[Area] Magistratura democratica Newsletter 11

Simone Spina simone.spina01 a giustizia.it
Mer 28 Lug 2021 18:57:00 CEST






[Magistratura Democratica]







27 luglio 2021






Cari lettori,

Questa newsletter arriva in un momento cruciale: a ridosso dei venti anni dai fatti di Genova, a un passo dall'approvazione della riforma Cartabia, a tre giorni dall'elezione dei nuovi vertici di Magistratura democratica.

Stefano Musolino è il segretario generale, Cinzia Barillà la presidente. Eletto anche il nuovo esecutivo.

Prima questione sul tappeto, per la nuova dirigenza di Md: le riforme. Se ne è parlato a margine del Consiglio nazionale di sabato scorso. La posizione sulle prospettive del processo penale è stata sintetizzata in un documento, e ulteriormente approfondita dall'intervento di Ottavia Civitelli.

Sui fatti accaduti a Genova nel luglio 2001 vi sono, poi, un altro documento della dirigenza nazionale e il contributo di Andrea Natale, che muove dalla recensione di due libri, entrambi di recente pubblicazione.

Infine l’intervento di Mariarosaria Guglielmi sull’attacco all’indipendenza della magistratura in Polonia.

L'appuntamento con la newsletter Md, salvo eccezioni, è ogni martedì, alle ore 20







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Nuovi vertici di Md
Stefano Musolino è il segretario
Cinzia Barillà è la presidente



Stefano Musolino, sostituto procuratore della Repubblica – Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, è il segretario generale di Magistratura democratica. Cinzia Barillà, giudice di Corte d'Appello di Reggio Calabria, è la presidente: la prima donna nella storia di Md a ricoprire questo ruolo. L'elezione dei nuovi vertici dell'associazione dei magistrati, da parte del Consiglio nazionale, è avvenuta on-line nella mattinata di sabato 24 luglio.

Due magistrati in Calabria, dunque, si collocano ai vertici di Magistratura democratica: una scelta che Stefano Musolino ha definito «Un’investitura della periferia, coraggiosa e carica di significati, per il futuro del gruppo». Segretario e presidente, i più votati al termine del congresso di Firenze nell'elezione per il Consiglio nazionale subentrano, rispettivamente, a Mariarosaria Guglielmi e a Riccardo De Vito.

Definito anche il nuovo esecutivo. La scelta ha ancora una volta rispecchiato le preferenze ottenute al congresso. Questi i nomi: Andrea Natale, giudice del Tribunale di Torino; Silvia Albano, giudice del Tribunale di Roma; Fabrizio Filice giudice del Tribunale di Milano; Simone Spina, giudice del Tribunale di Siena e Simone Silvestri, giudice al Tribunale di Lucca. Tra i più votati c'erano anche Ottavia Civitelli (giudice del Tribunale di Castrovillari) e Anna Mori (consigliere Corte di Appello di Bologna), ma hanno rinunciato a un ruolo nell'esecutivo per impegni lavorativi, pur rimanendo nel Consiglio nazionale.

L'elezione dei nuovi vertici di Magistratura democratica ha coinciso con un dibattito sulla riforma Cartabia. «Possiamo subire la transizione – osserva Stefano Musolino – oppure viverla rilanciando analisi e proposte, con sano realismo ed attenzione alla complessità. Occorre andare oltre la conservazione dell’esistente, evitando di trasmettere la sensazione di una magistratura chiusa in se stessa, senza abbassare l’attenzione verso riforme che rischiano di modificare l'assetto istituzionale, posto a tutela dei valori di libertà ed uguaglianza su cui si fonda la nostra democrazia. Le vicende di Genova e quelle più recenti di Santa Maria Capua Vetere ci insegnano che le conquiste democratiche non sono definite una volta per tutte, ma vanno coltivate e costantemente tutelate».






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«Una scelta di attenzione
alle periferie e alla società»


«La scelta dei vertici di Md – afferma la nuova presidente Cinzia Barillà – registra il segnale emerso dal momento elettorale dell’ultimo congresso, ovvero l’attenzione verso sedi periferiche in grandissima sofferenza di organico e di risorse, nonché verso ruoli di merito assai disagiati.  Al contempo, dimostra l’esigenza che la magistratura torni a vivere come un tema cruciale la decifrazione dei bisogni della società».
L’attivismo di Magistratura democratica in quest’ultimo campo l’ha sempre resa capace di visioni di lungo corso, grazie anche a quello sguardo curioso sui fenomeni, sui luoghi in cui nessuno vuole ficcare il naso, sugli spazi di emarginazione che non interessano alle maggioranze. Il rinnovato segnale di attenzione per la giurisdizione e per i territori impone una mobilitazione generale degli iscritti per il recupero delle sezioni quale centro di ispirazione della linea di azione di Md.







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Riforme /1
Processo penale. Cambiare sì. Ma come?
Su improcedibiltà, criteri di priorità e nuovo volto della pena



