In qualità di Presidente del Consiglio nazionale forense, organo di rappresentanza istituzionale dell’Avvocatura, intendo porgere un cordiale saluto e il sincero augurio che questo Congresso possa rappresentare un utile momento di confronto interno ma anche un valido contributo nell’interesse della giustizia. E' un indirizzo di saluto che non vuole essere meramente formale, poich il clima di tensioni che da tempo vive il Paese esclude le vane ritualità, ed esige invece assunzione di piene responsabilità.
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Le mie prime riflessioni sono sulle leggi e sull’ attività del legislatore.
Certo, in una società perfetta (una società immaginaria) di leggi, di giudici e di avvocati non vi è neppure bisogno. Così è, ad esempio, nel regno di UTOPIA, dove le leggi sono minime, perch ad un popolo bene organizzato ne bastano pochissime, e i giudici e gli avvocati non servono (T. MORE, Utopia, 1516); e così è anche nella Città del Sole (nell’isola Taprobane), poich in questo paese "non si scrive processo, ma in presenza del giudice e del Potestà si dice il pro e il contra; e subito si condanna dal giudice; e poi dal Sole il terzo dì si condanna o s’aggrazia dopo molti dì con il consenso del popolo. Le leggi son pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla porta del tempio" (T. CAMPANELLA, La città del Sole, 1602).
Si comprende dunque, molto facilmente, come non possa essere di per s perfetta una società che ha centinaia di migliaia di leggi e milioni di processi e tempi biblici per risolverli.
E’ un fenomeno generalizzato nei giorni attuali e in molti paesi (nei quali si parla di esplosione della litigiosità), ed è un fenomeno che richiama una metafora "La giustizia in parcheggio" (è in realtà un episodio realmente accaduto quando un giudice ebbe a rinviare una causa di oltre 5 mesi per "difficoltà di parcheggio"), per indicare che la giustizia è accantonata, tra tempi morti e superflui, in un’attesa senza fine.
Per sorreggere la giustizia occorrono dunque le leggi: leggi semplici, ben scritte, per dare certezze ai diritti.
E invece! Le leggi sono innumerevoli (e innumerabili: qualche centinaia di migliaia), accresciute da moltiplicatori senza fine. E’ stato rilevato ad esempio che nella XIII legislatura (apertasi con le elezioni del 1996), il 65,52% degli interventi legislativi "riguarda modifiche o proroghe di disposizioni vigenti" (L. VIOLANTE, L’Italia dopo il 1999, Milano, 1998).
Poi vi sono le leggi monstre, con pochi articoli ma con centinaia di commi, che nascono molto spesso per improvvisazione (viene aggiunto un ennesimo comma a una legge generale, che contempla e disciplina altri eventi: ad esempio i commi 113 e 114 dell’art. 17 della legge 15 maggio 1997, n. 127, che introducono le scuole di specializzazione per magistrati, avvocati e notai, nell’ambito delle "misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo").
E ancora vi sono leggi che rinviano a regolamenti o decreti che dovrebbero meglio precisare i contenuti dei vari articoli (nell’ultimo disegno di legge sull’ordinamento forense si fa rinvio ad emanandi regolamenti per ben 18 volte, mentre nell’art. 24 della legge 7 agosto 1997, n. 266, si abolisce il divieto di costituire società, ma si demanda a un decreto ministeriale mai emanato di fissare i requisiti per l’esercizio dell’attività in società); oppure ancora vengono richieste e rilasciate deleghe al governo, nella incapacità o impossibilità palesata dai proponenti di definire a priori le scelte (e quindi nella prospettiva di negoziare successivamente il contenuto delle norme).
Se poi si pensa che è scoppiato anche lo scandalo dei voti dati dal parlamento (i c.d. onorevoli-pianisti, che votano per i colleghi di partito assenti, secondo una pratica da tempo invalsa e mai sufficientemente stigmatizzata), è certo che anche in questo caso un richiamo alla correttezza dei comportamenti sarebbe doveroso.
