[Area] Magistratura, società, politica

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Gio 28 Feb 2019 00:05:00 CET


 

 

Per chi fosse eventualmente interessato in calce il link ad una recensione
dell’avvocato Alberto Mittone al mio libro “Magistratura e società
nell’Italia repubblicana” , Laterza 2018, pubblicata ieri sulla rivista
Doppio zero. A parte i riferimenti al mio libro in questo scritto Alberto
Mittone, ancora una volta, offre interessanti riflessioni su temi di
stringente attualità

Edmondo Bruti Liberati

 

https://www.doppiozero.com/materiali/magistratura-e-societa-nellitalia-repub
blicana

 

segue il testo

Magistratura e società nell’Italia repubblicana

Edmondo Bruti Liberati

 <https://www.doppiozero.com/users/amittone> Alberto Mittone

Magistratura e società nell’Italia repubblicana (Laterza, 2018) è un tema
nevralgico, sempre ed ovunque. In particolare lo è in Italia per la storia
della magistratura, per i suoi collegamenti complessi e obliqui con la
società e con la politica. Ed è stato, anche tuttora, incandescente per il
volano, esistente e spesso ignorato per ipocrisia, tra agire giudiziario e
assetto politico, tra costruzione e applicazione delle leggi, tra visibilità
dei protagonisti e la loro circolazione, presente e futura, nella vita
collettiva. L’autore del saggio è persona di esperienza e prestigio, con
esperienza presso la Procura delle Repubblica di Milano anche come
procuratore capo, presso il Consiglio superiore della magistratura
(1981-1986), presso l’Associazione nazionale magistrati come presidente
(2002-2005), presso Magistratura democratica come presidente (nel 2007). 

Non nuovo a ricostruzioni meditate sulle vicende italiane della
magistratura, in questo lavoro Bruti Liberati è riuscito a connettere storia
e cronaca, in un lungo viaggio, senza panegirici, rimpianti, esaltazioni e
lamentele. 

 

Il percorso che emerge dalle pagine non si esaurisce però nella storia della
magistratura nel suo legame con la società. Esso consente di cogliere una
storia più complessa: quella che in Italia coinvolge, ed ha coinvolto, la
magistratura ed i sistemi politici. Non solo per comodità ma chiarezza
possiamo marcare e differenziare alcuni periodi.

Il primo riguarda il dopoguerra, caratterizzato dal difficile rapporto con
il passato. Una scivolosa continuità si salda con una stentata rottura. I
sistemi, quello politico e quello giudiziario, vivono come in simbiosi, in
uno stato d’isomorfismo.

 

La prima, incisiva frattura ha luogo con l’approntamento e l’entrata in
vigore della Costituzione, anche perché nell’Italia prefascista non era
avvenuta una completa trasformazione dello Stato in senso liberale, tanto
meno nella funzione giudiziaria. A dir il vero, ricorda Bruti Liberati, con
il regime fascista le garanzie d’indipendenza della magistratura non furono
interamente stravolte (a differenza di quanto avvenuto nel nazismo), non fu
introdotto l’obbligo di giuramento e fu conservata una discreta indipendenza
di giudizio. Con la Costituzione si realizza il ribaltamento, in particolare
con la previsione, e successiva istituzione, del Consiglio Superiore della
Magistratura che delinea un modello di autogoverno estendendo le garanzie di
indipendenza anche ai rappresentanti dell’accusa pubblica, cioè al pubblico
ministero.