Una riforma necessaria, ma verso quale prospettiva? Per un processo dai tempi ragionevoli che coniughi efficienza e complessità, contro le derive economiciste che misurano la giurisdizione in termini di mera produttività numerica, dietro alla quale si possono celare gravi ingiustizie.
Il Parlamento discute in questi giorni il disegno di legge sulla riforma del processo penale [AC-2435] e gli emendamenti ad esso apportati dal Governo.
I dati statistici confermano l’ineludibilità di una riforma. Ne offrono conferma i dati riportati nell’ultima relazione svolta all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021.
Il numero di affari pendenti è – da anni – straordinariamente alto. Il numero di prescrizioni dichiarate dall’autorità giudiziaria procedente, anche: nel 2019, prima della pandemia, il dato nazionale era pari all’8,7%; nelle corti di appello – dato nazionale – le prescrizioni dichiarate risultano pari al 25,8% delle definizioni (e sappiamo che tale dato ha un’incidenza diversamente distribuita sul territorio nazionale). L’udienza preliminare è incapace di esercitare la funzione di “filtro” che le era assegnata nel disegno originario del codice (così la Commissione Lattanzi: «i dati statistici sono impietosi e dimostrano che, nei casi in cui l’udienza preliminare si conclude con un rinvio a giudizio – ossia nel 63% dei casi – essa genera un aumento di durata del processo di primo grado di circa 400 gg. Complessivamente, l’udienza preliminare filtra poco più del 10% delle imputazioni per i processi nei quali è prevista e non incide peraltro in modo significativo sul tasso dei proscioglimenti in dibattimento). La durata media dei procedimenti è preoccupante e – quanto ai giudizi di appello – straordinariamente elevata (durata media al giugno 2019, pre-pandemia: 840 giorni; e sappiamo che la durata media dei procedimenti di appello è diversamente distribuita sul territorio nazionale).
Non solo. La fotografia di un sistema penale inefficiente è restituita anche dai dati relativi alla c.d. popolazione carceraria: al 30 giugno 2021, il numero di detenuti presenti (oltre 53mila) è superiore alla capienza regolamentare (oltre 51mila); dei detenuti presenti, circa il 30% non è irrevocabilmente condannato e, tra essi, il 15% è ancora in attesa di una condanna di primo grado.
Si tratta di dati che dimostrano che l’attuale processo penale non è in grado di assicurare il fine per cui esso esiste e che lo legittima: accertare i fatti e offrire una verità processuale in tempi ragionevoli.
Un simile quadro impone di intervenire. Non solo perché è necessario rispettare il cronoprogramma associato al PNRR; ma perché – prima di esso – lo impongono l’art. 111 Cost. e l’art. 6 della Conv. Edu.
Alcuni interventi sarebbero ineludibili e preziosi per porre mano alle criticità: sarebbe indispensabile un massiccio potenziamento organico: secondo il rapporto CEPEJ 2020, il numero di giudici professionali in rapporto a 100.000 abitanti (11,6) è straordinariamente inferiore alla media registrabile nei Paesi membri del Consiglio d’Europa (21,4). Analogo dato si registra guardando ai pubblici ministeri professionali: il dato italiano, 3,7 PM ogni 100mila abitanti è meno di un terzo del dato medio Paesi membri del CoE: (12,13); altrettanto indispensabile sarebbe una coraggiosa revisione della geografia giudiziaria (ancor più necessaria ove dovesse essere approvata la riforma in discussione); una seria azione di razionalizzazione del catalogo dei reati, la si chiami depenalizzazione di alcuni reati minori o diversa – e più razionale – tipizzazione delle singole fattispecie.
Né si può immaginare di risolvere il drammatico problema di efficienza del processo penale esasperando derive produttivistiche della giurisdizione. Da un lato, alcuni strumenti oggi in agenda (come il rafforzamento dell’Ufficio per il processo), possono realisticamente dare frutto soprattutto in tribunali medio-grandi (mentre in uffici di piccole dimensioni e in drammatiche condizioni di sovraccarico potranno garantire un minor effetto in termini di efficienza). Dall’altro lato, perché non è realisticamente immaginabile un ulteriore aumento della produttività dei magistrati. Il rapporto CEPEJ rivela che oggi i magistrati italiani garantiscono già un livello di produttività molto elevato; esasperare gli aspetti produttivistici rischia di sacrificare sull’altare della velocità, la necessaria ricerca della verità processuale, inducendo anche comportamenti burocratici: secondo la Carta costituzionale e la Convenzione Edu la durata del processo deve essere non necessariamente breve, ma ragionevole, ossia adeguata alla complessità dei casi della vita che vengono sottoposti all’attenzione dei tribunali.

Ma, come detto, i risultati che la giurisdizione offre al Paese sono drammatici e cambiare si deve.
Il testo degli emendamenti governativi formulati in relazione al DDL sulla riforma del processo penale (AC-2435) propone numerose modifiche “di sistema”. Ciascun intervento è suscettibile di rilievi. Tuttavia, la sottolineatura delle varie problematicità non deve far perdere di vista il quadro di insieme, al fine di verificare se si tratti di interventi che rispondono alle esigenze dell’odierno sistema penale.
Nel condividere molti dei rilievi già effettuati nell’equilibrato documento del 19 luglio 2021 dalla Giunta esecutiva centrale dell’ANM (e nel prendere atto del fatto che il Governo ha rinunciato a coltivare alcuni strumenti di deflazione – come la c.d. archiviazione meritata – proposti dalla Commissione Lattanzi o li ha depotenziati), qui si pone l’accento su alcuni aspetti tra i delicati temi che la riforma pone.

