Flessibilità e mutamenti del diritto del lavoro - Stefania Scarponi

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CONVEGNO FONDAZIONE VERARDI

 " DIRITTO DEL LAVORO DIGNITA' DELLA VITA"

 

FLESSIBILITA E MUTAMENTI DEL DIRITTO DEL LAVORO

Stefania Scarponi - Professore di Diritto del lavoro Università di Trento

1. All'origine della flessibilità nell'ordinamento giuridico del lavoro degli anni ottanta 

    Il termine "flessibilità" corrisponde all'esigenza di adattamento delle norme dei diritto del lavoro alla mutata condizione del mercato del lavoro ed alla transizione verso il modello di produzione  "postfordista",  avvenuta nel corso degli anni ottanta, in concomitanza con una  crisi economica ed occupazionale di ampie dimensioni. Mediante le riforme prefigurate a seguito del primo Protocollo di concertazione - c.d. Scotti - l'ordinamento ha assunto le caratteristiche del modello di "deregolamentazione controllata" ( Giugni 1992 ), caratterizzato dall'estensione delle fattispecie di contratti di lavoro "flessibili", come contratti diversi dal contratto a tempo pieno e a durata indeterminata, corrispondenti alla richiesta di flessibilità funzionale o interna - basata soprattutto sull'orario di lavoro  come per es. nel  rapporto a tempo parziale orizzontale, verticale o misto - e dalla flessibilità numerica o esterna - riferita a contratti di durata limitata nel tempo.  I contratti collettivi stipulati dai sindacati confederali maggiormente rappresentativi erano secondo tale modello la via per l'introduzione dell'entità di "flessibilità" richiesta dal mercato del lavoro, in rapporto alle esigenze delle imprese ed alla tutela dell'occupazione, assumendo funzione "qualificatoria" o "autorizzatoria" nei confronti delle parti individuali ( D'Antona 1991). L'esempio più chiaro di tale orientamento legislativo è costituito dal contratto di lavoro a tempo determinato, che in base all'art. 22 l.n. 56/87 era stato esteso oltre le ipotesi previste dalla legislazione a quelle ulteriori stabilite dalla contrattazione collettiva, cui si riteneva fosse attribuita una "delega in bianco" .  Il primato del contratto di lavoro a tempo indeterminato, in tale visione, non era posto in discussione come dimostrano alcuni fattori: la flessibilità "tipologica" era caratterizzata sia dal numero limitato delle fattispecie di contratto diverse dal contratto a tempo indeterminato, sia dalla previsione di clausole di conversione come sanzione e rimedio in caso di mancanza dei presupposti per la stipulazione del contratto "flessibile". Inoltre l'ampliamento delle forme di lavoro flessibile era spesso affiancato da misure d'incentivazione verso la trasformazione in contratti a tempo indeterminato, ed al mantenimento della tutela del licenziamento individuale secondo le regole della l.n. 108/90.

 Un altro tratto caratterizzante era costituito dalla ratio legislativa secondo la quale la "flessibilità" intesa come variazione dal regime del rapporto di lavoro "standard", doveva essere realizzata secondo forme e tecniche tali da corrispondere alle esigenze non soltanto delle imprese ma anche dei lavoratori.

   Un esempio particolarmente interessante della concezione ricordata è costituito dal regime applicato al rapporto di lavoro a tempo parziale, introdotto nel 1983,  che a fianco della libertà delle parti individuali nel determinare modalità di svolgimento del lavoro di tipo orizzontale, verticale o misto, ha previsto come necessari elementi del contratto individuale le indicazioni relative alla distribuzione dell'orario, e limiti alla sua variazione, per garantire la programmazione del tempo di lavoro e di non lavoro. Il valore di tale principio è stato sancito dalla Corte quale diritto fondamentale del lavoratore per salvaguardare la possibilità di dedicarsi ad altre occupazioni, oppure per conciliare il tempo di lavoro con la cura familiare, o ancora per reperire un'altra attività ad integrazione del reddito del lavoratore[1]. Tale principio si riallaccia all'affermazione della "qualità della vita" come principio giuridicamente rilevante, la cui pregnanza è stata riconfermata  nella D 97/81Ce e dal d.lgs. 61 /2001 di attuazione, pur se ispirato all'intento di aumentare i margini di flessibilità dell'orario[2], subito prima della revisione contenuta nella riforma del mercato del lavoro del 2003 ( Scarponi 2005 ). Per tali profili, la disciplina legislativa qui sinteticamente ricordata aveva riscosso la valutazione positiva della European Foundation for the improvement of living and working conditions nel rapporto del 2003 ( Villa 2005 ).

    Non va tuttavia trascurato, sotto il profilo della lenta erosione del sistema delineato, il fenomeno costituito dall'espandersi progressivo del rapporto di lavoro semiautonomo, mediante i contratti di "collaborazione coordinata e continuativa", riconducibili all'art.409 c.p.c., prive della maggior parte delle tutele previste per il rapporto di lavoro subordinato; esse  sono state intese da una parte della dottrina e del mondo politico come il modo attraverso il quale <<il mercato del lavoro intendeva superare le rigidità ed insufficienze delle regole del lavoro>>[3] .

