[Area] Intervento di Mariarosaria Guglielmi (Il Foglio, 12 maggio 2020)

Francesco Maisto francescomaisto2 a gmail.com
Mer 13 Maggio 2020 19:22:17 CEST


MD dovrebbe riflettere senza lasciarsi influenzare dalla maggiore o minore
affinità ideoloigica. la magistratura di sorveglianza nacque nel clima
culturale dei cattolici di sinistra, di cui era figura carismatica a
Firenze padre Ernesto Balducci, seguito e ammirato da molti magistrati tra
cui spiccava per doti umane Sandro ;argara, e sul piano politico il
deputato Mario Gozzini. si pensò quindi di istituire una categoria di
magistrati che avesse come compito essenziale e assorbente la
"rieducazione" del condannato; considerata come unico fondamento morale e
legale della detenzione. Poichè peraltro nessun giudice possiede un
termometro per misurare il rivello di rieducazione raggiunto, si ritenne -
attraverso una serie di leggi sempre più permissive - che l'unico sistema
fosse quello di consentire al detenuto di uscire dal carcere per verificare
il suo comportamento e valutare se la detenzione sofferta avesse funzionato
così da riammetterlo alla vita civile. di qui gli istituti dei permessi
premio, detenzione domiciliare, affidamento in prova semilibertà ecc.
in caso di nuovo crimine, si riapriva il carcere.  molti furono i casi -
anche se non è facile rintracciarli - di crimini commessi durante i
permessi, deo qiuali non mi risultano statistiche.
di fatto: la magistratura di sorveglianza, malgrado l'alta ispirazine
morale che la caratterizza, costituisce una anomali rispetto alla funzione
istituzionale della magistratura, introdotta per finalità etico/morali a
sfondo religioso, che non competono al giurista e introduce un vulnus nel
principio della paari soggezione di cittadini alla legge in relazione al
potere concesso di attenuare il sistema sanzionatorio in relazione
all'apprezzamento discrezionale da parte di soggetti che pur essendo
magistrati, non esercitano funzioni giurisdizionali.
ubaldo nannucci

----Messaggio originale----
Da: md a magistraturademocratica.it
Data: 12-mag-2020 19.49
A: <europa a magistraturademocratica.it>, <area a areaperta.it>
Ogg: [Area] Intervento di Mariarosaria Guglielmi (Il Foglio, 12 maggio 2020)



Non bastava lo sconcerto prodotto nell’opinione pubblica dalle
dichiarazioni del dottor Di Matteo. Un magistrato, noto per il suo impegno
nella lotta alla criminalità organizzata, ora con un ruolo istituzionale
quale componente del Csm, sceglie una platea televisiva – e l’inevitabile
massimo clamore mediatico – per esternazioni che chiamano in causa
l’attuale ministro della Giustizia (e il contenuto di un colloquio
riservato), che di fatto chiedono conto delle ragioni della sua scelta per
i vertici del Dap e che inevitabilmente mettono in relazione un
“ripensamento” del ministro con la notizia della contrarietà dei vertici
della criminalità organizzata alla designazione del dottor Di Matteo. Con
le domande, fatte proprie e divulgate dal direttore di una importante
testata giornalistica, che l’altro giorno si interrogava su possibili
“trattative” intercorse fra lo stato e i detenuti dopo le rivolte di marzo
nelle carceri e sulla relazione con le scarcerazioni disposte in questi
giorni dai magistrati di sorveglianza, si completa il corto circuito
innescato dalle esternazioni del dottor Di Matteo.

Per le suggestioni non esistono smentite. Le smentite vanno bene per i
fatti. E non esistono argomenti per dare convincenti risposte alle domande
e ai dubbi che, come le suggestioni da cui originano, sono destinati a
“rimanere nell’aria”. Quanti cittadini in questi giorni si sono chiesti se
il nostro è uno stato di diritto solido, in grado di tutelare la sua
collettività, o se invece quelle organizzazioni criminali, che hanno
duramente colpito le istituzioni della Repubblica e scritto pagine tragiche
della storia del nostro paese, ancora oggi riescono ad avere la forza di
“ricattarci” e di condizionare in qualche modo anche le decisioni prese ai
più alti vertici dello stato? Come non porsi queste domande di fronte al
dubbio che inevitabilmente sorge quando un magistrato mette in relazione
proprio alla sua cifra professionale il fatto di essere rimasto escluso da
un incarico istituzionale di particolare rilevanza? Qual è l’effetto a
lungo andare di queste domande, destinate a rimanere senza credibili e
convincenti risposte, perché ciò che le origina non sono i fatti (di cui si
può affermare e dimostrare la verità o la falsità) ma il loro contenuto
evocativo e tutto ciò che suggerisce il loro accostamento?