L’improcedibilità: un “rimedio rigido”, inadatto a sopperire al blocco dei termini di prescrizione; verso nuove condanne dell’Italia in sede europea per l’incapacità di dare risposte giurisdizionali a gravi fattispecie di reato?
La disciplina dell’improcedibilità dell’azione penale: la previsione che l’azione penale possa estinguersi ove – decorso un termine “rigido” – non vengano emesse le sentenze che definiscono i giudizi di impugnazione è una previsione che: (a) si pone in possibile frizione con il dettato dell’art. 112 Cost. (si dichiara – in un sistema ad azione penale obbligatoria – improcedibile l’azione penale per un reato che non è estinto); (b) si rivela potenzialmente irragionevole, perché “colpisce” con un’unica e rigida sanzione processuale (l’improcedibilità) situazioni molto diverse tra loro, trascurando, per esempio, la diversa gravità dei reati o la diversa complessità degli accertamenti da svolgere; (c) diminuisce anche la qualità delle garanzie delle persone sottoposte a giudizio (posto che le garanzie proprie dell’art. 25, co. 2, Cost. rilevano per la prescrizione come istituto di diritto sostanziale); (d) rischia di sacrificare – non tanto il diritto dell’imputato a veder accertata la propria innocenza (essendo l’improcedibilità comunque rinunciabile) – quanto i diritti delle persone offese (che, secondo il diritto UE, debbono veder assicurato uno spazio di tutela anche in sede penale); (d) soprattutto, è concreto il rischio che il miraggio di poter fruire della causa estintiva dell’azione penale, finisca con l’incentivare la proposizioni di impugnazioni meramente dilatorie (con il risultato di frustrare l’efficacia degli altri meccanismi acceleratori e deflattivi introdotti che sono introdotti da altre disposizioni del disegno di legge di riforma). Meno controindicazioni presentavano le proposte formulate dalla Commissione Lattanzi, che aveva immaginato un sistema imperniato su meccanismi di incentivi e disincentivi rivolti a tutti gli attori processuali, potenzialmente capaci di assicurare un risultato (la durata ragionevole del processo), senza incentivare impugnazioni puramente dilatorie (che – l’esperienza insegna – sono un fenomeno esistente).
Si sostiene che l’introduzione della improcedibilità dell’azione penale per decorso del tempo risponda ad esigenze proprie del diritto sovra-nazionale.
In senso contrario, si deve osservare che tanto il diritto UE, quanto la Conv. Edu non richiedono che un processo finisca entro un certo termine; le norme sovra-nazionali chiedono, al contrario, che un processo finisca utilmente, ossia con un accertamento del fatto. La vicenda Taricco è, al riguardo, emblematica. In aggiunta anche la Corte Edu ha condannato il nostro Paese per l’inadeguatezza della “risposta” del nostro sistema giudiziario in relazione ai trattamenti inumani e degradanti subiti da alcuni consociati per mano di pubblici ufficiali (Corte Edu, caso Cestaro contro Italia); la stessa Corte Edu ha recentemente condannato il nostro Paese, in un caso in cui la vittima non aveva potuto costituirsi parte civile nel procedimento penale, a causa dello spirare del termine della prescrizione del reato maturato nel corso delle indagini preliminari (Corte Edu, caso Petrella contro Italia, in cui la Corte ha condannato il nostro Paese per aver compromesso il diritto della vittima alla ragionevole durata del procedimento e alla garanzia di accesso al giudice, nonché in ordine alla lesione di un rimedio effettivo ex art. 13 Convenzione).
Sempre la Corte EDU nel procedimento DAN c/Moldavia ha imposto un livello di garanzia “rafforzata” per l’imputato assolto in primo grado sulla scorta di una prova dichiarativa svalutata dal giudice di prime cure e diversamente valutata in appello per giungere a ribaltare il verdetto da assolutorio in condanna. Emblematicamente l’applicazione di tale regola ha portato, sul fronte interno, all’introduzione del novellato art. 603.3 bis c.p.p. in caso di appello del P.M. e di onere di rinnovazione delle prove dichiarative per le Corti di appello, salvo che in caso di conferma del giudizio assolutorio. Proprio uno di quei casi che in procedimenti complessi incapperebbe nella mannaia della improcedibilità, essendo assai difficile mantenere la definizione del giudizio di appello con rinnovazione della istruttoria, sia pure delle sole prove dichiarative decisive e già svalutate, entro i termini fissati dalla riforma.

Se oggi Strasburgo ci condanna per la durata irragionevole dei processi, il rischio è che domani ci condanni per non essere stati in grado di concluderli.
I criteri di priorità: un ostico rimedio all’inflazionato abuso della sanzione penale, specchio delle debolezze della politica. Ma non è più semplice e coerente depenalizzare fattispecie che con i criteri di priorità non troveranno sfogo processuale?
Per anni la legislazione penale è stato il rimedio, individuato dalla politica, per anestetizzare le paure sociali. Si è registrata, così, una proliferazione delle fattispecie sanzionate penalmente, allo scopo di fornire ai cittadini l’illusione che uno strumento meramente repressivo, potesse avere autentiche capacità di salvaguardare la sicurezza pubblica e garantire i diritti.
Questo ha generato un flusso di notizie di reato presso gli uffici del Pubblico Ministero di così complessa gestione, da imporre - spesso - l’adozione di criteri di priorità, per governarlo. In attesa di coraggiose riforme che propongano una decisa depenalizzazione di troppe fattispecie di scarso rilievo, resta il tema della fonte di legittimazione dell’organo chiamato ad individuare i criteri di priorità: un organo, necessariamente, dotato di legittimazione democratica – secondo autorevoli opinioni, anche interne alla magistratura – sul presupposto che si tratti di scelte che influenzano l’andamento della politica criminale; ovvero un organo giudiziario, che, nell’esercizio della responsabilità organizzativa e nel rispetto dei principi di eguaglianza, ragionevolezza e buon andamento, provveda alla declinazione di criteri trasparenti e controllabili dal circuito di governo autonomo della magistratura, secondo altre opinioni. Ma al di là di queste – certo non trascurabili – considerazioni, si osserva che l’attribuzione al Parlamento di un simile potere non sembra funzionale allo scopo di assicurare una maggior celerità ai processi penali. Per contro, il concreto rischio che si corre è quello di rendere la giustizia ricorrente terreno di contesa politica, con il risultato di veicolare l’idea di una amministrazione della giurisdizione esposta alla volontà delle contingenti maggioranze politiche. Non ci sembra un buon risultato.
E senza dimenticare che la questione della declinazione da parte del Parlamento dei criteri generali di priorità nell’esercizio dell’azione penale pone implicazioni di rilievo costituzionale. Come segnalato anche dalla Giunta esecutiva centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, una simile previsione rischia di porsi in frizione con il principio di obbligatorietà dell’azione penale (che, ricordiamolo, è presidio di garanzia dell’eguale trattamento dei consociati di fronte alla legge) e con il principio di separazione dei poteri.