 

  • 2. Il mutamento della concezione della flessibilità nelle riforme sul lavoro a termine, sull'orario di lavoro e sul mercato del lavoro e la successiva correzione dovuta alle più recenti modifiche

  La flessibilità acquisisce una nuova fisionomia nel corso della stagione di riforme avvenute in materia di lavoro a tempo determinato, d.lgs. n.308/2001, orario di lavoro d.lgs. 66/2003, e del mercato del lavoro,  legge - delega n.30/2003  e  d.lgs. n. 276/2003.

  La ratio ispiratrice è ricondotta all'esigenza di realizzare, in accordo con le politiche comunitarie emerse nel vertice di Lisbona, il "terzo pilastro" delle politiche di incremento occupazionale, ovvero quello della "flessibilità", inteso però dal legislatore italiano soprattutto come mera "adattabilità"alle variazioni del mercato ( Treu 2005, Caruso 2005 ).

   Nel modello di flessibilità che caratterizza l'assetto definito dalle riforme citate emergono alcuni mutamenti significativi  rispetto al quadro preesistente che la rendono profondamente diversa dal precedente modello di flessibilità "controllata" ( Ghezzi 2004; De Luca Tamajo, Rusciano, Zoppoli 2004; Pedrazzoli 2004 ) benchè alcune analisi abbiano sottolineato gli elementi di continuità con il passato ( Napoli 2004 ). Si tratta di modifiche che hanno subito, in alcuni casi, ulteriori cambiamenti sia con la legge finanziaria per il 2007, sia con la recentissima riforma dovuta alla legge finanziaria per il 2008,  l. n. 147 /2007, come si vedrà nella parte finale del presente scritto.

    Uno dei principali fattori caratterizzanti la politica legislativa concerne la volontà di liberalizzare maggiormente il ricorso alla flessibilità mediante.l'affievolimento della funzione  "qualificatoria" dei contratti collettivi. Ciò è particolarmente evidente nella disciplina del contratto di lavoro a termine, secondo il d.lgs. 308/01, che sostituisce la tecnica della definizione tassativa dei casi in cui è consentita la stipulazione del contratto e della delega alla contrattazione collettiva con il nuovo regime delle causali oggettive collegate a ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo la cui presenza autorizza comunque le parti individuali alla conclusione del contratto ( art. 1 Dlgs 381 ). Essa ammetteva altresì - prima della recente riforma del 2007 - la successione di contratti - purchè stipulati oltre l'intervallo minimo -  potenzialmente illimitata.

Altre conferme della diversa visione che impronta tale stagione legislativa si rintracciano nella riforma inerente l'orario di lavoro, secondo il d.l.gs  66/2003, che ha reso possibile una maggiore estensione della giornata lavorativa, nonché della durata dell'orario settimanale, e ha rende ammissibile l'esecuzione del lavoro straordinario anche sulla base del solo consenso individuale ove sia  mancante la disciplina di fonte negoziale collettiva ( art.5, c.3 ). Dello stesso segno si sono rivelate le modifiche introdotte nella disciplina del contratto di lavoro a tempo parziale, ora in parte riviste, dove l'aumento della flessibilità ha riguardato sia la variazione della collocazione dell'orario di lavoro  sia l'introduzione della elasticità della durata dell'orario, a scelta delle parti individuali in assenza di specifica disciplina discendente dalla contrattazione collettiva. 

   Se tale profilo ha acceso un ampio dibattito in dottrina, ancor più discusso è l'altro fattore di mutamento costituito dall'accentuarsi della flessibilità tipologica. Il decreto di riforma del mercato del lavoro ha aumentato a dismisura le fattispecie di contratto di lavoro a durata predeterminata, che come afferma la relazione alla legge, sono "lasciati disponibili" alle scelte dell'autonomia individuale. Le modifiche così introdotte, tuttavia, secondo l'avviso di larga parte della dottrina, non hanno rispettato il principio citato secondo il quale la flessibilità dovrebbe rispondere non solo alle esigenze del datore di lavoro ma anche del lavoratore, essendo improntata prevalentemente alla mera adattabilità dei contratti all'andamento variabile dell'impresa.

    Può essere utile fare una breve rassegna delle principali fattispecie di contratti di lavoro "flessibili" che, accanto al lavoro a termine ed al contratto di apprendistato, ben noti, e a cui si aggiunge il contratto di inserimento,  comprende altre ipotesi a cui corrispondono sovente statuti giuridici differenziati.

   a) nel contratto di lavoro somministrato tramite agenzia, il datore di lavoro si avvale dell'opera di lavoratori alle dipendenze dell'agenzia di somministrazione, che a sua volta può assumerli sia con contratto a termine sia con contratto a tempo indeterminato, sapendo però che la loro utilizzazione avviene di norma a tempo determinato, secondo lo schema del contratto di lavoro interinale abrogato. A tale istituto è stato affiancato il c.d. staff leasing, mediante il quale nei casi previsti il datore di lavoro dell'impresa utilizza a tempo indeterminato i lavoratori che restavano dipendenti dell'agenzia. Il ritorno al contratto a tempo indeterminato è stato così "compensato" dalla divaricazione che in tal modo separa stabilmente il soggetto che assume - l'agenzia -  da quello che utilizza la prestazione, e che solo con la recente riforma derivante dalla legge 247 del 2007  è stato abrogato[4].