Dal 1945 al 1948 si assiste al fallimento della normativa sull’epurazione,
sostanzialmente disapplicata, e all’applicazione estensiva dell’amnistia, cd
Togliatti, del 1946. Negli anni successivi dilaga il fenomeno dei ‘redenti”
come furono definiti (M. Serri, I redenti: gli intellettuali che vissero due
volte, Corbaccio, 2009), cioè di coloro, magistrati ma anche intellettuali e
politici, distintisi durante il regime per elogi e per incarichi di vertice,
ad esempio nel Tribunale speciale. Bruti Liberati non indugia
sull’argomento, ma la lettura di quei nomi gela il sangue non tanto per
l’adesione al regime, su cui possono essere intervenuti fattori diversi,
dalla convenienza alla passività, dalla gioventù alla sventatezza, quanto
per il contributo fattivo alla prospettiva razziale dal 1938. Da quell’anno
i giochi sono fatti senza scampo, e gela il sangue costatare la carriera
successiva degli “insospettabili” nei ranghi parlamentari, istituzionali,
giornalistici, alimentando la schiera dei paladini delle virtù, in un’Italia
concentrata frettolosamente nel dimenticare, nascondendo e nascondendosi.
Classico, ma si potrebbero citare altri nomi più noti al pubblico
generalista, è l’esempio di Gaetano Azzariti, giurista e magistrato. Questi
ricoprì posizioni di vertice presso il Ministero di grazia e giustizia
fascista, sottoscrisse il “Manifesto della razza’ e divenne anche il
presidente della commissione cd. “Tribunale della razza”. Cambiato il vento
e in preda ad un’amnesia offensiva, fu chiamato nel 1946 a operare come capo
di gabinetto proprio del guardasigilli Togliatti. Non solo: divenne giudice
costituzionale su nomina del presidente Gronchi nel 1955 e ne fu eletto
presidente nel 1957. Attualmente troneggia un suo busto nei corridoi del
palazzo della Consulta.

 

Nei primi anni ’50 la magistratura è ancora in larga parte irrigidita nel
passato, convergente nello sterilizzare la Costituzione soprattutto negli
organi superiori. Nel contempo si intravedono fessure innovative attraverso
decisioni ed anche attraverso contributi letterari di magistrati che
descrivono un modello non tradizionale di giudice. Esemplari, in questa
direzione, sono i romanzi di Giuseppe Guido Lo Schiavo (Piccola Pretura del
1949) da cui Pietro Germi trasse pochi anni dopo, nel 1949, il film In nome
della legge, e di Dante Troisi (Diario di un giudice del 1955).

Con il decennio degli anni ‘60 s’acuisce la rottura con il passato, e le
istituzioni, tra cui la giudiziaria, riescono a rimuovere le incrostazioni.
Inizia l’epoca del disgelo. Decisivo è il periodo tra il 1956 e il 1958 con
l’entrata in funzione della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore
della Magistratura. L’autore, in modo assai appropriato, ricorda la prima
sentenza costituzionale relativa a una norma secondaria sulla pubblica
sicurezza che imponeva la licenza per diffondere stampati in luogo pubblico.
La decisione, all’apparenza di scarso impatto, in realtà sconvolse un
assetto ancora intriso delle prospettive fasciste, anche se venne seguita da
un significativo disinteresse. Infatti nessuna ordinanza di rimessione alla
Corte venne promossa dalla cassazione, furono solo tre quelle provenienti
dalle corti di appello mentre tutte le altre furono avanzate dai pretori.

 

Da protagonista attivo dell’associazionismo Bruti Liberati è attento e
minuzioso nel descriverne gli sviluppi. Essi riguardano l’Associazione
nazionale magistrati, la cui prima componente nasce dalla scissione di un
gruppo (Unione dei magistrati italiani) che, su posizioni più conservatrici,
tenta di mantenere in vita due profili tradizionali: il principio gerarchico
e la funzione della Cassazione come organo di indirizzo. Nel 1964 si
costituisce la corrente di Magistratura democratica (di cui Bruti Liberati
ha anche fatto parte) che si affianca alle due preesistenti di Terzo potere
e di Magistratura indipendente. Essa si pone, si espone e si qualifica
soprattutto come avanguardia garantista, mantenendo negli anni anche
successivi un elevato tasso di politicizzazione. Con questo scossone
associativo si chiude in quegli anni, ricorda l’autore, «una pagina di
scandalosa discriminazione» con l’ingresso delle donne in magistratura. Nel
1965 vengono nominate le prime otto magistrate in un corpo in rapida
trasformazione, tanto che oggi le nuove immesse sono costantemente in
maggioranza nei concorsi.Sempre nel 1965 si svolge a Gardone uno dei più
importanti congressi dell’Associazione nazionale magistrati. In
quell’occasione viene assegnata al giudice la funzione di applicare la
Costituzione anche in via diretta. Insomma, osserva Bruti Liberati, «il
dibattito associativo si misura con la dimensione politica dell’attività
giudiziaria», principio che si fa strada pur nel contrasto con altre
componenti associate. 