La giustizia riparativa e le nuove modalità sanzionatorie: un’occasione per riaffermare il volto costituzionale della pena…
Infine, qualche riflessione meritano le previsioni riformatrici relative al sistema sanzionatorio. Al riguardo, si saluta con favore il fatto che il disegno riformatore abbandoni una visione esclusivamente carcero-centrica del sistema sanzionatorio. L’introduzione di meccanismi di giustizia riparativa, la previsione della possibilità di applicare già in sede di cognizione misure sanzionatorie alternative alla pena detentiva va nella condivisibile direzione di affermare il volto costituzionale della pena e di perseguire l’obiettivo di reinserimento sociale del condannato, scolpito nell’art. 27, co. 3, della Costituzione.
Al riguardo, solo poche, sintetiche, osservazioni.
Nel nostro sistema i meccanismi di giustizia riparativa sono ancora da “costruire”; nel far ciò, si dovrà operare un forte investimento sulla costruzione dei percorsi di giustizia riparativa, sulla formazione degli operatori sociali e giudiziari. Ma, al tempo stesso, si dovrà rafforzare anche il sistema di assistenza alle vittime di reato, onde evitare che il condivisibile auspicio di perseguire la riparazione non finisca con l’esporre la vittima a fenomeni di vittimizzazione secondaria. Si dovrà pertanto investire anche sui centri di assistenza alle vittime.
L’introduzione di sanzioni sostitutive che siano alternative alla risposta carceraria implica il coinvolgimento – già in fase di cognizione – degli Uffici di esecuzione penale esterna. Tuttavia, senza un rafforzamento di detti uffici – non previsto dal disegno di legge di riforma del processo penale – la condivisibile introduzione di meccanismi sanzionatori alternativi al carcere rischia di restare una mera affermazione di principio.

… L’esecuzione della pena: una riforma a metà
Da ultimo: il d.d.l. di riforma del processo penale modula le sanzioni sostitutive alla pena detentiva sulla falsariga delle misure alternative alla detenzione, oggi “gestite” dalla magistratura di sorveglianza. Tra dette sanzioni sostitutive, però, non si prevede la possibilità di sostituire la pena detentiva con l’affidamento in prova al servizio sociale. Si tratta di una previsione che è suscettibile di rilievi critici, considerato che: (a) l’affidamento in prova al servizio sociale è la sanzione che in misura più significativa ha un contenuto “risocializzante” e rieducativo; (b) è una misura che ha, nel tempo, dato buona prova di sé, come attestato dal modesto numero di revoche del beneficio penitenziario registrato dalle statistiche; (c) è una misura che ha, nel tempo, dato buona prova di sé anche sotto il profilo della “prevenzione” (considerato che, secondo alcuni studi, il tasso di recidiva per le persone che hanno “scontato la pena” in regime di affidamento in prova al servizio sociale sembra più basso rispetto a chi ha scontato la pena esclusivamente o principalmente in carcere). Pertanto, la mancata previsione della possibilità di sostituire la pena detentiva con quella dell’affidamento in prova al servizio sociale rischia di indebolire l’affermazione di una pena meno carcero-centrica (e, per converso, rischia di non avere effetto deflattivo, considerato che continuerà ad essere elevato il numero di impugnazioni e di istanze di affidamento in prova al servizio sociale che continueranno ad essere presentate alla magistratura di sorveglianza, in forza del meccanismo di sospensione dell’esecuzione).

Dopo l’allontanamento dall’elaborazione prodotta dalla Commissione Lattanzi, imporre la fiducia sul testo attuale significa perdere occasioni di confronto e rilancio, accontentandosi di un compromesso al ribasso.
La magistratura è dunque consapevole che cambiare si deve. La manifestazione di rilievi non è una difesa dello status quo, ma il tentativo di assicurare che il disegno riformatore possa davvero raggiungere gli ambiziosi obiettivi che esso si propone.
Auspichiamo pertanto che il decisore politico investa responsabilmente nella discussione della riforma un tempo e una riflessione adeguata all’importanza delle questioni (apparendo viceversa non rassicurante al riguardo – come già segnalato da Area DG – l’eventualità di sterilizzare il dibattito parlamentare ponendo la questione di fiducia).
Per quanto difficile sia la mediazione da svolgere in sede politica, crediamo che – in un passaggio potenzialmente epocale come questo – il pieno coinvolgimento del Parlamento e l’ascolto di tutti gli operatori giudiziari siano non perdite di tempo, ma un investimento, trattandosi di passaggi che potranno offrire al nostro Paese un sistema penale più aderente alla Costituzione.

Documento della dirigenza di Magistratura democratica del 27 luglio








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Riforme / 2
L'affanno della giustizia