 b) Un altro caso esemplare della nuova concezione di flessibilità riguarda  lo scorporo di una nuova fattispecie contrattuale dal lavoro a  tempo parziale -  denominato il lavoro intermittente o a chiamata - che in precedenza era ricondotta al medesimo regime e ritenuto illegittimo per contrasto con il principio di determinazione delle coordinate temporali di svolgimento della prestazione. La fattispecie - ora abrogata con l' art.1, c.46, l. n. 247/2007 -  consisteva nel contratto con cui il lavoratore accetta di porre a disposizione le proprie energie sulla base della mera chiamata del datore di lavoro, ed a cui corrisponde il diritto a percepire la retribuzione ed a maturare gli altri diritti relativi al rapporto di lavoro esclusivamente durante i periodi effettivi di lavoro, mentre nel periodo di attesa della chiamata - a cui si sia impegnato a rispondere - matura esclusivamente il diritto ad una indennità di disponibilità.

  Il contratto era stato particolarmente criticato da un lato per il rischio di forte incertezza sull'an e il quantum della prestazione, se il lavoratore accetta l'impegno di rispondere alla chiamata, e dall'altro per la diminuzione del complesso di diritti e tutele del lavoratore, essendo maturandi solo nei periodi di svolgimento effettivo della prestazione.[5] Pertanto la legge n. 247/2007 ne ha sancito l'abrogazione, in applicazione della corrispondente previsione contenuta nel Protocollo del luglio 2007, ai sensi dell'art.1, c. 45. L'esigenza di prestazioni a carattere discontinuo è stata accolta dal legislatore solo nei settori del turismo e dello spettacolo, che legittima la stipulazione di contratti a termine per prestazioni di breve durata, secondo le previsioni dei contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi,  da eseguire nei giorni festivi e nei week - end o durante le vacanze scolastiche. Viene così riattualizzata la tecnica del rinvio al contratto collettivo in funzione "autorizzatoria", oltre che per la disciplina del contratto in ogni caso subordinata all'applicazione del principio di parità di trattamento.  Si tratta comunque di contratti inquadrabili nella fattispecie del contratto a termine, come risulta dall'esplicito richiamo all'art.10, c. 1, d.lgs. n. 368/01.

c) La disciplina del lavoro a tempo parziale è indicativa di un altro fattore di mutamento rispetto al modello di flessibilità precedente sia per ciò che attiene alla capacità derogatoria riconosciuta all' autonomia individuale -  nel senso di ammettere che le parti del contratto introducano clausole di flessibilità dell'orario ( nel part-time orizzontale ) e di elasticità della durata (nel part-time verticale) anche in assenza di clausole corrispondenti della contrattazione collettiva -  sia per l'estensione dei margini di flessibilità in risposta ad esigenze organizzative, derivante dall'abrogazione della clausola di "ripensamento" e dall'obbligo di eseguire il lavoro straordinario se previsto dai contratti collettivi.

Anche tali modifiche hanno sollevato consistenti dubbi di legittimità per contrasto con il principio di non regresso nella trasposizione delle direttive europee ( Scarponi 2005 )  e indotto a rivederne la disciplina da parte della l.n. 247/2007[6] non solo per riconfermare il ruolo "autorizzatorio" dei contratti collettivi, ma anche per rafforzare la tutela individuale del lavoratore. La modifica delle condizioni temporali del rapporto è nuovamente condizionata dalla previsione da parte dei contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, ed inoltre è stato aumentato il periodo di preavviso della variazione oraria, oltre alla previsione di specifiche compensazioni secondo le condizioni stabilite dai contratti collettivi. Infine si è dato riconoscimento alle esigenze di cura ed assistenza familiare attraverso il diritto alla trasformazione del rapporto per la lavoratrice o il lavoratore in base alla gravità della condizione di malattia riguardante il coniuge o i figli o i genitori.

  

3.  La ratio della riforma del 2003 tra maggiore flessibilità tipologica del lavoro subordinato e l'eliminazione dell'uso improprio delle collaborazioni coordinate e continuative

 

       Occorre soffermarsi su alcuni interrogativi emergenti dal disegno di politica del diritto corrispondente alla descritta stagione legislativa, secondo la quale l'aumento della tipologia dei contratti di lavoro subordinato flessibile fa da contrappeso alla volontà di eliminare l'uso fraudolento dei rapporti di "collaborazioni coordinate e continuative" allo scopo di eludere l'applicazione delle tutele ed i maggiori costi del contratto di lavoro subordinato[7].  A tale finalità corrisponde per un verso la definizione del contratto di lavoro a progetto - introdotto con la riforma del 2003 - come fattispecie destinataria di alcune tutele minimali [8], e per altro verso la sanzione della "trasformazione" di tale contratto in un contratto di lavoro subordinato in mancanza dei presupposti formali determinati dalla legge.