Non pare improprio, a questo punto, esprimere formale disapprovazione per questo modo di legiferare, e richiamare la necessità di un’etica anche per il legislatore, un’etica che dovrebbe essere imposta per il rispetto della funzione normativa svolta.
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Una seconda osservazione riguarda i contrasti che intervengono sulla giustizia, tra i politici delle opposte fazioni, e di volta in volta anche tra i magistrati e i politici, tanto pi quando vengono emanate leggi che (si assume) intendono assecondare interessi particolari e contingenti (o almeno ritenuti tali).
Questo fenomeno ha provocato liti e tensioni sulla giustizia, tutti ritenendosi portatori delle ideologie sufficienti per legittimarsi al di sopra degli altri e tutti contribuendo in tal modo ad accrescere le divisioni e i contrasti. Così, ogni caso giudiziario e ogni iniziativa legislativa sono stati presi a pretesto per contrapposte valutazioni e l’opinione pubblica è stata continuamente sollecitata e frastornata da giudizi per lo pi personali e atecnici, persino confondendosi soggetti e funzioni. Se il paragone non fosse irriverente (lo ricorda J. HUIZINGA, Homo ludens, 1938), si dovrebbe richiamare il processo degli esquimesi che, "quando vogliono sporgere una querela contro un altro, lo sfidano a una gara di tamburi", e vince chi rumoreggia di pi (mentre le competizioni durano anni)!
In questo contesto, sufficientemente critico per la giustizia, l’avvocatura ritiene che si debbano porre dei rimedi, cominciando anzitutto a riportare il dibattito nelle pi corrette proporzioni, ed eliminando tensioni e accuse totalmente estranee alla ricerca delle soluzioni possibili.
Così in particolare, per quanto riguarda i contrasti che sono sorti e sorgono in occasione di ogni iniziativa parlamentare, come di ogni decisione giudiziaria, dobbiamo insistere perch vengano distinte le funzioni dai soggetti che le svolgono, e le critiche siano riservate, quando necessario, ai soggetti che possono essere perfettibili o ai singoli casi giudiziari che possono essere oggetto di revisione, ma non alle funzioni svolte che debbono essere difese da tutti. Non si possono fare generalizzazioni o accusare un intero corpo professionale per soli limitati episodi. E la funzione giurisdizionale soprattutto deve essere difesa da ogni attacco, essendo per eccellenza presidio del valore dello Stato.
E’ quindi necessario che tutti gli operatori della giustizia, politici, magistrati e avvocati, abbandonino i toni gravi e i risentimenti ingiustificati che turbano i rapporti interpersonali e impediscono la progressione e l’aggiornamento delle leggi, per ritrovare nella concordia degli strumenti tecnici e delle capacità tecniche di cui dispongono il metodo per sconfiggere i mali: le malattie non si combattono con le parole (penso alle lungaggini dei processi), ma con grandi e utili ricerche, nel solo interesse del bene pubblico (penso alle soluzioni concrete che attendono specifici interventi).
Non è solo infatti il fair-play costituzionale necessario in questi contesti (è un richiamo del prof. CONSO), ma è anche il senso del limite e della lealtà che dovrebbe essere osservato: quale modello di senso di giustizia, invero, può essere dato al cittadino, se il contesto è quello pieno di contrasti che abbiamo pur sommariamente delineato?
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Vi è poi la durata dei processi. Su questo punto vi è concordia di opinioni, poich lo Stato italiano ha battuto tutti i primati avanti la Corte europea dei diritti dell’uomo, con centinaia di casi affrontati e miliardi di spese sostenute.
La cosa curiosa è che, per tentare di limitare il danno anche di immagine derivato dalla realtà giudiziaria, è nata la legge n. 89 del 2001 (c.d. legge PINTO) che consente di agire avanti la Corte d’appello per ottenere il risarcimento del danno, precludendo l’iniziativa avanti la Corte europea. Al di là poi dell’ulteriore proposta formulata di imporre un pre-tentativo obbligatorio di conciliazione (proposta non portata ad attuazione), resta il fatto che, con la legge indicata, il legislatore italiano si è preoccupato di limitare gli effetti delle distorsioni giudiziarie, senza operare sulle cause. E’ come se, per sopperire alla mancanza di scuole o alla mancanza di ospedali, venisse offerta una somma di denaro ad ogni analfabeta o ad ogni persona ammalata!
