[Area] Magistratura democratica Newsletter 18

Magistratura democratica md a magistraturademocratica.it
Mar 5 Ott 2021 20:01:40 CEST


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[Magistratura Democratica]

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5 ottobre 2021

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Cari lettori,

questa newsletter si occupa del convegno Un mare di vergogna (Reggio Calabria, dall'1 al 2 ottobre), organizzato da Magistratura democratica in collaborazione con ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione), attraverso l'intervento conclusivo di Stefano Musolino, l'articolo di Emilio Sirianni pubblicato da Questione Giustizia e la registrazione integrale dei lavori.

La vicenda giudiziaria "Lucano" è poi l'occasione per riflettere ed interrogarsi, in via generale, sui rapporti tra indipendenza della Magistratura e critica dei provvedimenti giudiziari: lo fa Simone Spina, in un articolo pubblicato il 5 ottobre, su Il Manifesto.

Si parla anche della necessaria riforma della legge elettorale per l'elezione del Csm, con un articolo di Valerio Savio.

Infine, lo scorso fine settimana si è discusso di giustizia e diritti anche a Restart, il festival della creatività antimafia e dei diritti a cura dell'associazione daSud, al quale è intervenuto Stefano Musolino.

L'appuntamento con la newsletter MD, salvo eccezioni, è ogni martedì, alle ore 20

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Convegno di Reggio Calabria #1
L'inabissarsi dei diritti fondamentali