  Sono emerse tuttavia in dottrina non poche opinioni critiche verso la correttezza di tale soluzione.  Si è dubitato anzitutto della qualità dirimente della mancanza del progetto - o programma di lavoro, o di fasi di esso -  in relazione alla usuale nozione di lavoro subordinato, che presuppone l'accertamento dei caratteri della subordinazione "tecnico funzionale" ( Pedrazzoli 2004). Per evitare dubbi di costituzionalità con riferimento agli artt. 3, e 41 Cost. si è prospettata la tesi che l'individuazione del progetto o programma di lavoro assuma natura di mera presunzione semplice che può essere vinta dalla prova in contrario fornita dal datore di lavoro, conclusione accolta dalla circolare interpretativa n.1/2004. A tale interpretazione si è adeguata la giurisprudenza, che ha seguito la tesi secondo la quale l'assenza o vaghezza del progetto o programma è da considerare quale presunzione solo relativa  della subordinazione, da accertare poi secondo gli usuali schemi di fonte giurisprudenziale[9]. Rimangono inoltre controversi i criteri a stregua dei quali valutare i contenuti del progetto o programma di lavoro ( se ed in che misura siano sufficientemente chiari e precisi, oppure se sia ammissibile una certa genericità ) ed anche la portata giuridica delle forme e dei modi con cui si realizza il coordinamento  tra lavoratore e datore di lavoro. Sotto questo profilo una delle questioni non pienamente risolte riguarda la rilevanza del coordinamento temporale, data l'ambiguità del contenuto dell'art. 62, c.1 lett.d), D.lgs 276/2003 che lo prevede come elemento indispensabile della fattispecie, ma al contempo afferma come necessaria la salvaguardia dell'autonomia nell'esecuzione lavorativa.

  Oltre le aporie delineate, resta sul piano teorico il dubbio che l'impostazione legislativa fondata sulla rigida dicotomia fra autonomia e subordinazione non sia più idonea ad affrontare il fenomeno complesso del lavoro semiautonomo; dubbio formulato nell'ampio dibattito intorno alla tutela del lavoro sans phrase emerso dalla fine degli anni ottanta e proseguito fino ad oggi ( D'Antona 1989, Supiot 2003, Alleva 2005, Mariucci 2005, Perulli 2006 ). Se si guarda al versante fattuale, la diminuzione spontanea dei contratti semi-autonomi non autentici è avvenuta soltanto in una percentuale di trasformazione delle co.co.co. pari ad 1/3 o 1/4 del totale, mentre la maggior parte  si è trasformata in contratti di lavoro autonomo. La proliferazione dei contratti " flessibili" ha subito, peraltro, un diverso grado di applicazione, poiché nei fatti alcuni di essi, come il lavoro somministrato, il lavoro intermittente, o il lavoro accessorio, hanno avuto scarsissima diffusione.

 

4.  Il ruolo della giurisprudenza a sostegno del primato del contratto a tempo indeterminato nel prisma del contratto a termine

 

        L'assetto complessivo assunto dalla disciplina dei contratti di lavoro flessibile ha sollevato l'interrogativo più generale se il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato abbia mantenuto il carattere di modello prevalente all'interno del nostro ordinamento. Tale interrogativo è stato alimentato anche dalla riforma della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, avvenuta con il d.lgs. 368/01, che parte della dottrina ha ritenuto finalizzata ad una maggiore liberalizzazione di tale istituto a tal punto da fargli perdere il connotato di eccezionalità rispetto al contratto a tempo indeterminato, assumendo così il significato di una riforma a carattere più generale dell'ordinamento lavoristico ( Montuschi 2003, Romei 2003, Santoro Passarelli 2003 ) . 

La riforma ha dato origine ad  ampia  giurisprudenza, che si è rivelata di notevole importanza   per la concettualizzazione della persistente rilevanza del contratto a tempo indeterminato.  

Tra le molteplici questioni poste dalla normativa modificata le più rilevanti al fine che qui interessa sono quelle riferite alla valutazione dei presupposti che legittimano le parti individuali alla conclusione del contratto.

L' orientamento prevalente è rigoroso nel riaffermare, pur di fronte al processo evolutivo, il principio secondo il quale il contratto a tempo determinato resta una "figura eccezionale" [10]  che si connota per la temporaneità della prestazione e della relativa esigenza che la sorregge.

Già secondo il precedente regime era stato affermato il principio secondo il quale tale caratteristica persiste anche nei casi individuati dalla contrattazione collettiva, come emerso in merito al caso "Poste Italiane, ove si è affermato un orientamento rigoroso sui presupposti legittimanti il ricorso a tale contratto, che impone l'adeguata specificazione delle esigenze dell'impresa e la prova della corrispondenza fra il ricorso al contratto a termine e le effettive esigenze di servizio[11], ed altresì che la conversione del contratto in uno a tempo indeterminato è il rimedio comunque applicabile[12].

   Il nuovo sistema derivante dalla riforma, che ha abrogato la disciplina precedente fondata su ipotesi tassative di derivazione legale o contrattuale - collettiva, ha indotto a riaffermare - a compensare la minor tutela del lavoratore -  l' importanza di un esame ancor più rigoroso da parte del giudice sulle ragioni giustificative inquadrabili nelle causali astratte, che devono essere specificate nel contratto individuale e devono avere natura oggettiva, oltre che carattere di temporaneità ( Cass. 13044/2003 )[13].

   Quest'ultima conclusione è stata argomentata in dottrina fondandosi su riferimenti a carattere sistematico fondate sul complesso della disciplina posta dal d.lgs. 381 / 2001[14], ed altresì in base al coordinamento con l'accordo - quadro europeo recepito dalla D. 1999/ 70 Ce, su cui ci si soffermerà nel prossimo paragrafo.