 

Con quel congresso, negli anni ’70, si apre per la magistratura un periodo
cruciale. Diviene militante, interventista, attiva, ipercinetica trovandosi
ad affrontare uno dei periodi sociali e politici più bui. Si sovrappongono
le lotte sociali, la contestazione studentesca, la successiva tragica deriva
del terrorismo. Bruti Liberati vede l’inizio di questa fase nel 1968-69
quando si radicano i movimenti protagonisti dell’epoca successiva e compare
il terrorismo. Si staglia nel 1969 il tragico attentato di piazza Fontana di
cui vengono narrate le vicende giudiziarie con il corollario di depistaggi,
in un clima di scontro anche istituzionale nel quale emerge la volontà
politica di privilegiare la pista anarchica, inconsistente, con le
interferenze dei servizi a vario livello. Quella strage costituisce anche
l’occasione per un chiarimento traumatico all’interno di Magistratura
democratica. Alcuni noti esponenti lasciano la corrente per protesta contro
un ordine del giorno approvato a larga maggioranza. Quel manifesto censurava
che Tolin, direttore di Potere Operaio, fosse stato incarcerato dalla
Procura di Roma per reati di opinione. Nella sostanza si trattava della
critica di magistrati all’operato di altri magistrati, di quella che da quel
momento si chiamò “interferenza”. E fu l’occasione per distinguere i
magistrati moderati da quelli ritenuti estremisti. Gli anni ’70 sono anche
quelli in cui la magistratura, in particolare i pretori, dimostra di
intendere il principio di uguaglianza in modo diffuso nelle varie
disposizioni normative, interpretate così come si usava dire in termini
“costituzionalmente orientati”. Si avviano indagini per reati che, presenti
nell’ordinamento, non venivano mai applicati, in particolare sul versante
dell’inquinamento, dei reati edilizi, della sicurezza sul lavoro. Nel
contempo emergono fatti di corruzione, con coinvolgimenti autorevoli delle
istituzioni, come nello ‘scandalo dei petroli’, che per ragioni di
connessione fu celebrato principalmente a Torino. Gli anni sono anche
attraversati da episodi tragici di natura istituzionale (si pensi a Sindona
e all’omicidio Ambrosoli) e dal terrorismo. In entrambi i casi si tratta di
vicende che hanno posto in pericolo la stabilità dello Stato, e la
magistratura ha contribuito unitamente ad altre energie a mantenerne la
sussistenza pur un contributo doloroso di sangue. Sono di quegli anni gli
omicidi dei magistrati Occorsio del 1976, Alessandrini del 1979, Galli del
1980. Esemplare, in questo senso, è il processo conclusosi a Torino nel 1978
nei confronti delle “Brigate rosse”. In coincidenza temporale con il
sequestro e l’omicidio Moro, il suo svolgimento fu segnato dal rispetto
delle regole processuali, dopo l’uccisione del presidente del consiglio
dell’ordine torinese e durante continue azioni sanguinarie rivendicate in
aula dagli imputati (una tra tutte l’omicidio del magistrato Coco a Genova
nel 1976).