Il problema della durata dei processi in questo paese è grave. Sul tema, credo, siamo tutti d’accordo. Quali, però, le cause dell’eccessiva durata dei processi, penali e civili? Un problema storico, al quale contribuiscono una pluralità di fattori e, quindi, di responsabilità, tra le quali ci sono, sicuramente, anche quelle dei magistrati.
L’Europa ci chiede interventi per affrontare il problema, in questo modo spingendoci ad allinearci a standard di durata congrui e condivisi, con una spinta propulsiva, verso quello che è di certo un obiettivo di civiltà, che costituisce una preziosa occasione.
Dunque, un problema antico e una nuova occasione. In gioco, la capacità dello Stato di rendere giustizia e di tutelare i diritti. Quelli di indagati, imputati e vittime e quelli delle persone che si rivolgono alla giustizia perché hanno bisogno di un servizio. Perché hanno subito un danno che vogliono risarcito, si devono separare o divorziare, perché sono state ingiustamente licenziate. Perché arrivano da una terra lontana in cerca di una protezione che solo il nostro mondo può offrire. Ci sono, ovviamente e con il grande peso che recano, anche le ragioni dell’economia e degli investimenti.
Le difficoltà del settore penale sono di certo quelle che si pongono con maggiore forza nel dibattito pubblico, anche giustamente, in ragione dei valori coinvolti. Esiste, però, ed è bene rimarcarlo, anche l’altra faccia della luna.
In maniera trasversale nell’ordinamento, l’eccessiva durata dei processi si traduce in una denegata giustizia, in un vulnus inaccettabile alla tutela dei diritti, soprattutto di quelli dei più deboli, di quelli che avrebbero più bisogno di essere tutelati da una giustizia attenta e sollecita, una giustizia efficiente.
La geografia della denegata giustizia, così come quella giudiziaria, è, ovviamente, molto variabile. Tra uffici grandi e piccoli, tra nord e sud. Lo Stato non è in grado di garantire uno standard uniforme di tutela giurisdizionale sul territorio nazionale e, quindi, nemmeno noi.
Cosa si prova a portare la responsabilità di un processo che dura troppo? Come ci si sente ad amministrare la denegata giustizia. È un grande dispiacere e un grande affanno.
Da Giudice del lavoro in un Tribunale Calabrese, con ben oltre mille fascicoli sul ruolo, è il mio pane quotiano. È il pane quotidiano di tantissimi colleghi, una lotta quotidiana, tra carichi di lavoro sproporzionati, infrastrutture fatiscenti, carenza di personale amministrativo, con tanta forza di volontà e spirito di servizio. E anche tanta solitudine.
Ovviamente, un pensiero particolare va ai giovani colleghi, quelli della mia generazione. Tra l’ossessione dei numeri e della produttività, che sempre più si fa strada nelle valutazioni di professionalità, e la pressione che deriva dal rischio del disciplinare sui ritardi, a volte pare davvero che la nostra generazione debba farsi carico dell’inefficienza atavica del sistema giustizia.
Specialmente, è poi doveroso menzionare i giovani colleghi che nelle sedi più disagiate si trovano a far fronte ai processi più delicati, ai carichi più gravosi e alle situazioni, anche ambientali, più difficili. Situazioni che l’opinione pubblica, nell’essere spesso impietosa con i magistrati, soprattutto in questa fase, nemmeno conosce. Il paese non sa cosa significa lottare ogni giorno per far funzionare la giustizia nei territori più problematici, senza mezzi.
È allora necessario che Parlamento, Governo e l’opinione pubblica tutta percepiscano l’affanno della giustizia. Sicuramente, è nostro onere rappresentarlo.
Il tema sta a cuore, ovviamente, a tutti i magistrati e si tratta di un terreno sul quale, davvero, dovremmo trovare le forze per esprimere un approccio unitario. Non solo nell’ambito della magistratura progressista, ma più in generale. A me pare, però, che esista uno specifico dovere in capo a magistratura democratica di farsi carico di questo problema. La nostra eredità storica e ideale, ci impone l’analisi critica della realtà e la rappresentazione, la denuncia se necessario, delle ingiustizie, delle diseguaglianze che tocchiamo con mano nella nostra attività, nel nostro servizio. E non si devono avere dubbi, la condizione di affanno in cui lavorano i magistrati è un inaccettabile fattore propulsivo di diseguaglianze, perché se noi non siamo messi in condizioni di fare bene il nostro lavoro, sono le persone a pagarne il prezzo. Ecco perché questo è un tema che ci riguarda da vicino.
Una fondamentale causa dell’eccessiva durata dei processi è data dalla carenza di magistrati. Dai drammatici problemi di organico della magistratura, che affliggono gli uffici giudiziari d’Italia, soprattutto quelli di piccole e medie dimensioni, soprattutto nei territori meridionali. Uffici che non riescono ad avere un assetto stabile e nei quali un trasferimento o una maternità determinano scompensi organizzativi spesso irrisolvibili. A ciò si aggiungono le ben note carenze del personale amministrativo, già di età media molto elevata, senza il cui fondamentale apporto, la giustizia non può funzionare.
La mia scelta è quella di non citare numeri e dati, ma di sottoporre una riflessione ed evidenziare un rischio.
Non ci sarà riforma del processo, penale e civile, valorizzazione dei meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie, o ufficio del processo che potrà produrre il risultato sperato, finché la situazione dei carichi di lavoro, del numero dei magistrati togati e del personale amministrativo resterà quella attuale. O comunque, se non saranno apportati cambiamenti tangibili.
Per quanto riguarda, specificamente, il tema degli organici della magistratura togata, purtroppo non basta che i concorsi si tengano con costanza o che siano anche incrementati nel tempo, nemmeno per fare fronte ai pensionamenti.
È necessario che si prenda consapevolezza del fatto che siamo di fronte ad un problema grave e strutturale, diversificato sul territorio nazionale, che richiede misure in grado di stabilizzare il sistema in una prospettiva di lunga durata, se si vogliono realmente ottenere dei risultati. Non si tratta di assumere 200 o 500 magistrati in più. Né tantomeno di assumere personale a tempo determinato, com’è immaginato nel disegno dell’ufficio del processo, che assista il Giudice in un idealistico lavoro di staff, che forse potrà anche produrre dei risultati nei grandi Tribunali distrettuali, ma che è misura di discutibile efficacia per le sedi disagiate, con forte carenza di organico ed elevato turn over, magistrati molto giovani e grande arretrato. Le sedi che, in sostanza, maggiormente pongono il problema. Qui si tratta di rivalutare, sulla base degli obiettivi che si vogliono raggiungere, il fabbisogno di magistrati togati della giustizia italiana e di razionalizzare la geografia giudiziaria. È chiaro che non ci si aspettano miracoli e che mille sono le difficoltà, quelle di sempre e quelle dettate dalla contingenza.
Le misure che saranno introdotte con la riforma, processuali e organizzative, si spera, ovviamente, il più possibile frutto di un confronto partecipato, vedranno di certo l’impegno della magistratura nella loro implementazione. D’altronde, gli stessi magistrati, individualmente e nelle sedi dell’autogoverno, devono profondere il massimo impegno nella ricerca di soluzioni, organizzative e ordinamentali, per il migliore funzionamento della giustizia. Certamente dobbiamo fare la nostra parte. Però, come magistrati e come cittadini, abbiamo anche il dovere di porre il problema di una prospettiva ampia e di lunga durata sul funzionamento della giustizia.
Della necessità di interventi di riforma ambiziosi e audaci, riprendendo aggettivi usati in un intervento dalla nostra ministra Cartabia, che possano davvero consegnare nel tempo a questo paese una giustizia efficiente, in grado di conciliare tempi congrui con un’adeguata tutela dei diritti e delle persone, che non può mai essere sacrificata.
In un articolo di recente uscito su Questione Giustizia, Sebastiano Gentile, presidente della Sezione lavoro della Corte d’Appello di Bari, ha scritto che «i diritti non stanno nel processo come i prodotti a vista sugli scaffali di un supermercato: bisogna cercarli». Si riferiva al processo del lavoro e al ruolo del giudice del lavoro, che mai dovrebbe smettere di essere un attento ricercatore e percettore delle istanze di tutela che emergono dal fatto. Sebastiano Gentile è, giustamente, preoccupato dell’ondata di formalismo che si fa strada nelle nuove prassi dei giudici del lavoro e che stona con la configurazione normativa e storica di questa funzione. Quanto il fenomeno di cui parla Sebastiano Gentile ha a che fare anche con i carichi di lavoro dei magistrati e quanto la sua preoccupazione è estensibile anche agli altri settori? Quando si hanno migliaia di cause sul ruolo e la mentalità corrente è quella per cui bisogna produrre e fare le statistiche, che fine fanno i diritti? A me pare che queste problematiche siano ampiamente trasversali a ogni ambito della giurisdizione: come si fa a mantenere la qualità dei provvedimenti e a mantenere un approccio vigile e critico, con i carichi di lavoro che abbiamo e con i numeri che ci chiedono? Se la spinta della riforma sarà verso l’efficientismo fine a sé stesso senza mezzi adeguati, quanto questa situazione potrà peggiorare? Sono tutte domande che vi affido.
La produttività, e mai termine fu più sfortunatamente accostato alla giurisdizione, genera mostri. E se, come sistema paese, non saremo in grado di invertire la tendenza, facendoci promotori di una cultura dell’efficienza che concili celerità dei processi ed effettività della tutela, la tanto temuta burocratizzazione dell’attività giudiziaria e il conformismo alle pronunce delle giurisdizioni superiori, mali già ampiamente diffusi, rischieranno concretamente di prevalere.
Finché sarà considerato accettabile che a un giudice solo siano affidati duemila fascicoli (o anche di più), o che sette giudici del dibattimento possano dare seguito al lavoro di una Procura di trenta Pm, finché le carenze del personale amministrativo saranno tali per cui un avviso 415 bis ci metterà un anno per essere notificato, avremo rimandato ogni prospettiva seria di efficienza, ragionevole durata dei processi e tutela dei diritti, alla prossima riforma.

