XII. La relazione al Parlamento
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- Tra i risultati pi significativi dell'attuale consiliatura va certamente annoverata la delibera con la quale è stata approvata, nell'ottobre del 2001, la Relazione al Parlamento sullo stato dell'amministrazione della giustizia; delibera che ha interrotto un lungo silenzio (l'ultima Relazione risale al 1996) ed ha cercato di riannodare con il potere legislativo un discorso di fondo sui grandi temi istituzionali.
La riforma dell'art.111 Cost., collegata ai principi ispiratori della giurisprudenza della Corte di Starsburgo ed agli orientamenti del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, ha rappresentato indubbiamente il costante criterio di riferimento dell'analisi svolta e delle proposte formulate, nel senso che si è costantemente sottolineato come l'ordinamento (le sue leggi, l'organizzazione degli uffici giudiziari, le prassi) debba tendere, in primo luogo, alla effettività - o funzionalità - del processo, pur coniugata con il rispetto delle garanzie: non a caso, dunque, la Relazione è stata dedicata al tema della "tutela dei diritti, efficacia e tempi della giurisizione".
Un obiettivo, quello indicato, al quale anche la legge n.89 del 2001, nel sancire il diritto del cittadino ad un'equa riparazione nel caso di irragionevole durata del processo, ha inteso attribuire rilievo; la nuova normativa ha posto peraltro in primo piano, nell'individuare le responsabilità nei ritardi, l'attività dei magistrati, laddove esse vanno anzitutto ricondotte al potere legislativo, al quale l'art.6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e le libertà fondamentali fa carico di predisporre i sistemi processuali e le organizzazioni di mezzi e persone in grado di assicurare che i processi si concludano in tempi accettabili.
In questa ottica, ampio spazio è stato giustamente destinato dalla Relazione ad una riflessione circa le alternative alla risoluzione dei conflitti in sede giudiziaria, nella consapevolezza che dinanzi alla complessa e crescente conflittualità giuridica espressa dalla nostra società il processo non può, ed anzi non deve, costituire l'unico strumento per la risoluzione delle liti, essendo quanto mai opportuno consentire ai cittadini una libera scelta tra diverse opzioni. Di qui l'esigenza, quanto al processo penale, di una decisa valorizzazione della mediazione, che comporta anche un'attenta riconsiderazione del ruolo della vittima del reato, mediante l'individuazione di strumenti che favoriscano il suo coinvolgimento nella ricerca della pi adeguata sanzione, e che ha finora trovato uno spazio assai esiguo nel nostro ordinamento (le condotte riparatorie, infatti, sono presenti soltanto - se si eccettuano le forme di probation in sede esecutiva - nel processo minorile ed in quello ora gestito dal giudice di pace). Di qui, ancora, quanto al processo civile, la necessità di tornare a lavorare sulle procedure conciliative, che devono essere, tuttavia, pensate e riorganizzate non solo come strumenti di deflazione del carico giudiziario, ma come un peculiare canale di accesso alla giustizia, liberamente scelto e capace di fornire soluzioni positive ad una domanda di tutela che oggi rimane in larga misura latente o frustrata per un complesso di cause economiche, sociali e culturali.
- Come si è accennato, la Relazione, pur mostrando la massima apertura verso forme di vera e propria degiurisdizionalizzazione o di modalità compositive dei conflitti diverse da quelle attuali, costantemente ribadisce, però, il ruolo irrinunciabile del processo e l'esigenza che tutti i soggetti istituzionali che a vario titolo vi partecipino concorrano, pertanto, a sottrarlo alla condizione di inefficienza in cui oggi versa (in misura pi o meno accentuata, a seconda delle diverse realtà territoriali).
Quanto si afferma è valido, in particolare, per il processo penale, che nell'ultimo decennio è stato investito da una serie di interventi normativi di carattere settoriale e da importanti pronunce della Corte costituzionale che hanno fatto disperdere gran parte del sistema elaborato dal legislatore del 1988 e - a causa del sovrapporsi di istituti "pensati" in modo indipendente l'uno dall'altro - lo hanno reso disomogeneo ed incoerente. E' stato proprio questo sviluppo disordinato, unitamente alla tendenza inflazionistica della legislazione penale, a determinare, peraltro, oltre che la lacerazione dell'originario tessuto normativo, una insopportabile dilatazione dei tempi processuali, manifestatasi soprattutto con la ricorrente paralisi dei dibattimenti (in relazione, in particolare, ai maxiprocessi), con i consequenziali fenomeni della "scarcerazioni facili" e le sempre pi frequenti prescrizioni di reati anche gravi.