 

Negli anni ‘80 inizia e si consolida una nuova fase: ha luogo la
legittimazione esterna della magistratura attraverso processi di vasta eco
sociale. Essa diviene un attore presente tra il pubblico e nel pubblico,
anche attraverso la tv con spettacoli che la esaltano (Processo in pretura,
Telefono giallo). Nel contempo il sistema politico si ritrae
progressivamente. L’esordio nel 1981 è clamoroso: giudici istruttori di
Milano sequestrano nella villa di Lucio Gelli le liste degli aderenti alla
P2 con risultati imbarazzanti tra politici, giornalisti e anche magistrati.
Esemplare è il caso di Ugo Zilletti, vicepresidente del Consiglio superiore
della magistratura, presente in quella lista e dimessosi con il subentro di
Giovanni Conso. Nel libro viene ricostruito questo momento particolare,
individuando le coordinate in cui si muovevano questi contropoteri che
avevano coinvolto anche larga parte delle istituzioni e dei partiti.
L’Autore sottolinea come le iniziative di legalità del Consiglio superiore
della magistratura abbiano trovato un forte appoggio nel presidente Pertini,
a differenza di quanto avvenne con il successore Cossiga, ben disposto
nell’acuire ragioni di contrasto con i magistrati e mal posizionato in
vicende clamorose come quella di Gladio. In questo periodo vengono
affrontati anche temi spinosi come la candidatura di Falcone a capo
dell’Ufficio Istruzione palermitano, risultata soccombente per l’adozione di
un criterio non strettamente meritocratico, come le valutazioni di
professionalità, come il trasferimento d’ufficio e la responsabilità civile
dei magistrati che dà luogo, sulla scia del “caso Tortora”, a un referendum
e a successive modifiche legislative. Nel 1989 entra in vigore il lungamente
sospirato, dopo un’incubazione di molti decenni, nuovo codice di procedura
penale. 

 

In questo decennio si manifestano fatti corruttivi che anticipano nei temi e
nella presenza della magistratura la stagione di Mani pulite. In particolare
queste vicende si erano verificate, a Torino, Savona, Firenze, Catania.
Analoga attenzione viene rivolta alle vicende di mafia verificatesi in
Sicilia con una strage di uomini delle istituzioni, ma anche una
consapevolezza della gravità del problema e della necessità di affrontarlo
con mezzi e uomini diversi. Recidendo i rapporti che avevano impedito un
efficace contrasto del fenomeno mafioso verranno studiate strategie che, con
molta difficoltà, porteranno alla costituzione della Direzione nazionale
antimafia. 

Nel decennio degli anni 90 la legittimazione della magistratura è compiuta.
Essa diviene protagonista anche per il proseguire di scie di sangue come
quelle di Falcone e Borsellino, nella sostanza assume la corposità di un
altro potere. I due sistemi, quello giudiziario e quello politico, sono ad
un punto di arrivo. È la resa dei conti e si apre lo scontro finale. È il
momento della supplenza dei giudici. La vicenda di Mani pulite in questo
senso è epocale e Bruti Liberati ne ricostruisce gli snodi, senza imbarazzo
nell’esporre sintonie o dissonanze con l’agire dei protagonisti, suoi
colleghi milanesi, durante quegli anni. Qualche parola viene dedicata a un
episodio simbolico dell’esistenza del nuovo potere, quando il “pool”
milanese guidato dal procuratore capo lesse alla televisione ‘a reti
unificate’, come fosse un messaggio presidenziale, un appello al potere
politico di non approvare il condono, pena l’uscita dei suoi componenti
dalla magistratura (p. 249, 256). Sulle finalità delle indagini Bruti
Liberati non muove appunti, anche se meriterebbero un libro apposito sulla
direzione impressa e sulle conseguenze raggiunte. Qualche cenno critico,
meritevole anche se non diffuso, viene invece dedicato al tifo da stadio dei
cittadini plaudenti, all’uso abusato della carcerazione preventiva, alla
lesione della dignità dell’arrestato, in quell’occasione Enzo Carra, esposto
in manette alle telecamere, alla gogna mediatica incontrollata e anzi
incrementata.