Ottavia Civitelli (nella foto in alto), Giudice del Tribunale di Castrovillari. Intervento al Consiglio Nazionale di Magistratura democratica del 24 luglio






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Genova, vent'anni dopo / 1
Non dimenticare, ma guardando avanti



L’articolo 13, quarto comma, della Costituzione prevede che sia punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
Si tratta dell’unico obbligo di incriminazione espresso dalla nostra Costituzione antifascista, che raccoglieva la memoria ancora bruciante delle violenze del regime contro i dissidenti e gli oppositori politici.
Il rilievo costituzionale conferito alla protezione delle persone “ristrette” – termine che richiama non solo lo stato di detenzione e di internamento in r.e.m.s., così come di arresto e fermo, ma anche il trattamento sanitario obbligatorio e il trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri – richiede un’assoluta effettività della giurisdizione sulle violazioni dei diritti umani che vedono coinvolte le Forze dell’ordine, anzitutto nella fase delle indagini per l’accertamento dei fatti e delle responsabilità e poi nell’esercizio dell’azione penale e nel processo.
A vent’anni dai fatti di Genova ci troviamo invece a constatare la persistente difficoltà della giurisdizione nell’entrare in profondità nei fatti di abuso contro le persone private della libertà, nell’accertare le reali dinamiche degli eventi e nello stabilire le responsabilità dei singoli pubblici ufficiali.
Impossibilità, in molti casi, di individuare gli agenti responsabili, omertà istituzionale e puntuali attività di depistaggio rappresentano una costante di queste vicende che non si sono certo esaurite nel 2001: ricordiamo infatti, tra le tante vittime successive, Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi.
Non ha costituito un reale punto di svolta l’introduzione nel codice penale, con Legge n. 110 del 2017, del reato di tortura; nonostante si tratti di un’innovazione legislativa apprezzabile – e peraltro attuata con molto ritardo rispetto alla ratifica, nel 1988, della Convenzione Onu contro la tortura del 1984 -, il testo uscito dall’iter parlamentare non si caratterizza per chiarezza dei presupposti bensì per formulazioni non facilissime da comprendere (come il riferimento a condotte declinate solo al plurale, o alla “verificabilità” del trauma psichico della vittima) e quindi idonee a causare incertezza e controvertibilità nell’interpretazione.
Oggi, davanti alle drammatiche immagini delle violenze sui detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, pur nella doverosa attesa del lavoro della magistratura inquirente e fermo il principio di presunzione di non colpevolezza delle persone iscritte nel registro degli indagati, si avverte il rischio che torni a ripetersi uno scenario oscuro nel quale la confusione e i tentativi – in parte già emersi dalle intercettazioni rese pubbliche – di alterazione delle fonti di prova rendano ancora una volta estremamente difficoltoso il cammino della giustizia.
Proprio pronunciandosi sui fatti di Genova, la Corte europea dei Diritti dell'uomo (sentenza del 7 aprile 2015 - Cestaro c. Italia), ha riaffermato che, quando una persona sostiene di avere subito, da parte della polizia o di altri servizi analoghi dello Stato, un trattamento contrario all’articolo 3 della Convezione Edu, tale disposizione, combinata con il dovere generale imposto allo Stato dall’articolo 1, di «riconoscere a ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione i diritti e le libertà definiti (...) [nella] Convenzione», richiede, per implicazione, che vi sia un’inchiesta ufficiale effettiva e che tale inchiesta deve poter portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili. «Se così non fosse, nonostante la sua importanza fondamentale, il divieto legale generale della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti sarebbe inefficace nella pratica, e sarebbe possibile in alcuni casi per gli agenti dello Stato calpestare, godendo di una quasi impunità, i diritti di coloro che sono sottoposti al loro controllo».
In relazione alla mancata identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti nella scuola Diaz-Pertini, la Corte ha ribadito che è contraria alla Convenzione l'impossibilità di identificare i membri delle forze dell'ordine, presunti autori di atti contrari alla stessa, e che, quando le autorità nazionali competenti schierano i poliziotti con il viso coperto per mantenere l'ordine pubblico o effettuare un arresto, questi agenti sono tenuti a portare un segno distintivo – ad esempio un numero di matricola – che, pur preservando il loro anonimato, permetta di identificarli in vista della loro audizione qualora il compimento dell'operazione venga successivamente contestato (Ataykaya c. Turchia, n. 50275/08, 22 luglio 2014, § 53; Hristovi c. Bulgarie, no 42697/05, § 92, 11 ottobre 2011, et Özalp Ulusoy c. Turquie, no 9049/06, § 54, 4 giugno 2013).
Sin dal 2012, nella risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell'Unione europea, esprimendo preoccupazione per il ricorso a una forza sproporzionata da parte della polizia durante eventi pubblici e manifestazioni nell'Ue, il Parlamento europeo invitava gli Stati membri a introdurre misure per rafforzare il controllo giuridico e democratico delle autorità incaricate dell'applicazione della legge, per garantire una assunzione di responsabilità e per escludere l'immunità, in particolare per i casi di uso sproporzionato della forza e di torture o trattamenti inumani o degradanti, e raccomandava per questo l’introduzione per il personale di polizia di un numero identificativo.
Come da molti in questi giorni sottolineato, occorre ripensare ai modelli organizzativi delle agenzie di polizia e agli strumenti - come i codici o i numeri indentificativi individuali per rendere identificabili i singoli agenti e funzionari - che favoriscano una effettiva prevenzione di violazioni dei diritti umani delle persone ristrette e un più efficace controllo, amministrativo e giudiziario, sull’operato delle Forze dell’ordine: a garanzia delle persone private della libertà, certo, ma anche a garanzia di tutti gli agenti che svolgono correttamente il loro servizio.
Insistere oggi, come e più di vent’anni fa, per la migliore attuazione della speciale protezione che la Costituzione assegna alla persone private della loro libertà è il modo più sincero e soprattutto più propositivo di ricordare le immagini indelebili della Caserma di Bolzaneto e della scuola Diaz.