Ferma l'irrinunciabilità dell'obbligatorietà dell'azione penale in un sistema costituzionale fondato sul principio di uguaglianza, occorre, dunque - ha con forza sottolineato il Consiglio superiore, collocandosi al riguardo nel solco della pi attenta dottrina - porre mano alla costruzione di una "politica", i cui aspetti fondamentali dovrebbero consistere nella opzione per un diritto penale minimo, ormai patrimonio comune della cultura giuridica; nella introduzione della cd.riserva di codice, con la funzione di richiamare il legislatore alla necessità di interventi sistematici che assicurino, in questa materia, chiarezza e conoscibilità dei precetti; e nella riflessione aperta su un accorto ampliamento degli schemi legali (già presenti in alcuni settori dell'ordinamento) della irrilevanza penale del fatto, da gestire in termini di rigoroso controllo giurisdizionale.
Quanto, poi, al fenomeno delle scarcerazioni facili, il Consiglio ha ricordato anzitutto che già nel luglio 2000 esso aveva suggerito, quali possibili rimedi idonei ad ovviarvi almeno in parte, sia l'adozione di corsie preferenziali per la trattazione dei processi in cui la "tenuta" delle misure cautelari apparisse a rischio, sia la trattazione immediata di processi di semplice definizione che consentano l'irrogazione di pene detentive, mediante stralcio delle imputazioni relative a reati di pi complesso accertamento. Nella consapevolezza che tali misure acceleratorie non sciolgono i reali nodi che impediscono la rapida definizione dei processi, la Relazione ha osservato, altresì, che sarebbe necessario, per recuperare efficienza, valorizzare adeguatamente la regola della idoneità probatoria sancita dall'art.125 disp. att. cpp, tenendo presente - sulla scia dei principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n.88 del 1991 - che un limite implicito all'obbligatorietà dell'azione penale è costituito dalla "traduzione in chiave accusatoria del principio di non superfluità del processo" e che l'inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa sta a significare che "la notizia di reato è, sul piano processuale, infondata".
Infine, nel richiamare una precedente delibera del luglio 1999, si è auspicato anche (con la cautela che impone una materia così delicata, avente invero ad oggetto lo status libertatis) che sia attribuita al giudice di appello la facoltà di disporre una misura cautelare ove egli confermi la condanna di primo grado a pena non inferiore a cinque anni e sussista un concreto pericolo di fuga (auspicio che, a dire il vero, era stato in parte raccolto dal legislatore con l'art,14 della l.26 marzo 2001, n.128).
Anche in ordine alle direttrici da seguire nella modifica, comunemente auspicata, del sistema sanzionatorio, la Relazione ha formulato delle opzioni condivisibili (ancorch la terza pecchi di una certa genericità), ritenendo invero che esse dovrebbero consistere nel mantenimento della centralità della pena detentiva quale risposta per i reati di un certo rilievo; nella previsione di un complesso di pene diverse dalla detenzione in carcere, da applicarsi direttamente dal giudice della cognizione; e nell'abbandono o nella consistente riduzione di istituti che possano vanificare l'afflittività della pena, nella parte in cui presuppongano un automatismo e, quindi, l'irrilevanza di particolari condizioni. Del resto, un'utile indicazione nei termini indicati può cogliersi nelle disposizioni inserite nell'ordinamento dal d.l.vo n.274 del 2000, sulla competenza penale del giudice di pace, le quali prevedono - come è noto - che nuove specie di pene principali, costituite dall'obbligo di permanenza domiciliare e dal lavoro di pubblica utilità, che sono direttamente applicate dal giudice suddetto all'esito del dibattimento.