 

E quel decennio assiste alla discesa in campo di Berlusconi con approcci e
impostazioni rispetto alla giustizia del tutto differenti dal passato.
Inizialmente, osserva l’autore, il programma del primo suo governo (che
all’inizio cercò di coinvolgere i magistrati del pool Di Pietro e Davigo)
fosse moderato e di apertura verso l’Anm. Ma il periodo dura poco per
l’estendersi delle indagini a personaggi importanti del gruppo (Paolo
Berlusconi e Marcello Dell’Utri) e poi allo stesso Berlusconi. Che nasca e
cresca la tensione, accesa e incandescente tra i due poli è storia nota.
Purtuttavia merita ricordare alcune grossolane e indifendibili cadute di
stile della magistratura, come la consegna dell’avviso di garanzia durante
un incontro internazionale a Napoli. È stata un’ulteriore conferma che la
resa dei conti era in atto.

Si succedono altri governi, il secondo Berlusconi, quello Dini e poi Prodi,
D’Alema, Amato con la componente progressista della magistratura sempre più
impegnata su vari fronti, determinata a esplorare una sorta di via
giudiziaria alla propria affermazione. Di questo periodo, oltre la sfinente
esperienza della Commissione Bicamerale, è l’abolizione della mitica figura
del pretore e la riforma dell’art. 111 della Costituzione per il
contradditorio e il diritto di difesa. Negli anni successivi s’inaspriscono
i contrasti tra la maggioranza governativa e la magistratura, continuano i
processi contro Berlusconi e come risposta vengono approvate norme ad
personam o utili alla persona, come la riforma del falso in bilancio e il
ritocco alla prescrizione. 

 

Ma proprio in questi anni, aggiungiamo, la magistratura associata si
smarrisce, perde identità perché la sua collocazione nel sistema politico è
variata troppo in fretta e la cornice è mutata radicalmente. Da
conservatrice diviene il suo opposto, da muto sostegno del passato assume il
ruolo di attivista sovvertitrice, si propone come controllo e contrappeso
del sistema politico, assume nel finale la veste di altro potere. Il tutto
con conseguenze positive sulla legalità ma negative sull’agire dei
protagonisti, politici ed amministratori, frenati, spaventati, intimiditi,
disamorati. 

Non solo: il saggio di Bruti Liberati, minuzioso e coraggioso, cronachistico
e storico, interno agli eventi ma non intossicato, legittima alcune
riflessioni, tra le molte, sull’argomento.

La prima riguarda il rapporto tra collocazione strutturale della
magistratura e sua efficienza. Deve essere combattuto ogni cedimento
sull’indipendenza, intesa come autogoverno, come chiusura alla
politicizzazione proveniente dall’esterno dell’istituzione. Questo obiettivo
fondamentale è stato però pagato con la politicizzazione dall’interno, che
inevitabilmente sconfina nel mondo socio-politico. E nascono interferenze,
tensioni, alleanze, che si evidenziano negli incarichi laterali all’attività
giudiziaria tipica, e soprattutto in quelli una volta abbandonata la
carriera da parte dei magistrati. Nella sostanza ci si deve chiedere perché
quest’ordine dello Stato, che ha conquistato l’indipendenza divenendo
acefalo, perché non è riuscito a misurare la produttività della sua
attività? Perché non ha saputo usare l’indipendenza per realizzare il suo
fine ultimo, cioè realizzare una giustizia tempestiva? La sfida
dell’efficienza è stata persa, commenta amaro Bruti Liberati (p. 117),
osservando quanto hanno davanti agli occhi tutti i cittadini. Si affacciano
alcune domande: non ci si è attrezzati per far fronte a una domanda di
giustizia per scoraggiare la stessa domanda, dominata da eccessi di
litigiosità? Oppure è diffusa una scarsa cultura organizzativa, effetto
negativo dell’indipendenza interna che indebolisce i legami? Oppure è giunto
il momento di riflettere senza stereotipi o frasi preconfezionate su come
funziona l’azione penale, teoricamente obbligatoria ma sostanzialmente
facoltativa o peggio casuale?