È stato già ricordato in questi giorni, anche dall’Anm, che dovere dei
magistrati è esprimersi con equilibrio e misura, tenendo conto delle
ricadute che hanno le nostre dichiarazioni sia nel dibattito pubblico che
nei rapporti tra le Istituzioni. Basta essere convinti delle “proprie buone
ragioni”, sia rispetto alla “verità” di ciò che si dice sia rispetto alla
necessità di doverla rendere nota, per saltare a piè pari tutte le cautele
che il nostro ruolo ci impone? Non dobbiamo forse chiederci, quando
scegliamo la platea mediatica e il libero dibattito sulla stampa, cosa
resta delle nostre affermazioni – una volta spenti i riflettori e cessato
il clamore – all’opinione pubblica, a quella generalità indeterminata di
persone che abbiamo scelto come nostri interlocutori ideali? Non fa parte
della nostra responsabilità rispetto alle funzioni che esercitiamo, e ai
nostri doveri verso la collettività, chiederci quando prendiamo la parola
quale traccia vogliamo lasciare nel dibattito pubblico e in che modo, come
magistrati partecipi di questo dibatto, vogliamo contribuire a quella
“consapevolezza comune” che ci rende comunità? L’esigenza di dire la
propria “verità” e di rimettere le “cose al giusto posto” ci libera da ogni
dovere di farci carico del significato che nel circuito pubblico le nostre
affermazioni sono destinate ad assumere? E, prima ancora, non è la nostra
stessa funzione a richiedere che, dentro e fuori dalle aule di tribunale,
il magistrato appaia sempre capace di dubitare, di rimettersi in
discussione, più che portatore di verità assolute? I grandi stati d’animo
collettivi, ha scritto Marc Bloch, hanno il potere di trasformare in
leggenda una percezione alterata. Un rischio destinato ad aggravarsi in
tempo di “guerra”. Per Bloch era il primo conflitto mondiale. Per noi è
oggi la lotta contro un nemico invisibile, che non minaccia solo le nostre
esistenze. È la paura che inocula in ciascuno di noi e nella comunità,
rimettendo in discussione tutti i valori della convivenza civile. In questo
stato d’animo collettivo, ancor più che nel recente passato, è difficile
far comprendere ciò che alla magistratura è richiesto dal ruolo
costituzionale di garanzia della giurisdizione, e quanto siano complesse le
scelte che deve compiere. Alla magistratura di sorveglianza oggi spettano
decisioni particolarmente difficili, che devono garantire un’esecuzione
della pena conforme al rispetto dei principi costituzionali di tutela della
salute e di umanità del trattamento, e che devono realizzare un attento
bilanciamento tra il diritto del detenuto e l’interesse pubblico alla
sicurezza sociale. Come magistrati siamo consapevoli della necessità di
dover rendere conto dei provvedimenti che adottiamo e dell’importanza di
essere chiamati a rispondere, di fronte all’opinione pubblica, del nostro
operato. La voce della libera stampa è fondamentale perché questo “circuito
di responsabilità”, per la magistratura come per ogni altro potere dello
stato e ogni organismo pubblico, sia sempre vigile ed effettivo. La libertà
di informazione è un bene prezioso di ogni democrazia: è ciò che, nel
confronto fra il pluralismo delle idee, forma la sua coscienza critica e
costruisce la coesione della sua collettività intorno ai valori condivisi.
Ed è per questo fondamentale che il dibattito pubblico in corso riceva oggi
dalla libera stampa quell’apporto di consapevolezza critica necessario per
affrontare tutte le sfide che l’emergenza sanitaria pone alla democrazia.