Certo non sono mancate e non mancano le iniziative, n è mancato il fatto lodevolissimo di introdurre la "durata ragionevole del processo" tra i principi sanciti dal nuovo assetto costituzionale. Ma è ancora prematuro pensare che questo male così diffuso sia stato vinto o quanto meno se ne sia limitata la gravità.
In effetti, i dati che pi colpiscono, anno dopo anno, sono quelli numerici: sono dichiarati pendenti in primo grado 3,1 milioni di procedimenti civili (tra giudici di pace e giudici di tribunale), cui si debbono aggiungere i procedimenti in grado di appello, quelli avanti i giudici del lavoro (1 milione di procedimenti) e quelli in materia di famiglia e avanti la Corte di Cassazione (indicati questi ultimi nel numero di 76.478). Poi vi sono i processi penali pendenti (circa 6 milioni), con le varie distinzioni proposte. Per tutti sono indicati i tempi (sono tempi biblici) per arrivare a una decisione!
E’ la fotografia di un dissesto, tanto pi grave se si pensa che tutto il contenzioso arretrato è stato azzerato nel 1997 con la creazione delle sezioni-stralcio e dei G.O.A. (giudici onorari aggregati), e che in pochi anni la litigiosità è esplosa nuovamente in termini inaccettabili. Tanto pi grave ancora se si pensa che la durata ragionevole del processo” è oggi un principio costituzionale che deve essere garantito, come presidio del corretto espletamento della funzione giurisdizionale.
E’ dunque incomprensibile come si possano continuare a privilegiare interventi parziali e settoriali, senza prendere in esame l’intera struttura dei processi, per prospettare soluzioni o rimedi tecnicamente e concretamente possibili.
Sotto questo profilo la relazione sull’amministrazione della giustizia nella inaugurazione dell’anno giudiziario 2003 descrive analiticamente i problemi esistenti, ma non incoraggia a individuare e perseguire i possibili rimedi, tanto pi che i dati sono quelli riferiti al giugno 2002, e vi è da credere che gli stessi numeri siano già virtualmente acquisiti per il prossimo anno.
Se così è, occorrerebbe abbandonare le visuali parziali e settoriali e indagare la natura dei tempi (tempi atecnici, tempi inutili, tempi morti) e ricercare le possibili soluzioni. Così in particolare occorrerebbe aumentare il numero dei magistrati, risolvere il problema della magistratura onoraria, aumentare la competenza dei giudici di pace, semplificare le procedure all’interno del processo (evitando che nel processo si instaurino altri procedimenti esiziali per la conclusione del primo), accelerare l’adozione degli strumenti informatici (con tutti gli stanziamenti necessari), consentire motivazioni succinte (quando si accompagni un’alta professionalità nella formazione e nell’aggiornamento dei magistrati), colpire le liti temerarie (applicando le disposizioni già esistenti: gli artt. 88 e 96 del codice di procedura civile, ad esempio), prevedere riti alternativi (quando sia assicurata una analoga durata con i giudizi ordinari), assicurare l’espletamento sollecito dei giudizi in tema di famiglia e di lavoro (con strutture e personale adeguati), privilegiare l’attività di consulenza riservata agli avvocati rispetto all’attività contenziosa, e altro ancora che è oggetto di attenzione e di studio.
Come metodo da adottare, poi, dovrebbero essere abbandonate le mere posizioni di principio (un esempio per tutti: la separazione delle carriere o delle funzioni che in nessun modo - comunque - dovrebbero toccare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati), e dovrebbero essere formulate proposte operative, tanti "articolati" su cui confrontare le conseguenze possibili sul piano tecnico, per ritrovare ottimisticamente una soluzione accettabile per tutti.
