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Carlo Brusco c.brusco a alice.it
Sab 17 Nov 2018 13:15:55 CET


        Oggi è il 17 novembre 2018. Sono passati ottanta anni da quando fu
approvato il provvedimento normativo più organico in tema di leggi razziali
dopo che – il 5 e il 7 settembre precedenti – erano stati approvati due
provvedimenti che, pur rilevantissimi, avevano però disciplinato due soli
settori (la scuola e gli ebrei stranieri). Il r.d.l. 17 novembre 1938 n.
1728 infatti disciplina:

a) La definizione di “appartenente alla razza ebraica”. I due precedenti
provvedimenti si erano limitati ad affermare (art. 6 r.d.l. 1390; art. 2
r.d.l. 1381) che era da considerare ebreo “colui che è nato da genitori
entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da
quella ebraica”. Questa definizione è sostanzialmente ripetuta (art. 8 sub.
A) dalla nuova disciplina che però aggiunge (sub. B, C e D) tre casi con la
previsione che siano considerati di razza ebraica: 1) colui che è nato da
genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera; 2)
colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre; 3)
il nato da genitori di nazionalità italiana, di cui solo uno di razza
ebraica, che appartenga alla religione ebraica o sia iscritto ad una
comunità israelitica o abbia fatto “manifestazioni di ebraismo”.     Non è
invece considerato di razza ebraica (art. 8 ult. comma) “colui che è nato da
genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che,
alla data del 1° ottobre 1938…..apparteneva a religione diversa da quella
ebraica”.

        b) I divieti di matrimonio. L’art. 1 è lapidario: “il matrimonio del
cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è
proibito”; se “celebrato in contrasto con tale divieto è nullo”. Ma la
disciplina non si limita a questo divieto. Anche il matrimonio con uno
straniero è considerato fonte di pericolo per la purezza razziale: infatti
l’art. 2 subordina il matrimonio del cittadino italiano con persona di
nazionalità straniera (anche se ariana) “al preventivo consenso del ministro
per l’interno”. Anzi, se si tratta di dipendenti dello stato,
amministrazioni pubbliche, organizzazioni del partito fascista ecc. il
divieto è assoluto e la trasgressione importa la perdita dell’impiego e del
grado (art. 3). E’ poi previsto (art. 6) che i matrimoni concordatari
celebrati in contrasto con le norme indicate non possano essere trascritti. 

c) L’esclusione degli ebrei dalle attività lavorative. Nell’ambito della
scuola e dell’università gli ebrei – docenti e discenti – erano stati già
eliminati. L’art. 13 del r.d.l. 1728/1938 prevede invece la dispensa dal
servizio (entro tre mesi dall’entrata in vigore del provvedimento) dei
dipendenti di razza ebraica: delle amministrazioni civili e militari dello
Stato; delle province, comuni, istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficienza (o, anche se private, amministrate col concorso di questi
enti); delle aziende municipalizzate; delle amministrazioni degli enti
parastatali nonché di quelli sottoposti a vigilanza dello Stato o al cui
mantenimento lo Stato concorreva; delle aziende che attingevano a queste
ultime i mezzi necessari per il raggiungimento dei propri fini; delle
società almeno per la metà del capitale a partecipazione statale; delle
amministrazioni di banche di interesse nazionale; delle amministrazioni di
imprese private di assicurazione.

        E’ da sottolineare, in particolare, che l’esclusione degli ebrei da
tutte le indicate attività lavorative non riguardava soltanto gli impieghi
pubblici bensì anche una significativa parte di attività svolte da imprese
private: imprese a partecipazione statale, banche di interesse nazionale,
imprese di assicurazione. Bastava inoltre, a leggere la norma, che lo Stato
concorresse a finanziare la loro attività (si pensi, per giudicare con una
visione attuale, alle attività di pubblico trasporto che da sempre
sopravvivono con contributi pubblici).

        d) L’esclusione degli ebrei da altri incarichi. Altre previsioni. Il
decreto legge che stiamo esaminando prevedeva poi l’esclusione degli ebrei
da una serie di altri incarichi: dal prestare servizio militare in pace e in
guerra (art. 10 lett. A); dall’esercitare l’ufficio di tutore o curatore di
minori o di incapaci non ebrei (art. 10 lett. B). Era previsto anche (art.
12) il divieto, per gli ebrei, di avere alle proprie dipendenze, in qualità
di domestici, cittadini italiani di razza ariana. Non sembra abbia avuto una
significativa applicazione a serviva a far apparire l’ebreo come ricco
sfruttatore del lavoro altrui.

