<html><head><meta http-equiv="Content-Type" content="text/html; charset=UTF-8" /></head><body style='font-size: 10pt'>
<p><span style="font-size: 12pt; color: #000080;"><strong>L'art. 20, d.p.r. n. 131/1986 e l’interpretazione degli atti sottoposti al registro: <em>The End!</em></strong></span></p>
<p><span style="font-size: 12pt; color: #000080;">di Giuseppe Melis </span></p>
<p class="text-justify" style="text-align: justify;"><span style="font-size: 12pt; color: #000080;"><strong><em> </em></strong><em>La tormentata vicenda dell’art. 20, d.p.r. n. 131/1986 (e dei suoi antecedenti storici, prima l’art. 19, d.p.r. n. 634/1972 e prima ancora l’art. 8, R.D. n. 3269/1923), giunge finalmente, a quasi un secolo dall’avvio del dibattito, ad una conclusione grazie alla precisa sentenza n. 158/2020 della Consulta, la quale ha negato che la modifica normativa recata dalla L. n. 205/2017, in specie consistente nella sostituzione del termine “atti” con “atto”, nell’esclusione della possibilità di riferirsi nell’interpretazione dell’atto ad elementi extratestuali e a negozi collegati (oltreché nel richiamo all’art. 10-bis, L. n. 212/2000), possa ritenersi in violazione degli artt. 3 e 53 Cost.. Si tratta, infatti, di modifiche che conformano l’imposta di registro alla sua tradizionale natura di imposta d’atto, senza che la diversa soluzione proposta dalla Cassazione possa considerarsi costituzionalmente necessitata. Grazie poi all’assist involontario – rivelatosi un boomerang – della suadente ipotesi di inammissibilità “interpretativa” prospettata dall’Avvocatura dello Stato, la Consulta preclude ulteriori fantasiose interpretazioni della modifica normativa, bollandole come interpretatio abrogans, consentendo così di ritenere attuale testo dell’art. 20 ormai assestato nel suo significato squisitamente letterale. Si ripercorrono, di seguito, i passaggi storici della vicenda, evidenziando, da un lato, come la soluzione normativa adottata sia quella più lineare possibile, anche in termini sistematici e concettuali, anche alla luce del coordinamento con il più generale istituto dell’abuso del diritto; e, dall’altro, come la certamente non impeccabile (ma efficace) formulazione finale sia dovuta a scelte “cautelative” chiaramente preordinate al sicuro raggiungimento del risultato perseguito, scelte peraltro rivelatesi, anche alla luce delle modalità con cui si è articolato l’ultimo round dinanzi alla Consulta, del tutto azzeccate.</em></span></p>
<p class="text-justify" style="text-align: justify;"><span style="font-size: 12pt; color: #000080;"><strong>Sommario.</strong> – 1. Le origini del dibattito. – 2. L’intervento “chiarificatore” (ma non abbastanza) del 1972. – 3. L’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 20 tra norma antielusiva e “causa in concreto”. – 4. Il nuovo intervento legislativo e la remissione della questione alla Consulta. – 5. La sentenza della Consulta che scrive la parola fine. </span></p>
<p><span style="font-family: arial, helvetica, sans-serif; font-size: 12pt; color: #000080;">https://www.giustiziainsieme.it/it/il-magistrato-3/1296-l-art-20-d-p-r-n-131-1986-e-l-interpretazione-degli-atti-sottoposti-al-registro-the-end</span></p>
</body></html>