Sono queste alcune proposte concrete, su cui dovrebbero confrontarsi tutti gli operatori della giustizia, politici, magistrati e avvocati, in un tavolo comune, che voglia arrivare a invertire la tendenza in atto il pi celermente possibile.
Forse nessuno si sente particolarmente responsabile per la situazione disastrosa in cui ci troviamo (risalendo le colpe nel tempo e ognuno cercando di trasferirle ad altri); ma tutti siamo sicuramente responsabili – secondo la graduazione del potere che abbiamo - se non facciamo nulla per tutelare il diritto dei cittadini e il principio costituzionale sulla ragionevole durata dei processi.
E’ questo il compito, l’unico compito che dovrebbe essere raccomandato per il nuovo anno che ci attende. -
In verità non è mai sopita l’idea che gli avvocati siano responsabili o corresponsabili in grande misura della abdicazione della giustizia civile alla sua funzione, e quindi tocchi anche agli stessi darsi carico dei rimedi necessari.
Peraltro è certo che i ritardi della giustizia non possono dipendere dagli avvocati, per almeno tre fondamentali considerazioni:
- se tutti gli avvocati, improvvisamente, chiedessero provvedimenti istruttori o decisori per le cause in corso (rifiutando meri rinvii), la giustizia sarebbe al collasso totale. Per fare un esempio, se gli avvocati chiedessero la decisione immediata di tutte le cause pendenti, rinunciando ai rinvii, il ruolo di ciascun giudice potrebbe essere esaurito soltanto in alcuni decenni, e naturalmente non dovrebbero sopravvenire ulteriori fascicoli! La richiesta di rinvio, dunque, diventa inconsciamente il mezzo per distribuire e alleggerire la funzione giudiziaria;
- ma non solo. Nessun avvocato si è mai lamentato della lunghezza del processo, quando questa dipenda dalle richieste formulate di rinvio. Che poi queste richieste assolvano a ragioni effettive nell’interesse delle parti (il tentativo di una composizione amichevole, ad esempio), ovvero dipendano da comportamenti degli avvocati, è certo che in nessun modo le richieste di rinvio formulate dagli avvocati potrebbero addebitarsi ai magistrati. Ma è il contrario che si verifica, ed è all’ufficio che devono addebitarsi i tempi dei rinvii, quando l’uno o l’altro degli avvocati chieda una urgente decisione, e i giudici non siano in grado di soddisfare queste richieste!
- un’ulteriore riprova della scarsa partecipazione degli avvocati ai ritardi endemici della giustizia, è data dal giudizio in Cassazione. In questo caso l’avvocato ha il termine di 60 giorni per redigere e notificare il ricorso, e null’altro può fare successivamente se non attendere alcuni anni per la decisione e altri anni per la pubblicazione della sentenza e molti mesi ancora per il ritiro del fascicolo: laddove è evidente che in questo giudizio, ove non vi è alcuna attività da compiere n alcuna iniziativa da assumere, i tempi lunghi dipendono esclusivamente dai giudici e dalle strutture. Lo stesso accade nel processo del lavoro (e tanto pi grave è questo amaro riscontro), quando si constata che le udienze vengono fissate ad anni di distanza.
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Vi sono poi alcuni problemi particolari, che toccano l’attività degli avvocati e la gestione del processo. Vi sono state in questi ultimi tempi diverse critiche, per la denunciata commistione tra funzioni difensive e funzioni parlamentari o governative, e anche in questo caso le contrapposte valutazioni non hanno consentito il necessario chiarimento.
E’ utile pertanto ribadire che su questo punto non sono ammesse incertezze, e le regole debbono garantire la corretta gestione del processo, ad evitare illazioni sul comportamento della difesa, dannose di per se stesse per l’immagine dell’avvocatura, da qualunque parte esse provengano.