- Il principio della ragionevole durata del processo ha orientato anche la riflessione concernente l'area delle controversie civili, riguardo alle quali si è anzitutto osservato, in termini generali, che l'art.111 Cost. potrebbe finalmente imporre al legislatore di superare istituti obsoleti che non corrispondono ad effettive esigenze di tutela del cittadino, quali ad esempio la cancellazione della causa dal ruolo solo a seguito di una doppia diserzione dell'udienza. Si è posta in evidenza, cioè, l'esigenza di abbandonare quello che è stato autorevolmente definito "il formalismo delle garanzie", vale a dire la tendenza di una parte della nostra cultura giuridica all'esasperazione del diritto di difesa del convenuto senza alcuna considerazione per la speditezza del giudizio, tendenza resa emblematica da quella prima udienza "di discussione" la cui inutilità pratica è pari solo alla negativa incidenza sui complessivi tempi del processo.
Nel contempo, si è opportunamente sottolineato, in una fase in cui già emergevano, da parte di una certa area culturale e politica, consistenti spinte in direzione di un ruolo ben pi incisivo delle parti, che l'obiettivo dell'accelerazione del processo civile non può essere realizzato attraverso la sua cd privatizzazione, in virt della quale sarebbe riservato al giudice esclusivamente il compito della decisione finale ovvero di decisioni incidentali su richiesta di parte, privandolo dei poteri di impulso, controllo e decisione sulle singole fasi del procedimento, compresi quelli di valutazione e ammissione delle prove, che secondo la consolidata dottrina processualcivilistica costituiscono viceversa delle sue peculiari attribuzioni.
Non è sfuggito al Consiglio che ad una giustizia tempestiva deve seguire, ad ogni modo, la concreta possibilità di dare attuazione al dictum del giudice; ed in tale prospettiva si sono indicati, come necessari, strumenti pi agili per snellire le procedure esecutive e soprattutto adeguate misure di esecuzione indiretta in modo da mettere il nostro Paese, sotto questo profilo, al passo degli altri partners europei, e si è richiamato, tra gli altri, il noto modello dell'astreinte.
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L'ultimo capitolo della Relazione si è occupato, in termini necessariamente pi stringati di quelli richiesti dall'ampiezza del tema, della organizzazione giudiziaria, osservando in premessa che il nuovo art.111 della Costituzione pone al centro del processo riformatore la "questione organizzativa", che non significa peraltro "efficientismo senza valori" e che chiama in causa anche profili di efficienza interna dell'attività del Consiglio e degli organi di autogoverno periferici.
Le singole questioni sulle quali ci si è qui soffermati ripercorrono, in buona sostanza, quelle che da decenni formano oggetto del dibattito interno alla magistratura ed in larga misura ne recepiscono gli orientamenti di fondo (quanto, ad esempio, alle valutazioni di professionalità ed alla formazione dei magistrati, con tutte le implicazioni ad esse connesse anche in relazione alla definizione degli indici di produttività, al ruolo dei Consigli giudiziari, ecc.).
Ma è significativo che, nell'ambito del discorso sull'organizzazione giudiziaria, proprio la parte terminale della delibera riservi adeguata attenzione alla magistratura onoraria (le cui problematiche sono, a dire il vero, piuttosto trascurate in ambito associativo).
A tal riguardo ci si è chiesti, in particolare - ponendo un interrogativo sul quale occorrerà in futuro riflettere - se una chiave di lettura semplicemente efficientistica possa continuare a costituire la ragione delle attribuzioni, alla magistratura onoraria, di competenze sempre maggiori, con la conseguenza, avvertita dallo stesso legislatore, di un progressivo maggior tecnicismo del giudice onorario ed una assimilazione al magistrato professionale oppure se, tenuto conto delle finalità proprie di tale giurisdizione, occorra recuperare in pieno - come sembra fare la normativa istitutiva della competenza penale del giudice di pace - quella funzione conciliativa e di mediazione che pur era presente, e raccoglieva molti consensi, nella fase istitutiva del giudice di pace.
- All'esito di questa carrellata, nella quale si è inteso porre in risalto i punti salienti della Relazione, sembra di poter dire che, quali che siano i suoi limiti, essa ha comunque il non trascurabile pregio di aver fissato dei punti fermi e delle direttrici irrinunciabili, che soprattutto nell'attuale fase, in cui la politica delle riforme sembra tradursi progressivamente, ad opera del Governo e della maggioranza parlamentare, in un'opera di mera restaurazione, potranno costituire un argine per la difesa dei fondamentali valori di indipendenza della giurisdizione e di uguaglianza dei cittadini.
06 03 2003
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