      

 

5. I limiti alla diffusione dei lavori "precari" derivanti dal coordinamento con il diritto comunitario

   

   L'esistenza di vincoli di sistema in combinazione tra diritto interno e comunitario, alla luce dei quali si può sostenere tuttora la persistenza del primato del contratto di lavoro a tempo indeterminato, è ancor più manifesta a seguito della giurisprudenza della CGE relativa  all'interpretazione dell'accordo quadro e della D.1999/70 Ce, secondo le sentenze Mangold e Adeneler[15], che sul punto assumono una notevole rilevanza.

   Uno dei profili principali che rilevano ai nostri fini concerne l'affermazione della CGE secondo la quale l'accordo - quadro europeo in materia di lavoro a tempo determinato recepito dalla D. 99/70 Ce, conferma nei "considerando" l'eccezionalità del ricorso a tale contratto, affermando ( p.6 ) che "i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorarne il rendimento". L'accordo inoltre impone all'art.3, c.1, la sussistenza di condizioni oggettive che ne legittimano la stipulazione, quali il raggiungimento di una certa data o il completamento di un compito o il verificarsi di un evento specifico".  Per ciò che attiene il requisito della temporaneità, la giurisprudenza della Corte di giustizia chiarisce che per tali ragioni obiettive si devono intendere "circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata attività tali da giustificare in tale particolare contesto l'utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi".

 L'eccezionalità del ricorso al lavoro a termine è stata riaffermata dalla sentenza della CGE Mangold censurando una legge tedesca che consentiva liberamente la stipulazione di contratti a tempo determinato nei confronti di lavoratori che avessero raggiunto una certa età, come misura di sostegno alla loro occupazione. La CGE ritiene che tale legge sia in contrasto anzitutto con la Direttiva in materia di lavoro a tempo determinato, per le argomentazioni appena richiamate, ma altresì con il divieto di discriminazioni in base all'età, secondo l'art. 6.c.1, D.2000/78 Ce, c.d. direttiva - quadro sul divieto. 

L'interpretazione della CGE  affronta per la prima volta la questione  posta dal perseguimento di legittimi obiettivi di espansione dell'occupazione, come quelli nei confronti dei lavoratori che abbiano superato una certa soglia di età, come eccezione legittima al divieto  di discriminazione.

  Ai nostri fini rileva che, pur senza escludere che tali politiche siano ammissibili, secondo la CGE ciò non è sufficiente a smentire il dubbio che il ricorso al contratto a tempo determinato si configuri come un fattore di discriminazione fra i lavoratori[16]. Principio affermato a stregua di criterio di ordine generale, ricollegabile a quello di proporzionalità, quale cardine della coerenza interna degli ordinamenti.

   La CGE definisce in tal modo la portata dei diritti fondamentali il cui riconoscimento è avvenuto con il Trattato di Amsterdam, aggiungendo un ulteriore tassello alla cornice valutativa da applicare nei confronti delle politiche di "flessibilità", fondata anche sui valori connessi alla dignità della persona. Trova conforto in tal modo l'approccio che parte della dottrina ha proposto nei confronti della riforma del mercato del lavoro, da valutare anche sotto il profilo del divieto di discriminazione che impone uno scrutinio rigoroso delle ragioni di politica sociale che ne derogano i contenuti ( Ballestrero  2005 ).

  Il confronto con la normativa comunitaria, condotto anche alla luce della clausola di non regresso, ha rinfocolato i motivi di dubbio sotto il profilo della legittimità di altre disposizioni proprie della legislazione italiana in materia di contratto di lavoro a tempo determinato, già segnalati dalla dottrina.  

 Tra le questioni più discusse, e rilevanti sotto il profilo della precarietà del rapporto di lavoro -  vi è quella che riguarda il regime delle proroghe del contratto individuale a termine e la  illimitata possibilità dei rinnovi, se avvengano nel rispetto di intervalli di 10 o 20 gg. a seconda della durata del rapporto iniziale. In merito soccorre la sentenza della CGE Adelener,  che ha escluso la conformità alla normativa comunitaria di una legge greca che ammetteva la possibilità di rinnovare il contratto a tempo determinato se fosse rispettato un intervallo minimo di almeno 20 gg tra un contatto e quello successivo. La sentenza riafferma il principio secondo il quale << l'Accordo - quadro intende delimitare il ripetuto ricorso al contratto a termine, considerato come fonte di potenziale abuso nei confronti dei lavoratori, prevedendo un certo numero di disposizioni di tutela minima, onde evitare la precarizzazione dei lavoratori ( p.63 ) >>. Inoltre precisa il significato da attribuire al termine "successivi" relativo ai contratti a termine di cui all'art. 5 dell'Accordo - quadro, nel senso che  <<il mero requisito dell'intervallo di 20 gg fra un contratto e la successiva stipula di un altro si pone in contrasto con l'obiettivo del diritto comunitario, in quanto permette di reiterare senza limiti il contratto a termine, ammettendo l'assunzione  precaria per anni, poiché nella pratica il lavoratore non avrebbe altra scelta che accettare le assunzioni successive intervallate da 20 giorni>>.