Se i magistrati di sorveglianza diventano gli “scarceratori”, della
complessità del loro lavoro e delle loro decisioni, che si devono
confrontare con la storia di ciascuna persona che è dietro a un
provvedimento e con i parametri di giudizio che impongono la ricerca del
difficile punto di equilibrio fra tutela della salute e ragioni di
sicurezza, non resta nulla. Resta la suggestione di decisioni immotivate,
qualificate solo dal risultato che producono: aprire le porte del carcere,
senza attenzione alle esigenze di tutela della collettività. Se si ventila
l’idea di stato che tratta con la criminalità organizzata, e dei suoi
giudici esecutori – imbelli o consapevoli – di un patto inconfessabile che
ha barattato la necessità di riportare l’*ordre dans la rue *con
l’alleggerimento del regime detentivo e la scarcerazione di pericolosi
capimafia, di quel diritto/dovere di fare domande e di chiedere conto delle
decisioni prese in nome dell’opinione pubblica non resta nulla. Resta una
suggestione, che incrocia lo stato d’animo collettivo. E che può diventare,
per citare sempre Bloch, la falsa notizia, specchio in cui la coscienza
collettiva contempla i propri lineamenti. Non sono le domande senza
risposta ma le ineffabili suggestioni che una democrazia, specie quando
duramente provata dagli eventi, non può permettersi.



*articolo di Mariarosaria Guglielmi*

*Segretaria generale di Magistratura democratica*

*pubblicato il 12 maggio 2020, su Il Foglio*





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<http://mail.areaperta.it/mailman/listinfo/area_areaperta.it>
Ho letto e riletto con attenzione l'intervento di Maria Rosaria Guglielmi
che, come sempre, esprime una linea chiara e ben motivata sul valore della
Giuridizione e sulla deontologia del Magistrato. Francamente ho dovuto
rileggere l'intervento di Nannucci per concludere che nessun argomento del
suo scritto  ha fondamento storico e normativo.
Condivido gli argomenti di Edmondo.
Quando si dovrebbe scrivere un libro e invece si dispone di questo mezzo è
bene andar per punti.
1 la magistratura di sorveglianza, in luogo del giudice di sorveglianza del
codice del"30, fu istituita con la legge n.354 del lontano 1975. Si
dimenticano i nomi delle riforme democratiche di quegli anni?
2 la legge che prese il nome dell'amico Mario Gozzini è del 1986 ed alla
preparazione dell'articolato partecipammo alcuni tra noi più giovani con la
guida dell'amico e maestro Sandro Margara. Fu un percorso lungo e difficile
anche in Commissione Giustizia con il sostegno di senatori laici come
Raimodo Ricci e Giuliano Vassalli.
3 alla legge del 1975 lavorò a lungo il laico Peppino Di Gennaro che guarda
caso ebbe la prima reggenza della procura antimafia
4 magistrati di sorveglianza di spicco sono stati colleghi laici come Bruno
Siclari ( primo procuratore nazionale antimafia, autore del manuale sulle
misure di sicurezza), Mario Canea( partigiano, non cattolico, autore del
primo manuale penitenziario) ed il mio Maestro eretico napoletano Igino
Cappelli, prematuramente scomparso, autore de " Gli avanzi della Giustizia".
5 Quei magistrati di sorveglianza sono stati tanti Giudici veri che in 5
furono sottoposti alla disciplinare, poi assolti, perché scrissero nei loro
provvedimenti nel 1977 " letto e disapplicato il Regolamento". Oggi si
direbbe interpretazione orientata costituzionalmente e convenzionalmente.
Tra questi c'era Accattatis che certamente bigotto cattolico non era.
6 nel corso degli anni non ci sono state leggi permissive di penitenziario,
ma solo leggi restrittive, tranne la Simeone, Saraceni, Fassone, poi in più
parti dichiarate incostituzionali
7 nello squallido dibattito di questi giorni nessuno dice che il 41 bis fu
previsto dalla legge Gozzini
8 le statistiche sulle misure alternative, sulle violazioni e sui reati
commessi nel corso delle misure sono disponibili e confermano la bontà di
un impianto che se perfezionato, sarebbe un'ottima strategia di lotta alla
criminalità
9 il principio di costituzionalizzazione della flessibilità della pena è e
deve rimanere in quanto conforme alla nostra Costituzione.
Scusate la lunghezza, ma lo devo alla memoria di Igino e di Sandro.
Buona salute
Francesco Maisto
Mostra testo citato