Occorre dunque rispettare le regole di incompatibilità e quelle sul conflitto di interessi, che il Consiglio nazionale forense ha recentemente precisato, con la modifica dell’art. 37 del codice deontologico, imponendo all’avvocato di astenersi quando l’attività difensiva interferisca comunque con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale (con ciò facendosi rientrare nella posizione di "conflitto" non solo funzioni utilizzate per contrastare interessi, ma anche per favorirli, e quindi ricomprendendosi nel dovere di astensione ogni ipotesi di interferenza, commistione o distorsione rispetto al corretto ordinario esercizio della professione forense).
Il Consiglio nazionale forense ha anche ritenuto di intervenire sul regime delle incompatibilità, al fine di dare contenuto effettivo e concreta realizzazione alla disciplina sull’esercizio della professione, individuando con chiarezza le singole ipotesi che precludono all’avvocato la possibilità di essere o rimanere iscritto all’albo.
Il Consiglio nazionale forense ha quindi tradotto tale necessità in un’articolata proposta normativa, da approvare singolarmente o da inserire nel pi vasto progetto di riforma dell’ordinamento, che sarà sottoposta anche alle Commissioni Parlamentari al fine di incidere fattivamente sul cammino di approvazione del disegno di legge 1707-B (FRATTINI), sulle incompatibilità e sul conflitto di interessi, attualmente all’esame della Camera.
In tal senso, il Consiglio ha formulato una serie di emendamenti al medesimo disegno di legge, allo scopo di suggerire una disciplina pi precisa e articolata delle incompatibilità nell’ipotesi di assunzione e svolgimento di una carica di Governo, escludendo altresì ogni possibilità di indebita contaminazione della autonomia e indipendenza che deve contraddistinguere lo svolgimento del mandato professionale. In tal senso è ferma l’opposizione al testo già licenziato al Senato, e che ritorna ora alla Camera per la lettura finale, nella parte in cui attenua la disciplina delle incompatibilità autorizzando implicitamente il mantenimento delle associazioni e società con il solo divieto di compiere atti di gestione delle stesse, e soprattutto nella parte in cui, a seguito appunto delle modifiche apportate al Senato, non si impedisce ai titolari di cariche di governo l’esercizio professionale tout court, ma, ben pi limitatamente, solo in materie connesse”, con il rischio, oltrettutto, di notevolissime difficoltà interpretative.
E’ poi essenziale ancora una volta ricordare che è possibile rispettare la duplice fedeltà (verso l’ordinamento e verso la parte assistita), imposta dagli stessi principi costituzionali, agendo con una difesa sempre attiva e presente nel processo, e non contro il processo.
Dentro il processo e per il processo, dunque, nella consapevolezza che ai fini del corretto dispiegarsi delle dinamiche processuali il procedimento debba essere protetto da tutte le possibili ingerenze esterne, e continui a rimanere il luogo il pi possibile asetticamente separato dal pi generale contesto sociale e politico (N. LUHMANN, Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Milano 1995), evitandosi in particolare che il processo sia celebrato e definito attraverso le comunicazioni mediatiche. -
In verità, su quest’ultimo punto, occorrerebbero molteplici riflessioni. La giurisdizione è invero la funzione statuale per eccellenza, quella pi intimamente connessa alla sovranità, e vive di meccanismi delicati nei quali ogni potere deve essere controbilanciato da canoni di responsabilità e dall’azione di altri poteri. Ebbene, sistemi giuridici particolarmente complessi, sia per la cattiva qualità dei testi normativi, sia per la quantità di norme vigenti, conducono inevitabilmente a un protagonismo dell’interprete istituzionale” della legge stessa, cio del giudice. La pronunzia, cioè, della regola di diritto che, per il caso specifico, concreta e attualizza la volontà della legge postula sempre pi un ruolo pi attivo” del giudice stesso.
Da qui una progressiva trasformazione del ruolo sistemico della magistratura, che non può non comportare conseguenze dirette anche per gli avvocati e rispetto al quale è necessaria innanzitutto una forte presa di coscienza.