È stato un convegno molto denso di contenuti e di emozioni che ha evidenziato la crisi, l’inabissarsi della solidarietà nel nostro Mediterraneo.
Abbiamo sentito di iniziative politiche nazionali ed internazionali, di iniziative normative e di sanzioni amministrative che hanno annichilito la possibilità di portare aiuto in mare, a favore di soggetti economicamente svantaggiati che si trovano in una oggettiva condizione di bisogno (e non di un bisogno qualsiasi, ma del bisogno essenziale di avere possibilità di vita, di salvare la propria vita). Obiettivo di queste politiche è stata la sostanziale neutralizzazione dell’operato di quelle organizzazioni che fanno della solidarietà il loro scopo e che vedono ostacolata, boicottata, intimidita questa loro vocazione. Una vocazione che trova principio e fondamento nella tutela dei diritti fondamentali; non solo di quelli formalizzati in norme, ma prima ancora di quelli sviluppati nella storia delle relazioni tra le persone, sino a connotare la stessa umanità. Il quadro fosco che è emerso dalle parole che abbiamo ascoltato, è quello che vuole questa politica inibitoria, agire in maniera occulta se non proprio subdola (penso alle sanzioni amministrative ed ai sequestri), per attenuare la consapevolezza sociale della gravità di queste scelte che, ostacolando la solidarietà, mostrano l’irriducibile disumanità delle politiche di gestione dei flussi migratori. Ed agli effetti di queste politiche, si aggiunge una narrazione mediatica che, criminalizzando la solidarietà, ha finito per introiettare nell’opinione pubblica la percezione di ordinarietà, se non proprio d’irrilevanza del numero crescente di persone che muoiono in mare.
Ma perché un gruppo di magistrati ha sentito la necessità di avere una prospettiva "altra” sulla gestione dei flussi migratori? Perché non ci siamo accontentati di fare un convegno sui temi di diritto sostanziale e processuale, coinvolti in queste vicende?
La gestione dei flussi migratori si inserisce nel tema generale delle narrazioni oggi dominanti, finalizzate ad anestetizzare la sensibilità sociale, secondo una logica che ha introdotto e sta, eticamente, legittimando nel sentire popolare il criterio discretivo delle cd. ego-libertà, inteso quale principio cardine di regolamentazione dei rapporti sociali; una sorta di imperativo per cui è giusto ed è buono, tutto quello che mi conviene. Un virus culturale che ci riguarda anche come magistrati perché finisce per intaccare i principi cardini della nostra Costituzione, desumibili dagli artt. 2 e 3 della Carta che possono essere riassunti in questa affermazione che è insieme un onere individuale ed un sollecito collettivo: posso essere felice solo se lo sono anche gli altri. Con questa premessa possiamo tornare alle domande sul perché di questo convegno. Siamo un gruppo di magistrati che tenta (lo sottolineo: tenta! Anzi sarò più aderente alla realtà: si propone) di interpretare il principio di indipendenza ed autonomia della magistratura non come un privilegio di casta, ma come uno strumento a garanzia e tutela dei diritti fondamentali. Noi crediamo che i padri costituzionali abbiano previsto quella autonomia ed indipendenza, perché erano consapevoli che il nucleo essenziale dei diritti fondamentali dell’individuo (di ciascuna singola persona) sacralizzati dalla Carta, dovesse resistere anche alle iniziative normative di contingenti maggioranze parlamentari che li avessero messi in crisi. Per ciò, noi riteniamo che la magistratura nell’esercizio giurisdizionale abbia un mandato costituzionale di resistenza anti-maggioritaria, assolutamente doveroso in occasione della violazione dei diritti fondamentali.
Il senso di questo convegno, dunque, è quello di offrire ai magistrati - ma l’ambizione, in
vero, è a tutti i giuristi ed a chi si occupa (meglio si prende cura) di diritti - di ampliare i loro orizzonti; in particolare, vorremmo consentire a ciascun magistrato di potere comprendere meglio la realtà in cui si innesta quella specifica, singola, unica vicenda che è chiamato a trattare, fascicolo per fascicolo, quando questa è in qualche modo connessa alla gestione dei flussi migratori. Il rischio – altrimenti – è quello di ridurre la risposta di giustizia, l’esercizio della giurisdizione nel caso concreto, ad un giudizio in cui le indispensabili valutazioni tecnico-giuridiche sono svilite da un approccio burocratico e
formalista, incapace di comprendere autenticamente la vicenda sottoposta al vaglio giurisdizionale.
Noi crediamo che la riduzione della magistratura ad una casta burocratica chiusa in se stessa, metta in crisi il suo ruolo istituzionale e trasformi la sua indipendenza ed autonomia da valori posti in funzione del presidio dei diritti fondamentali costituzionalmente non coercibili, ad inaccettabile privilegio che finisce per svilire quei diritti fondamentali che doveva tutelare, con l’alibi della gretta applicazione della legge, del tecnicismo formalista, inadatto a cogliere la reale posta in gioco nel concreto esercizio della giurisdizione.
Questo rischio è ben presente in una vicenda attualissima, evocata più volte nel corso dei nostri lavori: la condanna di Mimmo Lucano e delle persone, impegnate con lui nella gestione dell’accoglienza dei migranti a Riace.
In queste ore, dentro la magistratura associata, alcuni gruppi hanno invocato interventi a
tutela dei giudici di Locri, investiti dalle critiche per l’entità della pena.
Non possiamo valutare una sentenza, senza prima conoscerne le motivazioni. Ma possiamo interrogarci sulle ragioni per cui una sentenza suscita questo clamore. Ed abbiamo un dato oggettivo, da tutti verificabile: l’entità della pena; un elemento della decisione su cui ogni giudice esercita una discrezionalità che è anche figlia di una sensibilità valoriale. Una pena quella inflitta a Lucano, pari a quella comminata, a queste
latitudini, per gravi reati di mafia.
Dobbiamo prendere atto che – a prescindere dalla volontà dei giudici, per comprendere
la quale dobbiamo attendere le motivazioni – la misura della pena è stata intesa nella percezione pubblica diffusa (sia quella che si è espressa in senso favorevole, sia quella
che si è espressa in senso contrario agli imputati) come una condanna inflitta non solo a
loro, agli imputati, ma all’intero sistema di accoglienza, organizzato a Riace. A questo, dunque, una parte dell’opinione pubblica si è ribellata. Questa parte dell’opinione pubblica, infatti, riconosce in quel sistema di accoglienza, una modalità innovativa, avanzata, da prendere a modello, anche se singole persone possano averne abusato e possano avere commesso dei reati. Il messaggio sembra essere: potete condannare le persone, ma una pena di tale portata finisce per condannare un intero modello di accoglienza.
Ecco allora che la richiesta di interventi dell’Anm a tutela di una siffatta sentenza, mostra di non comprendere le ragioni di queste reazioni, accrescendo la percezione pubblica di una magistratura chiusa, auto-percepita come casta sacerdotale che tutela i suoi riti e le sue pronunce; una magistratura che non si interroga sugli inevitabili effetti sociali dei suoi provvedimenti e, perciò, non ne tollera le critiche, sollevando l’alibi del tecnicismo. Aleggia in queste posizioni l’ombra del giudice sacro bocca della legge, così amato da certa politica securitaria ed invocato dai poteri economici dominanti.
L’esatto opposto dello spirito di questo convegno che ha avuto l’ambizione - speriamo colta almeno in parte - di mettere la magistratura a confronto con una realtà complessa e per larghi aspetti finita in un cono d’ombra dentro il quale i diritti fondamentali delle persone sono gravemente aggrediti.
Non lo facciamo con un atteggiamento saccente o di superiorità professionale, ma anzi nella consapevolezza che metterci a confronto con queste problematiche ci rende più responsabili e renderà meno giustificabili i nostri errori che – ahimè – continueremo a fare.
Ma siamo convinti che, con queste nuove consapevolezze, potremo svolgere il nostro lavoro - che, a volte, limitando la libertà delle persone e determinando la sorte di dirittipersonalissimi, ci può illudere di essere dotati di una speciale, quanto insidiosa superiorità umana - con una prossimità alle vicende ed una umiltà cognitiva checostituisce un efficace antidoto alle deviazioni ed un buon viatico per un esercizio della giurisdizione attento alla tutela dei diritti fondamentali.
Le prospettive future, purtroppo, non sono rosee. L’aggressione ai diritti fondamentali potrà essere ancora più incisiva e sempre più subdola. Costruire un fronte di resistenza costituzionale per la loro tutela è un obiettivo che impegna Magistratura democratica. Ma consapevoli dei nostri molti limiti, chiediamo di farlo con tutti quelli che sentono l’urgenza di impegnarsi su questo fronte.
Ed allora non resta che ringraziarvi, augurandoci prossime future occasioni di confronto.