Il Mer 13 Mag 2020, 11:06 Matteo Centini <matteo.centini a giustizia.it> ha
scritto:

> È vero è proprio Di Matteo il nostro problema ha ragione la collega
> Guglielmi. È colpa sua se la gente non si fida più di noi.
>
>
> Inviato da iPhone
>
> Il giorno 12 mag 2020, alle ore 20:36, Magistratura democratica <
> md a magistraturademocratica.it> ha scritto:
>
> *<image003.jpg>*
>
>
>
> Non bastava lo sconcerto prodotto nell’opinione pubblica dalle
> dichiarazioni del dottor Di Matteo. Un magistrato, noto per il suo impegno
> nella lotta alla criminalità organizzata, ora con un ruolo istituzionale
> quale componente del Csm, sceglie una platea televisiva – e l’inevitabile
> massimo clamore mediatico – per esternazioni che chiamano in causa
> l’attuale ministro della Giustizia (e il contenuto di un colloquio
> riservato), che di fatto chiedono conto delle ragioni della sua scelta per
> i vertici del Dap e che inevitabilmente mettono in relazione un
> “ripensamento” del ministro con la notizia della contrarietà dei vertici
> della criminalità organizzata alla designazione del dottor Di Matteo. Con
> le domande, fatte proprie e divulgate dal direttore di una importante
> testata giornalistica, che l’altro giorno si interrogava su possibili
> “trattative” intercorse fra lo stato e i detenuti dopo le rivolte di marzo
> nelle carceri e sulla relazione con le scarcerazioni disposte in questi
> giorni dai magistrati di sorveglianza, si completa il corto circuito
> innescato dalle esternazioni del dottor Di Matteo.
>
> Per le suggestioni non esistono smentite. Le smentite vanno bene per i
> fatti. E non esistono argomenti per dare convincenti risposte alle domande
> e ai dubbi che, come le suggestioni da cui originano, sono destinati a
> “rimanere nell’aria”. Quanti cittadini in questi giorni si sono chiesti se
> il nostro è uno stato di diritto solido, in grado di tutelare la sua
> collettività, o se invece quelle organizzazioni criminali, che hanno
> duramente colpito le istituzioni della Repubblica e scritto pagine tragiche
> della storia del nostro paese, ancora oggi riescono ad avere la forza di
> “ricattarci” e di condizionare in qualche modo anche le decisioni prese ai
> più alti vertici dello stato? Come non porsi queste domande di fronte al
> dubbio che inevitabilmente sorge quando un magistrato mette in relazione
> proprio alla sua cifra professionale il fatto di essere rimasto escluso da
> un incarico istituzionale di particolare rilevanza? Qual è l’effetto a
> lungo andare di queste domande, destinate a rimanere senza credibili e
> convincenti risposte, perché ciò che le origina non sono i fatti (di cui si
> può affermare e dimostrare la verità o la falsità) ma il loro contenuto
> evocativo e tutto ciò che suggerisce il loro accostamento?
>
> È stato già ricordato in questi giorni, anche dall’Anm, che dovere dei
> magistrati è esprimersi con equilibrio e misura, tenendo conto delle
> ricadute che hanno le nostre dichiarazioni sia nel dibattito pubblico che
> nei rapporti tra le Istituzioni. Basta essere convinti delle “proprie buone
> ragioni”, sia rispetto alla “verità” di ciò che si dice sia rispetto alla
> necessità di doverla rendere nota, per saltare a piè pari tutte le cautele
> che il nostro ruolo ci impone? Non dobbiamo forse chiederci, quando
> scegliamo la platea mediatica e il libero dibattito sulla stampa, cosa
> resta delle nostre affermazioni – una volta spenti i riflettori e cessato
> il clamore – all’opinione pubblica, a quella generalità indeterminata di
> persone che abbiamo scelto come nostri interlocutori ideali? Non fa parte
> della nostra responsabilità rispetto alle funzioni che esercitiamo, e ai
> nostri doveri verso la collettività, chiederci quando prendiamo la parola
> quale traccia vogliamo lasciare nel dibattito pubblico e in che modo, come
> magistrati partecipi di questo dibatto, vogliamo contribuire a quella