  Le restrizioni descritte hanno sollecitato la riforma della normativa interna in modo da superare le disposizioni in materia, artt. 4 e 5 d.lgs. 368/01, a mente dei quali la conversione del contratto è ammessa solo se i contratti successivi non rispettano l'intervallo dei 10 o 20 gg. a seconda della durata del contratto a termine iniziale, senza considerare la loro durata complessiva e neppure la possibilità che sopperiscano ad esigenze non a carattere temporaneo dell'impresa, bensì persistenti e durature ( Foglia 2006;  Menghini 2006 ).

      La giurisprudenza citata affronta anche l'ulteriore nodo interpretativo che attiene alle conseguenze derivanti sul piano rimediale dal mancato rispetto dei presupposti legittimanti del contratto a termine, quesito che ha dato origine nel nostro ordinamento ad orientamenti opposti[17]   In tema, la pronuncia della CGE interpretando la Direttiva citata afferma che, pur non essendo indispensabile per gli ordinamenti degli Stati membri prevedere come sanzione la conversione in un contratto a tempo indeterminato, occorre rispettare il disposto dell'art.5 dell'accordo - quadro, e prescrivere una soluzione che sia atta a prevenire gli abusi nel ricorso a tale tipo di contratto. Pertanto gli Stati nazionali sono tenuti ad <<introdurre o mantenere misure che siano non soltanto proporzionate, ma altresì efficaci e dissuasive e non meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe nel diritto interno, né tali da rendere eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento comunitario>>[18].

I principi così enunciati confermano che la soluzione più convincente in caso di conclusione del contratto in violazione dei presupposti oggettivi previsti per legge è quella che pone l'accento sull'inefficacia della clausola del termine.  Di conseguenza, in base al principio d'indisponibilità del tipo contrattuale, viene in luce in modo preminente il profilo di tipo "qualificatorio" del contratto di lavoro secondo le caratteristiche di indisponibilità del tipo contrattuale proprie del nostro ordinamento, profilo che si applica anche ai contratti a disciplina speciale, permettendo di superare anche il problema dell'essenzialità o meno della clausola nulla e delle sue conseguenze ( Foglia 2006), e di sostenere nel caso in questione la sussistenza del contratto a tempo indeterminato ( Ciucciovino 2002 ).

 

 

Conclusioni. La recentissima legge n.247/ 2008 mette la parola fine?

    

    La più recente stagione di riforme, avviata con la legge finanziaria del 2007 e proseguita con la conclusione del protocollo sul Welfare tra Governo e OO.SS. del 23 luglio 2007 e la legge n.247/ 2008, è intervenuta a correggere le più forti perplessità suscitate dalla normativa descritta mostrando maggiore attenzione all'esigenza di contrastare la precarietà dei rapporti di lavoro. Oltre alle modifiche in materia di lavoro intermittente, di contratto a tempo parziale e che si aggiungono a quelle sul lavoro a progetto, sopra ricordate, è stata rivista la disciplina del lavoro a termine.

Rispetto alle questioni appena esaminate, assume rilievo sia l'introduzione all'art.1. del d.lgs. 368/2001 dell'affermazione secondo la quale << il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato >>, che riproduce il testo della direttiva europea e ribadisce la concezione "eccezionale" del contratto a termine; sia la modifica dell'art. 5 dello stesso decreto mediante il nuovo comma 4-bis, che stabilisce la durata massima del rapporto in 36 mesi, pena la sanzione della conversione del rapporto ex nunc.  Esiste tuttavia la possibilità di derogare a tale principio, sia pure per una volta soltanto, a condizione del rispetto della procedura consistente nell'autonomia individuale assistita avanti alla Direzione provinciale del lavoro, che attenua la soggezione del lavoratore ed attesta l'autenticità del consenso.  Il disegno di legge non prevedeva la durata massima dei contratti successivi ammettendo così il prolungamento della situazione di precarietà per una durata di tempo non indifferente, anche se non illimitata, e sollevava innegabili dubbi di conformità all'orientamento espresso dalla CGE.  Nel testo finale della legge, il termine massimo è rinviato agli avvisi comuni dei sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, soluzione che evita il proliferare del rapporto a termine senza limite alcuno, ma senza prefissare in termini generali quale esso sia.  

Emerge in tal modo dal provvedimento legislativo la volontà di superare le aporie più evidenti rispetto al diritto comunitario, e di ripristinare la tecnica della deregolamentazione controllata ma anche una concezione ambigua del contratto a termine, che non impedisce il suo protrarsi nel tempo anche per lunghi periodi. Ciò potrebbe imputarsi al fatto che nel contratto a termine durante il suo svolgimento, la stabilità per il lavoratore è assicurata, essendo applicabile solo il licenziamento per giusta causa. Non sono fugati tuttavia i dubbi derivanti dallo stato di precarietà che si realizza in tal modo ed il rischio di porsi in aperto contrasto con l'assetto affermato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.  Oltre all'ovvio richiamo affinché anche le organizzazioni sindacali nella loro attività tengano conto di tali principi, resta da chiedersi se la soluzione sia veramente adeguata sotto il profilo tecnico della corretta trasposizione della direttiva, a causa dell'assenza di limiti certi al  prolungamento dello stato di precarietà.