In effetti, l’enucleazione, accanto ai tradizionali diritti, di altre posizioni giuridicamente rilevanti, sia nelle forme di veri e propri diritti soggettivi - i diritti della terza generazione (cfr. S. RODOTÀ, Repertorio di fine secolo, Roma-Bari, 1992, e G. ZAGREBELSKY:, Il diritto mite, Torino, 1992) - sia nel riconoscimento di interessi superindividuali giuridicamente rilevanti e idonei a conferire ai rispettivi titolari poteri e facoltà sostanziali e processuali, influisce certamente in modo determinante sull’espansione dell’area della giurisdizione.
E’ lo stesso concetto di chi afferma che la giurisdizione è chiamata a tutelare diritti vecchi e nuovi”, e ciò avviene sempre di pi nell’ambito della c.d. "sfera pubblica", nella quale l’obiettivo principale, il bene specifico che pi spesso costituisce l’obiettivo ultimo è proprio il riconoscimento pubblico, cioè la inclusione dei soggetti in questione nel novero degli attori della sfera pubblica.
Così, una delle innovazioni pi importanti che hanno inciso sugli assetti della giurisdizione nel sistema italiano è stata la progressiva inclusione di taluni giudici e pubblici ministeri tra i soggetti della sfera pubblica, accanto alla (o favorendo la) soggettività del Consiglio superiore della magistratura e dell’Associazione nazionale magistrati.
E i magistrati entrano” nella sfera pubblica grazie allo spazio che riescono ad ottenere presso i media. Tramite i media, cioè, un giudice, ma anche in ipotesi un accademico, un giornalista, e un avvocato, possono ambire a superare i limiti del proprio naturale ambiente relazionale, cioè della comunità scientifica o professionale nella quale operano, e contendere a soggetti tradizionalmente operanti su questo terreno, come gli esponenti politici, il consenso di strati pi o meno ampi della pubblica opinione.
Questa è la realtà nella quale viviamo e con la quale dobbiamo confrontarci, a meno di non volere fare come coloro che fuggendo davanti alla realtà non pensano la realtà. E non si accorgono che se non si pensa la realtà si finisce con il non pensare per nulla” (Andr Glucksmann) .
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Ma se così è, è nella straordinaria tradizione dell’avvocatura che si rinvenga stimoli e impulsi per lo svolgimento di un ruolo di riequilibrio e contemperamento del quale possano giovarsi tutti, in primo luogo gli altri operatori della giustizia e poi tutta la comunità nazionale.
Basta guardare un po’ dietro le nostre spalle agli avvocati che ci hanno preceduti; basta guardare a Francesco Carrara e al dibattito sulla legge del 1874 che offre risorse inaspettate anche per i nostri tempi. Nelle parole di Francesco Carrara si delinea già l’affermazione di un vero e proprio ruolo”costituzionale” dell’avvocatura quale contropotere che, insieme con la magistratura contribuisce a riequilibrare la forza del potere esecutivo: l’Ordine degli Avvocati ha dalla sua propria natura, e sotto qualunque forma di governo, una missione antica quanto il primo patrono che sorse ad impedire che con il pretesto del diritto si violasse il diritto (...) . Larghissimo e fruttuoso fu il contributo che in tutti i tempi recarono gli Avvocati alla causa del progresso liberale (...). Quindi necessità che siano costituti in corpo; necessità che questo corpo sia tale per numero e per dignità ad imporre rispetto” (F. CARRARA, Il passato, il presente e l’avvenire degli avvocati in Italia, Lucca, tip. Giusti, 1874).
Stupisce constatare la vicinanza di idee tra chi scriveva oltre un secolo fa in un contesto culturale e in un assetto costituzionale così lontani e chi, modernamente, ha sostenuto la necessità per l’avvocatura di utilizzare realisticamente le logiche comunicative proprie della sfera pubblica e ha predicato di un ruolo equilibratore degli avvocati quale corpo collettivo al fine di contenere le disfunzioni nell’amministrazione della giustizia (A. GARAPON, I custodi dei diritti. Giustizia e democrazia, Milano, 1997, 180).