L'intervento conclusivo di Stefano Musolino, segretario generale di Magistratura democratica

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Convegno di Reggio Calabria #2
Un mare di vergogna

Il Tribunale di Roma lo scorso gennaio ha accolto il ricorso di un cittadino pachistano «sprovvisto di accoglienza e di alcun tipo di supporto», respinto alla frontiera slovena da parte dell’autorità di pubblica sicurezza italiana. Ha ritenuto sufficientemente provato il suo racconto delle modalità di «riammissione» informale in territorio sloveno, poi in quello croato ed infine bosniaco, ad opera di agenti di polizia in borghese, con l’omissione di ogni formalizzazione della sua richiesta di asilo orale, l’induzione alla firma di documenti e con successivo rosario di violenze d’ogni genere subite ad opera delle polizie di tali Stati.
Il provvedimento è stato fondato, tra l’altro, sulle «informazioni …elaborate …sulla base dei dati forniti …dall’UNHCR [ed] altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale», così come previsto dall’art. art.8 co.3 dlgs. 25/08 (Amnesty International, IPSIA-ACLI, ICS e BVMN, ASGI, report del dipartimento di stato degli Stati Uniti, Human Rights Watch) nonché su un precedente comunitario specifico, riferito ad una riammissione in Grecia (in esecuzione di un accordo bilaterale con quello Stato analogo a quello sottoscritto dall’Italia con la Slovenia) e sulle dichiarazioni del Ministero degli Interni che in risposta a una interrogazione ha riconosciuto che «procedure informali» sono eseguite «anche qualora sia manifestata l’intenzione di chiedere la protezione internazionale».
In sede di riesame il Tribunale di Roma in composizione collegiale ha revocato il provvedimento negando il diritto a vedere esaminata la domanda in Italia, ritenendo non provati la richiesta orale di asilo nel territorio italiano e l’accompagnamento alla frontiera senza alcuna considerazione delle fonti di conoscenza esterne al fascicolo processuale, agevolmente disponibili per chiunque e di assoluta obbligatoria valutazione da parte del giudice in forza dell’art. 8 D.Lgs. n. 25 del 2008 relativo al dovere di cooperazione istruttoria incombente sul giudice, che costituisce il cardine del sistema della prova a base dell'accertamento giudiziale delle domande di protezione internazionale.
La cifra che connota la decisione di revoca rispecchia una concezione del processo civile strutturato rigorosamente sul confronto logico formale delle tesi e degli oneri di prova che astrae da quanto non è scritto nel fascicolo, dove il giudice è un mero regolatore del flusso dialogico che conduce alla sintesi finale del giudizio. Il processo è agito come luogo separato dal contesto sociale esterno, perché questo varrebbe a garantirne il corretto funzionamento. Meccanismi molto spesso inconsciamente recepiti ed è proprio questo che spiega la frequente discrasia nei provvedimenti fra le declinazioni anche forbite di principi costituzionali e l’eccentricità delle decisioni rispetto a quegli stessi principi.
Matilde Betti ha ricordato recentemente che circa la metà delle pendenze di un Tribunale medio sono costituite da procedimenti del giudice tutelare e della sezione della protezione internazionale, relativi a diritti fondamentali della persona, in «… rapporti, non di parti autonome e uguali ma di parti in relazione asimmetriche», così che «il giudice che decide in queste materia non deve solo conoscere il diritto ... ma prima deve essere capace di comprendere il fatto, il rapporto, la relazione in modo completo e privo di quei preconcetti inconsapevoli che lo guidano nella comprensione dei fatti da decidere», con una capacità di «empatia cognitiva o intellettuale» consistente «nella capacità umana priva di valenza emotiva di comprendere i desideri, le emozioni e i sentimenti dell’altro». Procedimento cognitivo «particolarmente utile nelle decisioni in materia di protezione internazionale, dove la differenza e l’alterità del richiedente è massima e dove – conseguentemente – è altissimo il rischio nel giudicante di inconsapevoli preconcetti e fraintendimenti». Una modalità di cognizione che guida il giudice nella ricerca del fatto sottoposto al suo giudizio, ancorché estraneo alla sua esperienza diretta, perché è solo nella conoscenza dei fatti della vita destinati ad essere incisi dalla propria decisione che egli può trovare la luce idonea a trarre i principi astratti declamati nelle Carte dei Diritti (...)