La seconda riflessione non riguarda direttamente l’istituzione, ma le
pulsioni della collettività. Radicata è la sensazione è che nulla cambi
nelle viscere del popolo, che esista un filo rosso di continuità alimentata
da quella emotività eccitabile di cui parla Turcke (La società eccitata,
Bollati Boringhieri, Torino, 2012). Una conferma di quella sensazione viene
dall’opinione pubblica. Dopo una fase politicamente impegnata in cui era
descritta come osservatore-controllore delle istituzioni, ora essa ha
assunto un ruolo determinante. Esprime sollecitazioni, aspettative,
condizionamenti, da vita alla “prova sociale”.

 

Dopo un ventennio sospeso tra diverse tonalità, oggi incarna il “populismo
penale” (Anastasia, Anselmi, Falcinelli, Populismo penale: una prospettiva
italiana, Cedam, 2015). Da quello televisivo anni novanta all’attuale
digital, il permanere del giustizialismo coniuga pulsioni radicate che
ondeggiano dalla richiesta di vendetta all’entusiasmo verso inchieste
moraleggianti, dalla critica a decisioni giudiziarie assolutorie o anche
solo troppo tenere ad amnesie corali sui principi della Costituzione
relativi alla presunzione di non colpevolezza o alla funzione della pena. E
questo sull’onda di conoscenze assolute, certe, preventive, sorrette da
competenze che toccano ogni settore dello scibile scientifico. Con il senno
del giorno dopo, ogni sventura ha sempre un colpevole. 

E le critiche al protagonismo, all’uso della carcerazione preventiva e alla
necessità di salvaguardare sempre e comunque la dignità degli arrestati si
ripetono con stanchezza e rassegnazione crescente. Bruti Liberati censurava
la pubblicità data agli arresti durante le vicende di Mani Pulite negli anni
90. Notazione sacrosanta se non fosse che in questi giorni si è assistito ad
una riedizione di quella sceneggiatura, i cui attori sono stati il nostro
governo ed un latitante arrestato. Il tutto nonostante un nutrito corredo di
norme, vigenti ma disapplicate (art. 114, 6 bis codice procedura penale,
art. 42 bis ordinamento penitenziario, art 32 European Prison Rules Councile
Europe del 2006, art. 73 Nelson Mandela Rules del 1957). Del resto il
cittadino, non solo italiano ma soprattutto italiano, ha un’amara e curiosa
caratteristica: indossa una veste garantista quando è coinvolto nella
giustizia e deve difendere i suoi diritti, un’altra giustizialista quando ne
è estraneo e vuole difendersi dagli inquisiti. Il timore è che le conquiste
di ieri si siano trasformate nelle sconfitte di oggi. Si pensa
all’obbligatorietà dell’azione penale, sancita per fronteggiare le
incursioni dell’esecutivo e divenuta ora impaccio e velo ipocrita sulle
scelte non controllate degli accusatori. Si pensa alla carriera giudiziaria,
auspicata e voluta senza gerarchie per evitare compressioni e rivelatasi ora
sostanzialmente anarchica. Si pensa alla dirigenza degli uffici giudiziari,
criticata come occhiuto controllo e ora auspicata come mezzo per
disciplinare il coordinamento e l’individuazione dei meriti.

La maturità degli anni, come osservava Pessoa, è la madre del disincanto.

 

Edmondo Bruti Liberati,
<https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=schedali
bro&isbn=9788858133231> Magistratura e società nell’Italia repubblicana
(Laterza, 2018).

 

 

 


 
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