Sotto il profilo più generale di politica del diritto, concentrarsi unicamente sulle regole in materia di contratto a termine non è sufficiente, ad ogni buon conto, per introdurre correttivi efficaci al rischio di precarietà nel lavoro, poiché, come oramai noto, esso dipende da fattori a carattere più generale. Si è cercato di dimostrare in questa riflessione come la molteplicità di fattispecie di lavoro a durata prefissata nell'ambito del lavoro subordinato, cui si somma quella del lavoro para - subordinato, a sua volta reiterabile nel tempo, accentua l'effetto sistemico dato dalla possibilità di ricorrere progressivamente all'ampia gamma di contratti "flessibili" previsti dal nostro ordinamento, creando un circuito da cui può essere estremamente difficoltoso uscire.

    E' importante ricordare che evitare la proliferazione di regimi giuridici eccessivamente disarticolati, o la riduzione secca di tutele fondamentali, è proprio anche del modello comunitario di politica sociale, tenuto conto che il riconoscimento degli standards di tutela sociale è concepito come un incentivo al funzionamento del mercato e non una sua distorsione. Come affermava significativamente Giorgio Ghezzi ( Ghezzi 2004 ) nella premessa al volume di commento alla riforma del mercato del lavoro, "occorre condurre un'azione di contrasto ad interpretazioni tendenti ad ampliare le emergenti pulsioni di ulteriori polverizzazioni delle tutele e delle garanzie, e quindi, all'estensione della precarizzazione dei rapporti di lavoro, veicolo come essa è di concezioni mercificanti del lavoro stesso".

 

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[1] C. Cost. 290 /1992

[2] Quest'ultimo provvedimento, pur ammettendo maggiori margini di variazione dell'orario e di ricorso al lavoro supplementare, aveva tuttavia posto la doppia condizione del consenso preventivo dei sindacati comparativamente più rappresentativi, quali soggetti idonei a stabilire il giusto bilanciamento con le esigenze occupazionali, e del consenso individuale a tutela delle preferenze soggettive, secondo il meccanismo definito della "doppia chiave" di accesso alla flessibilità del tempo di lavoro, ed accompagnato dalla clausola di ripensamento quale garanzia delle esigenze del lavoratore - o più spesso della lavoratrice.

[3] Dalla Relazione al d.lgs. n.276 del 2003, Riforma del mercato del lavoro.

[4] Art. 1, c. 46, l. n. 247/2007

[5]  Un profilo discusso concerne la definizione del campo di applicazione della disciplina,  oggetto di rinvio alla contrattazione collettiva, ma significativamente corretto dalla competenza riservata a Ministro del Lavoro di emanare un decreto sostitutivo, con consistenti dubbi di violazione della libertà sindacale. Il DM 23 ottobre 2004 emanato in assenza di disciplina collettiva fa riferimento alle ipotesi già previste dal RDL 2657/1923 come lavoro discontinuo, così estrapolate dal campo di applicazione delle norme sul contratto a tempo indeterminato. In ogni caso il contratto di lavoro intermittente era destinato ad essere liberamente stipulato dai soggetti che hanno meno di 25 anni, oppure più di 45, senza restrizioni di sorta.

 

[6] Si tratta della disposizione di cui all'art.1, c. 44 che modifica il contenuto del d.lgs. n. 61 /2001 di trasposizione della direttiva europea in materia, già modificata dall'art.46 d.lgs. n. 276/2003

[7]              La differenza dell'onere contributivo è stata ridotta con la Legge finanziaria .n. 296/2006, che ha innalzato il contributo previdenziale del lavoro a progetto dal 18% al 23%, rispetto al 32% del rapporto di lavoro subordinato.

[8]    La disciplina è stata leggermente migliorata con la legge finanziaria .n.206 /2006 che ha stabilito il diritto a percepire l'indennità di malattia, che prevede tuttavia l'assenza di soli 30 gg. se il contratto è a durata determinabile e di 1/6 in caso di durata determinata, ma senza diritto alla proroga del rapporto.  Inoltre ha introdotto il diritto ai congedi parentali per 3 mesi, oltre alla tutela della maternità già riconosciuta per 180 gg. con proroga del rapporto di lavoro, nonché il diritto alla retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro, secondo i parametri non più desumibili da quelli applicati al lavoro autonomo o dagli usi locali, ma di quelli stabiliti dei contratti collettivi nazionali.

[9] T. Torino 5 .4.2005, in RIDL 2005, con nota di Filì;  T. Ravenna 15.10.2005 in DRI 2006 n.2; T. Milano  10.11.2005 in RIDL 2006, n.2;  T. Modena 21.02.2006 in Boll. Adapt 2004, n.17.

 

[10] Cass n. 18354/2003, Cass n. 7468/2002.

[11]   E' stato considerato generico, per es., il mero riferimento a processi di riorganizzazione, ed insufficiente far riferimento alle esigenze determinate dalle assenze per ferie, in assenza di riscontro tra l'esigenza nomativamente prevista e l'utilizzazione del lavoratore ( Cass. 4862/2005 e  5000/2005 ). Infine è stato giudicato controverso considerare a stregua di fatto notorio l'aumento del traffico durante il periodo natalizio, ed  in ipotesi lo si ritenga tale,  si richiede comunque la prova circa il numero di assunzioni a termine necessarie.