Dall'articolo di Emilio Sirianni (presidente di sezione della corte d'appello di Catanzaro), pubblicato da Questione Giustizia il primo ottobre.
Link:
https://www.questionegiustizia.it/articolo/un-mare-di-vergogna

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Il commento sulla sentenza Lucano
Criticare non è «lesa maestà»

La vicenda ‘Lucano’ e le levate di scudi che da più parti, all’interno della magistratura, si sono subito affacciate contro le critiche alla pesantissima sentenza di condanna pronunciata giovedì scorso, sono scene di un film già visto: la ‘cittadella della magistratura’, sentitasi attaccata e sotto assedio, innalza muri elevati e scava fossati profondi per separarsi dalla ‘civitas’, ripiegando su se stessa davanti alle critiche pubbliche alla sentenza, percepite quasi come ‘lesa maestà’.
Eppure, la ‘cittadella’ dimentica che in una democrazia costituzionale le critiche alle decisioni pubbliche, specie se autoritative, dovrebbero essere sempre salutate ed accolte con favore: come un segno di salute istituzionale e civica, dato che si tratta di uno strumento di controllo diffuso e popolare sull’esercizio dei pubblici poteri, incluso quello giudiziario.
La soggezione delle attività giudiziarie alla critica dell’opinione pubblica, anzi, rappresenta una delle principali garanzie di controllo sul funzionamento della giustizia. Ma vi è di più. A quanti, specie all’interno della magistratura, oppongono preconcette chiusure verso la critica pubblica ai provvedimenti giudiziari, occorrerebbe replicare ribaltando l’argomento dell’‘attacco’ alla indipendenza del giudiziario, evocato spesso in occasioni simili: ricordando, più in particolare, che il controllo dell’opinione pubblica sulle attività giudiziarie è un fattore essenziale non soltanto di responsabilizzazione democratica per i cittadini, ma anche di educazione dei giudici ad un costume di indipendenza.
Critica pubblica ed indipendenza della magistratura, in altri termini, sono legate a doppio filo, nel senso che la critica, ben più che ledere, contribuisce a rafforzare la cultura dell’indipendenza. All’apparenza, ciò potrà forse sembrare paradossale. Ma così non è. Tramite la critica pubblica e popolare alle attività giudiziarie – non quella generica e vaga, ovviamente, ma quella argomentata e documentata, rivolta a singoli giudici e a concreti provvedimenti – si rompe infatti la ‘separatezza’ del giudiziario dalla ‘civitas’, si favorisce l’emancipazione dei giudici dai vincoli politici, burocratici e corporativi, si delegittima la ‘cattiva’ giurisprudenza e si contribuisce, infine, ad elaborare e rifondare continuamente la deontologia giudiziaria.
La critica pubblica e il conseguente controllo popolare sulla giustizia rappresentano, d’altra parte, la seconda via che collega il potere giudiziario alla sovranità popolare, assieme a quella della garanzia dei diritti fondamentali: formalmente enunciati dalla Costituzione come appartenenti a tutti e ciascuno, ma concretamente inverati e sostanziati dalla loro possibilità di tutela e ‘giustiziabilità’.
Ecco perché alla critica della giurisdizione da parte dell’opinione pubblica i magistrati dovrebbero associare un valore: non soltanto da ‘tollerare’, ma anche e soprattutto da ‘praticare’ ed ‘esercitare’ essi stessi, sia come singoli che come gruppi. La critica pubblica ai provvedimenti giudiziari è quindi un fattore necessario ed essenziale: necessario per la vitalità democratica del nostro Paese, essenziale per il costume d’indipendenza del potere giudiziario.

