitano Emanuele Basile, ucciso a Monreale nel maggio del 1980, Giuseppe
Madonia, figlio di Francesco e figlioccio d Riina, Armando Bonanno e Puccio
Vincenzo.
Molteplici fonti probatorie, fra le quali anche collaboratori di giustizia,
rivelarono che alcuni giudici popolari erano stati contattati tramite le
famiglie mafiose dei rispettivi luoghi di residenza e che quegli stessi
giudici popolari avevano successivamente fatto sapere a chi li aveva
avvicinati che il presidente Saetta si era imposto in camera di consiglio
affermando di non essere disposto ad emettere una sentenza di assoluzione in
presenza di un grave quadro probatorio a carico degli imputati.
Appare univocamente significativa la seguente cronologia: la sentenza fu
emessa il 23 giugno 1988, il successivo 16 settembre fu depositata la
motivazione e a distanza di appena 9 giorni fu eseguito l'agguato che costò
la vita al presidente ed al figlio Stefano che gli sedeva accanto.

Il secondo obiettivo, processualmente accertato, era quello di prevenire il
pericolo che un giudice che aveva dato prova di essere integerrimo ed
inavvicinabile presiedesse la Corte di Assise di appello nel processo a
carico di Abbate Giovanni + 459, quello che ormai è storicamente noto come
il primo maxiprocesso a "cosa nostra" istruito da Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino.
La convinzione che si era diffusa in "cosa nostra" era fondata, perchè
effettivamente il maxiprocesso era stato assegnato alla prima sezione della
Corte di assise di appello di Palermo che era presieduta proprio dal
presidente Saetta, il quale nei primi giorni di settembre del 1988 era stato
ufficiosamente incaricato della trattazione di quel dibattimento.
La sua intransigenza morale era, peraltro, ben nota a "cosa nostra" fin dal
1985 allorchè  aveva personalmente respinto ogni tentativo di avvicinamento
per condizionare l'esito del primo processo per la strage di via Pipitone
Federico, in cui perse la vita il consigliere istruttore di Palermo Rocco
Chinnici, tentativo segnalato dallo stesso presidente Saetta all'allora
comandante della compagnia dei carabinieri di Canicattì.
Il processo si concluse con la condanna di Michele Greco, detto il papa,
Geco Salvatore ed altri.
E' appena il caso di sottolineare l'importanza che rivestiva per "cosa
nostra" evitare che il giudizio di appello del maxiprocesso fosse presieduto
dal dr. Saetta: prevenire il pericolo che si consolidassero determinati
principi giurisprudenziali  che erano stati affermati per la prima volta
nella sentenza di primo grado, con particolare riguardo al riconoscimento
della unitarietà e della struttura verticistica di "cosa nostra", e ciò
anche in relazione alla responsabilità della "commissione" per i delitti
cosiddetti eccellenti ed in genere per quelli corrispondenti ad un interesse
strategico della organizzazione come quelli riconducibili alla  c.d. guerra
di mafia.
 Per molto aspetti l'assassinio del presidente Saetta e del figlio Stefano
ha rappresentato, oltre che un vendetta, anche un delitto con chiara
finalità intimidatoria di natura "esemplare" nei confronti dei magistrati
con funzioni giudicanti.
Al presidente Antonino Saetta va la nostra immensa gratitudine per l'esempio
di coraggio,  rettitudine ed altissimo senso delle istituzioni che egli
rappresenta per le giovani generazioni ed il nostro commosso ricordo.

     Ottavio Sferlazza
      Procura Palmi                  

             

 


 
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