[Area] I: W.Zagrebelsky su fine vita

Mario Ardigo' mario.ardigo a giustizia.it
Dom 22 Set 2019 19:04:42 CEST


​Rispettare la vita altrui è un dovere di ogni persona e delle istituzioni. Questa è la legge e legge fondamentale della Repubblica, dell'Unione Europea, delle Nazioni Unite, è diritto delle genti. Ma, per la persona, è un dovere vivere?  Non c'è legge che l'imponga in Italia, nell'Unione Europea, nelle norme prodotte dalle Nazioni Unite. Storicamente in alcuni sistemi giuridici chi tentava il suicidio veniva punito: il sopravvissuto veniva processato. Ma chi si abbandonava alla morte, arrendendosi ad un morbo letale? Ai tempi nostri la scienza ha la capacità di tenere una persona sospesa tra la vita e la morte, impedendo un decorso clinico che altrimenti sarebbe fatale. Questo può prolungare molto le agonie. Ma sono vere agonie? Non si può neanche dire. E' vita, sicuramente è vita, che può durare anche molto a lungo,  a volte in condizioni di incoscienza, vita sì, ma, in un certo senso, vita sospesa.

 La questione coinvolge da vicino la persona malata grave e chi ne ha cura. Nella mia esperienza, raramente il malato grave accetta l'idea di rinunciare a terapie che lo mantengono in una condizione di sospensione della china fatale. Però c'è anche chi invoca la fine e una fine non dolorosa. Perché la fine può essere molto dolorosa, ho assistito ad agonie atroci, non contenibili con la chimica disponibile. In quelle condizioni il malato è lucido, se decide possiamo dirlo libero nello scegliere? Ha pesanti condizionamenti, certo. Innanzi tutto talvolta per una condizione di vita dolorosa oltre ogni immaginazione. E intorno ha i familiari sfiniti. Perché assistere un malato in quelle condizioni è estremamente faticoso e, soprattutto, cambia completamente l'esistenza di chi vi è coinvolto. Si è sconvolti dal non riuscire ad alleviare in alcun modo la sofferenza di una persona cara. Ho vissuto tutto questo prima da malato e poi da familiare di una malata, mia madre, morta nell'aprile scorso. Era una persona molto religiosa. Finché ha potuto farsi capire non ha mai invocato la morte. Finché ha potuto ha cercato di riempire la propria vita di preghiera. Non perché una persona cristiana, quale lei era, abbia il dovere  di vivere, ma perché in quella fede si confida nel Cielo.

 Dovere di vivere ​è un'espressione che  suona male, crudele, come se la persona sopraffatta da un dolore insopportabile che si abbandoni alla morte, avesse qualche cosa da farsi perdonare, durante e  dopo quell'inferno in vita, se invoca la morte, la fine di una sofferenza che non può finire altrimenti. A volte le parole della teologia sono effettivamente crudeli e come tali sostanzialmente  incompatibili con una fede come quella cristiana, basata sull'idea di consolazione e liberazione dei sofferenti, dunque sono cattiva teologia. Nella pratica è poi molto diverso. Non si ragiona in quei termini, ma secondo misericordia. C'è però una certa ipocrisia in questa discrasia tra teoria e pratica. Ma, in definitiva, non dovrebbe prevalere la misericordia in una fede che crede nella misericordia come supremo principio ideale?

  E' vero: intorno al malato grave si viene a creare talvolta, anche senza chiara consapevolezza,  un clima eutanasico: l'ho sperimentato quando  anni fa uno, fuori dalla mia stanza di degenza, dopo aver dato un'occhiata di sfuggita a me e a un compagno di sofferenza che aveva vicino, ha sussurrò a chi lo accompagnava, ma io lo sentii, "Poveretti, perché il Signore non se li prende". E io lo avrei sbranato, se avessi avuto la forza di alzarmi, perché volevo vivere. Non era quella la misericordia che anelavo.  Così, finora, sono stato rassicurato da chi, curandomi, non si dava per vinto e da una legge che gli vietava certe cose. Ma può  venire poi un momento in cui anche da malato grave che vuole vivere si comincia a ragionare diversamente, finché di un ragionamento si è capaci, finché c'è una mente a sostenerlo.  Lo so. Ne sono certo. E allora che direi a chi mi rimproverasse e mi ricordasse il mio dovere di vivere?

  Una soluzione ragionevole  è possibile e non deve essere condizionata da alcuna teologia. La nostra Repubblica è infatti laica. Questo significa che su tutto si può ragionare, senza che il discorso possa essere bloccato sostenendo che certe cose sono sottratte in linea di principio alla negoziazione democratica. E, ragionando, ci si può convincere che non c'è base razionale sufficiente per imporre al sofferente il dovere di di vivere in certe condizioni, di modo che egli sia come espropriato del proprio corpo e della propria vita, e la sua vita non sia più sua ma, in definitiva, di chi gli impone quel dovere negandogli assistenza. Da un punto di vista religioso questa assistenza può essere un grave problema per chi è chiamato a fornirla. Ma questo è un altro discorso, e però bisogna prenderne atto. C'è una questione religiosa del rispetto della vita altrui che non combacia con il quella puramente razionale. Le Chiese cristiane, ad esempio, hanno fissato dei limiti, e la predicazione e il magistero rientra nei loro compiti. Ci si troverà di fronte, credo, a un problema di obiezione di coscienza. Ma anche a questo si può dare una regolazione razionale. Quello che non è accettabile è non normare dove si deve, ad esempio, nel caso in questione, non normare, l'astensione, è incostituzionale.

Mario Ardigò







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Da: Area <area-bounces a areaperta.it> per conto di Edmondo <ed.brutiliberati a gmail.com>
Inviato: domenica 22 settembre 2019 09:30
A: area a areaperta.it
Oggetto: [Area] I: W.Zagrebelsky su fine vita


Allego un importante articolo di Wladimiro Zagrebelsky “la Corte costituzionale affronta il nodo della legge sul fine vita” pubblicato su La Stampa di oggi 22 settembre 2019
Edmondo Bruti Liberati

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