Articolo di Simone Spina, giudice del Tribunale di Siena e componente dell'esecutivo di Md, pubblicato da Il Manifesto del 5 ottobre

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Csm e sistema elettorale
Una legge che s'ha da fare

Dopo una fase in cui sull’onda lunga dello “scandalo” delle nomine è stata tema “caldo” del confronto politico, la riforma della legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura da alcuni mesi è “in sonno”, uscita dai radar.
Se è del tutto comprensibile che ciò sia avvenuto per l’esigenza, sentita da tutte le forze politiche, di dare priorità a quelle riforme cui l’Unione Europea collega la corresponsione dei fondi destinati alla ripresa post pandemia, è certo che ora i tempi si fanno stretti.
Le elezioni per il Csm sono prossime (il loro tempo allo stato è il luglio 2022), la legislazione emergenziale “sanitaria” monopolizza i tempi dei lavori parlamentari, in autunno le Camere sono impegnate nella sessione di bilancio che quest’anno si presenta particolarmente impegnativa, verso Natale e forse pure prima il mondo politico si paralizzerà e per due mesi ruoterà intorno all’elezione del Presidente della Repubblica, le proroghe della durata di un organo costituzionale sono sempre cosa da evitare così come l’approvare una legge elettorale a immediato ridosso delle elezioni che deve andare a regolare (come avvenuto nel 2002) o addirittura in campagna elettorale (come avvenne nel 1990).
Anche a voler prescindere dalla farraginosità e lentezza dei lavori parlamentari e dai concreti rischi di elezioni anticipate dopo la nomina del nuovo inquilino del Quirinale, i tempi sono quindi ora non stretti ma strettissimi, anche per una riforma che rinunci a toccare uno spettro ampio di istituti e profili della vita consiliare per rimanere alla sola legge elettorale.
Tempi strettissimi, soprattutto, se non si vuole che una riforma purchessia venga approvata appunto in quattro e quattr'otto, senza reale confronto e dibattito parlamentare, con l’ormai purtroppo ordinaria prassi legislativa di una legge delega fatta approvare dal Governo a colpi di fiducia seguita da decreti legislativi.
Una cosa è certa: la riforma della legge elettorale per l’elezione dei componenti togati del Csm è assolutamente necessaria.
La magistratura associata (e non solo) può dirsi per una volta unita (se non ovviamente anche sul meccanismo da varare) almeno nel chiedere il superamento del sistema attuale. (...)

Articolo di Valerio Savio, giudice a Roma, pubblicato da Questione Giustizia lunedì 4 ottobre.
Link al video:
https://www.questionegiustizia.it/articolo/una-legge-che-s-ha-da-fare

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Un mare di vergogna, i video

Le due giornate di lavori, nelle registrazioni di Radio Radicale

Link ai video:
https://www.radioradicale.it/scheda/647871/
https://www.radioradicale.it/scheda/647872/

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La legislazione antimafia

L'intervento di Stefano Musolino al Restart di Roma (festival della creatività antimafia e dei diritti organizzato dall'associazione da Sud), nel confronto sulla legislazione antimafia.

Link al video:
https://www.facebook.com/apaccademia/
videos/1027447641361784

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MAGISTRATURA DEMOCRATICA
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