> “consapevolezza comune” che ci rende comunità? L’esigenza di dire la
> propria “verità” e di rimettere le “cose al giusto posto” ci libera da ogni
> dovere di farci carico del significato che nel circuito pubblico le nostre
> affermazioni sono destinate ad assumere? E, prima ancora, non è la nostra
> stessa funzione a richiedere che, dentro e fuori dalle aule di tribunale,
> il magistrato appaia sempre capace di dubitare, di rimettersi in
> discussione, più che portatore di verità assolute? I grandi stati d’animo
> collettivi, ha scritto Marc Bloch, hanno il potere di trasformare in
> leggenda una percezione alterata. Un rischio destinato ad aggravarsi in
> tempo di “guerra”. Per Bloch era il primo conflitto mondiale. Per noi è
> oggi la lotta contro un nemico invisibile, che non minaccia solo le nostre
> esistenze. È la paura che inocula in ciascuno di noi e nella comunità,
> rimettendo in discussione tutti i valori della convivenza civile. In questo
> stato d’animo collettivo, ancor più che nel recente passato, è difficile
> far comprendere ciò che alla magistratura è richiesto dal ruolo
> costituzionale di garanzia della giurisdizione, e quanto siano complesse le
> scelte che deve compiere. Alla magistratura di sorveglianza oggi spettano
> decisioni particolarmente difficili, che devono garantire un’esecuzione
> della pena conforme al rispetto dei principi costituzionali di tutela della
> salute e di umanità del trattamento, e che devono realizzare un attento
> bilanciamento tra il diritto del detenuto e l’interesse pubblico alla
> sicurezza sociale. Come magistrati siamo consapevoli della necessità di
> dover rendere conto dei provvedimenti che adottiamo e dell’importanza di
> essere chiamati a rispondere, di fronte all’opinione pubblica, del nostro
> operato. La voce della libera stampa è fondamentale perché questo “circuito
> di responsabilità”, per la magistratura come per ogni altro potere dello
> stato e ogni organismo pubblico, sia sempre vigile ed effettivo. La libertà
> di informazione è un bene prezioso di ogni democrazia: è ciò che, nel
> confronto fra il pluralismo delle idee, forma la sua coscienza critica e
> costruisce la coesione della sua collettività intorno ai valori condivisi.
> Ed è per questo fondamentale che il dibattito pubblico in corso riceva oggi
> dalla libera stampa quell’apporto di consapevolezza critica necessario per
> affrontare tutte le sfide che l’emergenza sanitaria pone alla democrazia.
>
> Se i magistrati di sorveglianza diventano gli “scarceratori”, della
> complessità del loro lavoro e delle loro decisioni, che si devono
> confrontare con la storia di ciascuna persona che è dietro a un
> provvedimento e con i parametri di giudizio che impongono la ricerca del
> difficile punto di equilibrio fra tutela della salute e ragioni di
> sicurezza, non resta nulla. Resta la suggestione di decisioni immotivate,
> qualificate solo dal risultato che producono: aprire le porte del carcere,
> senza attenzione alle esigenze di tutela della collettività. Se si ventila
> l’idea di stato che tratta con la criminalità organizzata, e dei suoi
> giudici esecutori – imbelli o consapevoli – di un patto inconfessabile che
> ha barattato la necessità di riportare l’*ordre dans la rue *con
> l’alleggerimento del regime detentivo e la scarcerazione di pericolosi
> capimafia, di quel diritto/dovere di fare domande e di chiedere conto delle
> decisioni prese in nome dell’opinione pubblica non resta nulla. Resta una
> suggestione, che incrocia lo stato d’animo collettivo. E che può diventare,
> per citare sempre Bloch, la falsa notizia, specchio in cui la coscienza
> collettiva contempla i propri lineamenti. Non sono le domande senza
> risposta ma le ineffabili suggestioni che una democrazia, specie quando
> duramente provata dagli eventi, non può permettersi.
>
>
>
> *articolo di Mariarosaria Guglielmi*
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