[12] Cass. SU 10343/2003,   Cass. 26989/2005; 26679/2005; 26677/2005; 9067/2005, in RGL 2006, II,  con nota di Menghini

[13] Seguendo tale iter argomentativo la giurisprudenza formatasi sulla base del contenzioso "Poste italiane" ha di recente conosciuto ulteriori sviluppi.  T. Firenze 5.2.2004 in D&L 2004, 235; T. Firenze 30.12.2004 in Or. giur. lav. 2005, 422, T. Catania 25.1.2006, RGL News n.1, p.21,  hanno asserito l'illegittimità del contratto a termine concluso sulla base della giustificazioni fondate sulla mera "ratione temporis", poiché, trattandosi di un'ipotesi "acausale", risulta in contrasto con il quadro di diritto interno ed altresì con quello comunitario che prevede quali requisiti il verificarsi di ragioni oggettive. Il requisito della temporaneità non è dunque una ragione sufficiente pur se considerata necessaria

[14]    Il primo contratto a termine deve essere anch'esso assistito da ragioni di carattere non solo oggettivo ma anche temporaneo poichè che se ciò non fosse, e fosse possibile assumere a termine anche per far fronte ad esigenze indeterminate nel tempo, non avrebbero alcun senso i limiti legali posti in merito alle proroghe nel tempo ( art. 4 ), alla possibilità di prosecuzione del rapporto oltre la scadenza del termine, nonché alla riassunzione successiva alla scadenza.  Per un recente riepilogo sul tema v. Menghini 2006, cit. p.705. L'A. ammette tuttavia che la temporaneità non sia intrinseca all'attività dedotta in contratto, ma possa derivare anche da scelte organizzative del datore di lavoro e non richieda anche i caratteri di straordinarietà ed occasionalità che invece una parte della giurisprudenza ha ritenuto imprescindibile ( cfr Cass. Sez. lav.  3005/2005 e  C.App. Firenze 11.7.2006 n.959, in RGL 2007, II, 459 ).

 

[15] CGE 22. 11. 2005  C - 144/04 Mangold , in RGL 2006, II, 205; CGE 4.7. 2006 C-212/04 Adeneler, in RGL 2006, II, 601

[16]  La CGE afferma che la disposizione impone di " considerare in contrasto con il principio di parità di trattamento  una  normativa ( come quella sottoposta al suo giudizio ) senza che sia stato dimostrato che la fissazione di un limite di età, in quanto tale, indipendentemente da ogni altra considerazione legata alla struttura del mercato del lavoro di cui trattasi e della situazione personale dell'interessato, sia obiettivamente necessaria per la realizzazione dell'obiettivo dell'inserimento professionale di anziani in disoccupazione, deve considerarsi eccedente quanto previsto dalla direttiva." 

[17]             Secondo un orientamento la nullità della clausola renderebbe applicabile l'arti. 1419, c.1,  in quanto  non sarebbe più rinvenibile nel nuovo regime del d.lgs. n. 368/01 la norma imperativa che implicava la sostituzione di diritto della clausola invalida. Pertanto dalla nullità della sola clausola si potrebbe arrivare alla nullità dell'intero contratto in considerazione della possibilità per il datore di lavoro di allegare e comprovare di non aver voluto concludere il contratto senza la clausola concernente il termine. Peraltro la tesi si fonda anche sul preteso venir meno del principio del prototipo normativo del contratto a tempo indeterminato, ora smentito dalla giurisprudenza comunitaria.. In senso contrario si è utilizzato sia l'argomento sistematico a fortiori  - basato sulla previsione della conversione in caso di violazione dei requisiti formali del contratto e in caso di violazione delle norme relative alla successione -  nonché il principio di non applicazione dell'art.1419, c.1 nel caso in cui la nullità della clausola derivi dalla contrarietà a norme imperative a tutela del lavoratore, secondo l'orientamento espresso dalla Corte costituzionale in  materia di lavoro a tempo parziale ( C. Cost. 1992 11 maggio 1992 ). Più di recente ( C. Cost. 283/2005), ancora con riferimento al rapporto a tempo parziale il giudice delle leggi ha ribadito che - per stabilire se la nullità della clausola comporta la nullità dell'intero contratto o invece non influisce ed anzi comporta la sua conservazione - occorre stabilirne l'essenzialità alla luce dell'assetto di interessi con esso perseguiti, affermando l'applicazione del criterio soggettivo ( solo se entrambe le parti non avrebbero concluso il contratto senza la clausola di riduzione dell'orario )

[18]             CGE Adeneler, cit. p. 94 - 95. Una particolare eccezione in proposito è stata affrontata con CGE 7.9.2006 C - 180/04 Vassallo relativa al settore pubblico. Il contenzioso ivi sorto si avvia a trovare soluzione nel senso che l'impedimento alla conversione del contratto derivante dalla disposizione di legge, ritenuta conforme al principio di buon andamento stabilito dall'art.97, 2 c. Cost.  da  C.Cost. 13.3. 2003 n.89 in FI 2003, I, 2258, non è ritenuta in contrasto con il diritto comunitario se vi sia un'altra misura effettiva destinata ad evitare e se del caso sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato, che implica l'applicazione di un congruo risarcimento del danno secondo i parametri comunitari. Di recente si è applicato il criterio  di 20 mensilità di retribuzione.

Stefania Scarponi - Professore di Diritto del lavoro Università di Trento

29 02 2008
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