        e) L’esercizio di attività d’impresa. L’art. 10 lett. c del r.d.l.
1728/1938 prevede una serie di limitazioni a questo esercizio. I cittadini
italiani di razza ebraica non possono infatti essere “proprietari o gestori,
a qualsiasi titolo, di aziende dichiarate interessanti la difesa della
nazione”. Questo divieto (di essere proprietari o gestori) è poi esteso alle
aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone. In tutte
queste aziende gli ebrei non possono neppure assumere la direzione né
svolgervi l’ufficio di amministratore o di sindaco.

        f) Il diritto di proprietà. Il r.d.l. 1728/1938 prevedeva anche
forti limitazioni al diritto di proprietà. In particolare i cittadini
italiani di razza ebraica non potevano (art. 10 lett. D ed E): 1) essere
proprietari di terreni che, in complesso, avessero un estimo superiore a
lire 5.000; 2) essere proprietari di fabbricati urbani che, in complesso,
avessero un imponibile superiore a lire 20.000. In base al r.d.l. 9 febbraio
1939 n. 126, contenente norme di attuazione del r.d.l. 1728/1938, il residuo
doveva essere trasferito (art. 4) ad un ente appositamente costituito (Ente
di gestione e liquidazione immobiliare: Egeli) e trasformato in titoli
triennali nominativi con interesse del 4%. Furono previsti pesanti oneri per
il trasferimento di beni mobili all’estero in particolare per gli ebrei
stranieri. 

Naturalmente i limiti all’attività d’impresa e al diritto di proprietà
crearono forme di accaparramento - da parte di non ebrei pronti ad
approfittare della situazione di debolezza giuridica ed economica delle loro
controparti - dei beni che gli ebrei erano costretti a dismettere. E spesso
non si trattava di beni “neutri”: basti pensare, nel campo
dell’informazione, alla controversia giudiziaria riguardante la proprietà
del giornale “Il Piccolo” di Trieste che il proprietario, ebreo, fu
costretto a cedere nel 1938 rivendicando, nel dopoguerra, di essere stato
costretto alla cessione dell’impresa editoriale ad un prezzo vile.

Lo stesso r.d.l. 1728/1938 introdusse anche l’istituto della c.d.
“discriminazione” stravolgendo il significato di una parola il cui
significato era opposto a quello comunemente utilizzato nel senso che
discriminati sono coloro che hanno un trattamento deteriore rispetto ad
altri. La parola è stata utilizzata (non dal r.d.l. 1728 che stiamo
esaminando ma dalla normativa successiva), nel nostro caso, per indicare le
persone che, in base all’art. 14 del r.d.l. 1728/1938 erano esonerate da una
parte soltanto dell’applicazione delle norme contenute nell’art. 10 (divieto
di prestare servizio militare; proprietà e gestione di alcune specie di
aziende; limiti alla proprietà terriera e di fabbricati) e 13 lett. h
(divieto di prestare servizio presso imprese private di assicurazione) del
r.d.l. 1728. 

        La discriminazione era prevista (dall’art. 14) per i familiari di
caduti nelle varie guerre e “per la causa fascista”; per i mutilati e
invalidi delle varie guerre; per i combattenti delle medesime guerre che
abbiano conseguito almeno la croce al merito di guerra; per i mutilati,
invalidi e feriti della causa fascista; per gli iscritti al p.n.f. negli
anni dal 1919 al 1922 e nel secondo semestre del 1924; per i legionari
fiumani. Con una clausola di chiusura era poi prevista la discriminazione
per chi avesse acquisito “eccezionali benemerenze” e per la valutazione
sull’esistenza di questo requisito la legge prevedeva (art. 16)
l’istituzione di una speciale commissione presso il ministero dell’interno
composta dal sottosegretario all’interno, da un vice segretario del p.n.f. e
dal capo di stato maggiore della milizia volontaria che decideva con
provvedimento non impugnabile.

        La non applicabilità della normativa di disfavore (chiamiamola così)
era dunque assai limitata ma con provvedimenti successivi (in particolare la
l. 1054/1939, riguardante i liberi professionisti) l’istituto trovò più
ampia applicazione normativa. Paradossalmente però i margini di applicazione
di questa normativa, dopo un iniziale periodo nel quale l’accoglimento delle
domande fu consistente, si andarono via via riducendo e i criteri adottati
per l’accoglimento delle domande vennero applicati con sempre maggior
rigore. Del resto fu inizialmente discusso anche se l’iscrizione al p.n.f.
fosse consentita agli ebrei discriminati (problema poi risolto in senso
negativo).

Spero di non aver rovinato ad alcuno il fine settimana. E spero che coloro
che ancor oggi minimizzano l’ambito di applicazione delle leggi razziali
rivalutino questo giudizio.

 

Carlo Brusco

 

 



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