Documento della dirigenza di Magistratura democratica del 21 luglio







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Genova, vent’anni dopo / 2
Due autori, per una difficile memoria



Vent’anni. Sono passati vent’anni dal G8 di Genova. Qualunque tentativo di fare memoria di quei giorni del luglio 2001 è fatalmente destinato a scontrarsi con l’inadeguatezza della parola e corre il rischio di sembrare uno stentato balbettio.
Per l’impossibilità di descrivere le mille voci che suggerivano la possibilità di un altro mondo; per l’impossibilità di dare conto delle pulsioni vitali, delle riflessioni, delle ingenuità, ma anche dei progetti che animarono i giorni che avrebbero dovuto accompagnare il vertice; per l’impossibilità di rendere anche solo l’idea di speranza che attraversava decine di migliaia di persone e delle molte associazioni – delle più disparate estrazioni – che componevano la galassia del Genoa Social Forum; per l’impossibilità di dire quanto bello avrebbe potuto essere tutto questo.
Ma qualunque tentativo descrittivo è destinato a risultare inadeguato anche per altre ragioni. Che sono note. E sono tragiche.
Una città militarizzata. Le grate a erigere muri all’interno dei carruggi. I genovesi espropriati dei loro luoghi. Un deficit di organizzazione delle misure di sicurezza. La violenza che stupra le idealità dei manifestanti. Il blocco nero. Le reazioni spesso sproporzionate e non selettive di molti operatori di polizia. Le cariche della polizia, anche su cortei o presidi pacifici. La morte di Carlo Giuliani, un ragazzo che oggi avrebbe quarantatré anni e, chissà, magari avrebbe dei figli da accompagnare a scuola. Non lo sapremo mai, purtroppo, se Carlo avrebbe accompagnato i figli a scuola.
Già. La scuola. Le scuole: la Diaz; la Pascoli. Luoghi in cui uomini dello Stato consumarono uno scempio della Costituzione e dei diritti fondamentali delle persone. Una «macelleria messicana», la definì uno degli imputati per quei fatti. Scempio di Costituzione e diritti che si stava consumando in parallelo in altri luoghi, in cui i corpi delle persone erano affidati alla responsabilità dello Stato. Tra essi, la tristemente nota caserma della Polizia di Stato di Genova Bolzaneto.
Luoghi in cui si calpestò l’habeas corpus – uno dei fondamenti del costituzionalismo – e ove si calpestò la dignità di centinaia e centinaia di uomini e donne, giovani e adulti. Luoghi in cui uomini dello Stato usarono la forza non per proteggere, ma per aggredire («ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto. Se non tende a nessuno di questi attributi rinuncia da sé ad ogni validità», scriveva Walter Benjamin).
Luoghi in cui – per dirla con le parole di Amnesty International – si determinò «la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda Guerra Mondiale».
Ne seguirono indagini e processi, durante i quali molti uomini dello Stato mostrarono il lato peggiore del potere: la falsificazione di prove; l’accusa di innocenti; la copertura dei responsabili in divisa; una discontinua collaborazione con i pubblici ministeri titolari delle indagini.
Fatti che sono stati faticosamente e dolorosamente accertati da sentenze oramai irrevocabili. Sentenze che, però, non possono offrire le risposte a tutte le domande. Ci furono responsabilità politiche? Il nostro sistema giudiziario è stato in grado di essere all’altezza della situazione? Il nostro ordinamento aveva strumenti capaci di offrire una risposta adeguata alla gravità dei fatti?
Ne è scaturita una letteratura pressoché sterminata, figlia di una miriade di approcci e informata alle più diverse prospettive. Una letteratura impossibile da riassumere qui. Da essa preleviamo – più o meno arbitrariamente – due recenti e agili volumetti sul G8 di Genova. Si tratta di F. Barabino, G8 Genova 2001. La notte della democrazia e R. Caruso, G8. C’ero anche io. Un avvocato tra le barricate di Genova, ambedue pubblicati quest’anno da FOG edizioni. Si tratta di opere che, evidentemente, non possono offrire una risposta a tutte le domande che il G8 propone, per lo strutturale scarto che esiste tra enormità delle questioni e qualsiasi possibilità di offrire tutte le risposte. E che, però, ci sembrano meritevoli di interesse per più di una ragione.
Anzitutto, gli autori. Francesco Barabino è praticante avvocato e, nel 2001, aveva sei anni. Per lui, il G8 di Genova è quello che ha letto nelle sentenze, nei libri e visto nei documentari. Il suo punto di vista è quello di un giovane, che supponiamo amante del diritto e della giustizia, sufficientemente informato sui fatti, ma non direttamente coinvolto in essi. Raffaele Caruso è oggi un avvocato penalista, specializzato in criminologia; nel 2001, era avvocato da pochi mesi ed era capitato – quasi per caso e non senza titubanze, ci dice lui – a far parte del team di avvocati che avrebbe dovuto offrire il proprio ministero nel caso in cui, a margine delle manifestazioni, se ne fosse presentata la necessità.