Il ceto degli avvocati, ontologicamente votato alla cultura delle libertà (E.N. BUCCICO, Relazione annuale sullo stato della giustizia, in Rass. forense, 1999, 11), deve quindi poter essere in grado di offrire un contributo di moderazione e di equilibrio all’amministrazione di giustizia, rinunciando ad atteggiamenti graffianti ma non abdicando alla funzione propria, che la storia e la cultura del nostro paese, prima ancora dei codici, gli affidano: quella di essere scudo e difesa del cittadino di fronte all’esercizio del potere pubblico e di fronte all’abuso del potere privato.
Uno sviluppo adeguato di tale funzione passa probabilmente anche attraverso l’introduzione nell’ordinamento di talune misure organizzative, ma è senz’altro legata a un effettivo e consapevole inserimento dell’avvocatura stessa nelle logiche e nelle dinamiche della sfera pubblica.
E’ questo che l’avvocatura intende realizzare.
- Non posso concludere il mio intervento senza porre una questione culturale che mi sembra sempre pi attuale, leggendo la relazione introduttiva del segretario generale Claudio Castelli. Il punto è l’immagine residuale che degli avvocati i magistrati sembrano avere. Gli avvocati sono citati nel documento base del congresso come una categoria che utilizza la riforma del gratuito patrocinio per ottenere compensi (punto 3, nota n. 4), come una categoria i cui problemi segnano in termini corporativi buona parte della attività dell’associazionismo forense” (punto 9), mentre le uniche risorse positive in essa rinvenibili apparterrebbero alle iniziative associative di alcune aree politiche omogenee a questo Congresso. Onestamente mi pare una visione un po’ limitata. Ed anche controproducente, perch contribuisce ad alimentare inattuali steccati, senza far crescere quel sentimento comune della giurisdizione che - credetemi - non accomuna solo magistrati giudicanti e inquirenti, ma sta a cuore a tutti gli avvocati. Tra i punti quindi sui quali il segretario invita alla riflessione, mi permetto di suggerire, oltre ai rapporti con il sistema politico, con i media e con i nuovi movimenti d’opinione, il tema dei rapporti con tutta l’avvocatura, con chi vi sta di fronte o a fianco ogni giorno, nella faticosa attività della amministrazione della giustizia.
- Da ultimo, per un recupero della giustizia sul piano sostanziale, non posso fare a meno di ricordare che occorre ridurre il grado di inquinamento sociale che tuttora persiste in tante parti dell’attività umana. Sono sempre pi numerosi (ce lo indica anche l’esperienza degli Stati Uniti) gli scandali nell’attività finanziaria e commerciale, all’insegna della pi scorretta interpretazione dei doveri degli amministratori, e vi sono ancora tante occasioni di corruzione nei settori della vita economica che dimostrano carenza di etica, prima ancora che violazione della legge penale. E così sorge la necessità, anche negli aspetti pratici nel nostro nuovo diritto societario, ad esempio, di rispettare principi certi per dare trasparenza, chiarezza e oggettività ai rilevanti interessi che si muovono intorno ai soggetti economici.
Un’etica di responsabilità, dunque, è necessaria, cioè un’etica pubblica che privilegi gli interessi collettivi e indichi le regole di civiltà per riportare la giustizia al centro dell’affidamento dei cittadini.
Ma non solo. Sarebbe estremamente importante dimostrare di avere la capacità di valutare e di agire ("attraversare il deserto", come è stato detto) isolando i fattori negativi e denunciandoli alla pubblica opinione.
E sotto questo profilo una importante lezione viene proprio ancora dagli Stati Uniti che hanno indicato attraverso la Rivista TIME, come "personaggio dell’anno", non già il potente di turno, ma le tre donne che hanno denunciato le disfunzioni delle grandi società finanziarie (ENRON e WORLDCOM) e dell’organismo governativo (FBI). Tre persone (Sherron Watkins, Coleen Rowley e Cynthia Cooper) che "hanno rischiato tutto per dare l’allarme sugli imbrogli delle loro istituzioni": tre persone comuni "che in modo straordinario hanno riportato fiducia nella società e nelle istituzioni".
Vorremmo sperare che simili esempi possano essere seguiti anche presso di noi.