Articolo di Andrea Natale, Giudice del Tribunale di Torino, pubblicato sulla rivista Questione Giustizia.
Link per il testo integrale:
https://www.questionegiustizia.it/articolo/genova-vent-anni-dopo






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Polonia. The Stick method
The "good change" system
of persecuting indipendent prosecutors


Sin dal 2015 Medel - Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés segue l’evoluzione della situazione di grave crisi sistemica dello Stato di diritto in Polonia, denunciando il progressivo smantellamento delle garanzie di indipendenza del sistema giudiziario prodotto da riforme contrarie al principio di separazione dei poteri: dall’intervento sulla composizione e sulle modalità di decisione del Tribunale costituzionale alle decisioni non motivate di revoca di magistrati con incarichi direttivi; dalla modifica dell’età pensionabile, con una diversificazione discriminatoria per genere del limite di permanenza in servizio, alla nuova legge sul Consiglio nazionale della magistratura (KRS), poi sospeso dalla Rete dei Consigli di giustizia ( ENCJ) perché privo dei requisiti di indipendenza; dalla riforma sulla Suprema Corte, con l’istituzione di una nuova e straordinaria Sezione disciplinare, all’introduzione di un’impugnazione straordinaria per la revisione di tutte le sentenze, anche se passate in giudicato, pronunciate negli ultimi 20 anni.
La riforma della Procura è stata una tappa importante di questo processo di regressione democratica: la nuova legge, entrata in vigore nel 2016, ha ricostituito le condizioni strutturali per una concentrazione assoluta di potere a favore del Procuratore Generale, ruolo che è tornato ad essere unificato con quello del Ministro della Giustizia.
L’associazione di pubblici ministeri polacchi, membro di Medel, Lex Super Omnia, ha di recente pubblicato un report sulla "strategia" che ha accompagnato la riforma, anche operando apparenti e puramente nominali cambiamenti nella struttura dell’Ufficio del Pm per acquisire totale discrezionalità nel mantenimento dei magistrati nella loro posizione; favorendo il ricorso a pensionamenti; intervenendo sui magistrati con retrocessioni nelle funzioni e trasferimenti presso altri uffici (http://lexso.org.pl/2021/07/21/the-stick-method-the-good-change-system-of-persecuting-independent-prosecutors/).
Come già denunciato da Medel, molti dei pubblici ministeri colpiti sono attivamente impegnati nella difesa dello stato di diritto e nel denunciare la deriva innescata dalla controriforma del 2016 rispetto al percorso iniziato con la legge del 2009, verso la costruzione di una Procura indipendente:
(https://www.medelnet.eu/index.php/news/60-featured-news/734-medel-strongly-condemns-the-decision-of-the-polish-minister-of-justice-acting-as-prosecutor-general-to-transfer-independent-prosecutors-hundreds-of-kilometres-away-from-the-places-they-live).
I contenuti e gli effetti della riforma sono ampiamente analizzati negli articoli di Jerzy Iwanicki e di Jacek Bilewicz, pubblicati su QG online e sul numero monografico di QG n. 2/2021 Pubblico Ministero e Stato di diritto in Europa.


Mariarosaria Guglielmi, vicepresidente di Medel - Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés

Link sull'argomento:
https://www.questionegiustizia.it/articolo/un-paese-che-punisce
https://www.questionegiustizia.it/articolo/le-nuove-disposizioni-sul-sistema-della-pubblica-accusa-in-polonia-e-la-loro-applicazione-pratica
https://www.questionegiustizia.it/rivista/pubblico-ministero-e-stato-di-diritto-in-europa







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Per rivedere il XXIII congresso di Md

 9 luglio: https://www.radioradicale.it/scheda/642513
10 luglio:https://www.radioradicale.it/scheda/641943
11 luglio: https://www.radioradicale.it/scheda/641944





[https://6dn9q.img.ah.d.sendibm4.com/im/3708552/15fd9f264001efa0668072cabf04073d203e1c628b776e87506daf3661b832d6.gif?e=dOWft_faw-rx7ocgeKlhulFMDfs5t2iH3DVEjucyYPT0DUyQ0q2hk0vfiS52rxQ0bOLxuXvn6vz-8fol9roSQ3ZdfLqWXPIzmUWmWPlNkvn7xgUhliaxpYpGHt-PZIRozU_jZgccMk8gX9zGQzq5G0AYh02JJQ5Gwr5HISVZWsC_tLGkhEBvTXIp5Ewa]


[https://6dn9q.img.ah.d.sendibm4.com/im/3708552/27d27c3e27d0a6a76b8cac164e079124b68c822e18f6c6bda48d361d3cba485a.jpg?e=D0LL1_21edvnzn9xZxuYvPiKnN7JGxORpACM3_SGh-NpHv079S8lhlv6NpoxwoldLtKVGSVGK50g658dKgO7i8_kk9YBZLcasexF6RabVdLQDF2Goqp_JhnR5lwJ2UwulpDMDovUkc8J3Y6CKLBbKc0Sbl3-K-omVXSDKSof-iMztF93f3nm0H_Ss3-OR7jEo6bt7WWQr4G5tgvjHiQddNnIRCfUjvJ2fr_3TQ4]





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