Divisa
su tutto la maggioranza sembra concordare solo sulla riforma dell'
ordinamento giudiziario.
O
forse no, se il governo è stato costretto a blindarla, ponendo
la fiducia e impedendo così persino un inizio di dibattito sul
maxiemendamento affannosamente proposto all'ultimo momento (per
superare le critica e i mal di pancia della stessa maggioranza). Il
fatto è, a dir poco inaudito, se è vero che, a detta
dei maggiori costituzionalisti, la disciplina dell'ordinamento
giudiziario, riguardando lo status e l'indipendenza dei magistrati,
deve essere considerata una sorta di legge organica di rango
addirittura superiore a quella ordinaria.
Perché,
dunque, questa scelta? Per dare un contentino alla Lega e al ministro
Castelli (altrimenti destinato a restare nella nostra storia
istituzionale solo come l'artefice del più grande sfascio
organizzativo della giustizia del dopoguerra)? Certamente per questo,
ma non solo. Le ragioni sono anche altre. Lo abbiamo detto e scritto
più volte: modificare lo status di giudici e pubblici
ministeri è un tassello indispensabile nella operazione in
atto di contrazione dei diritti di tutti, di smantellamento dello
Stato sociale, di irrigidimento delle istituzioni in senso
autoritario. Per ridimensionare i diritti e le libertà occorre
indebolire chi, per Costituzione, ne è tutore e garante: la
Corte costituzionale, anzitutto, e poi la magistratura. Il disegno è
evidente. Se la riforma approvata dalla Camera diventerà legge
i magistrati saranno meno liberi e indipendenti e i cittadini meno
tutelati. Alcuni esempi tra i molti possibili.
Primo.
La riforma prevede un complicato sistema di concorsi per l'accesso
alle funzioni di secondo grado e di legittimità: per diventare
giudici d'appello o di cassazione i magistrati dovranno affrontare e
superare appositi esami teorici. Nulla di strano - verrebbe da dire -
in una società improntata alla meritocrazia. E invece non è
così. In questo modo si sovvertiranno la cultura dei giudici e
il loro rapporto con la società. Il sistema dei concorsi
infatti, a tutto concedere, potrebbe selezionare i giudici
tecnicamente più preparati. Ma non è questo il problema
della giurisdizione che richiede, al contrario, strumenti per
realizzare una crescita professionale di tutti i giudici, posto che
tutti allo stesso modo (e a maggior ragione in primo grado) si
occupano dei diritti, della vita, dei beni, dell'onore dei cittadini.
E poi perché la preparazione tecnica è uno dei
requisiti del buon giudice, alla cui realizzazione concorrono altri
requisiti quali l'equilibrio, l'educazione, la capacità di
ascolto, la sensibilità ai diritti: doti che non si
controllano certo con gli esami...
Secondo. I concorsi e gli esami
non serviranno a rendere i giudici migliori; ma serviranno ad altro:
a incentivare il conformismo, il formalismo, il disinteresse al fatto
(che è, invece, il cuore del giudizio). Da che mondo e mondo i
concorsi non selezionano i migliori ma promuovono gli omogenei,
attraverso meccanismi di cooptazione. Ciò che si ripropone
oggi è un sistema analogo a quello degli anni cinquanta, così
efficacemente descritto un quarto di secolo fa da Franco Cordero:
«Influiva sulla sintonia con il sistema di potere politico ed
economico il fatto che ogni magistrato in qualche modo dipendesse dal
potere esecutivo quanto a carriera; i selettori erano alti magistrati
col piede nella sfera ministeriale; tale struttura a piramide
orientava il codice genetico; l'imprinting escludeva scelte, gesti,
gusti ripugnanti alla biensèeance filogovernativa; ed essendo
una sciagura l 'essere discriminati, come in ogni carriera
burocratica, regnava l'impulso mimetico». A coronamento di
questo sistema il ministro ha voluto aggiungere, nel maxiemendamento,
la ciliegina finale: ai dirigenti del ministero, tornati alle
funzioni giudiziarie, dovranno essere assegnati posti direttivi o,
comunque, di primo piano. Per chi non avesse capito.
Terzo.
Giudici e pubblici ministeri - non inganni il concorso unico e la
finta opposizione dei pasdaran della separazione delle carriere –
saranno drasticamente divisi, attraverso il meccanismo della
prescelta all'atto del concorso e della scelta definitiva dopo tre
anni. Non sono tra quelli che ritengono l'omogeneità
ordinamentale di tutti i magistrati una dogma di fede e, anzi, sono
convinto che una seria separazione delle funzioni sia opportuna e
troppo a lungo rinviata. Ma allontanare il pubblico ministero dalla
cultura della giurisdizione in un momento storico come quello attuale
è una regressione pericolosa e di segno illiberale. Sarebbe
ora - lo dico anche agli amici avvocati che hanno a cuore l'assetto
costituzionale dello Stato - di uscire dalla ambiguità delle
formule e degli slogan per ricordare che la polemica contro la
«commistione fra ruoli propri delle parti e ruoli propri del
giudice, realizzata in capo al pubblico ministero dal legislatore
liberale del 1913» fu un cavallo di battaglia del guardasigilli
Rocco e del regime che lo esprimeva.
Il
seguito è noto... Molto altro ci sarebbe da dire, a cominciare
dal nuovo sistema disciplinare, dalla emarginazione del Consiglio
superiore della magistratura, dall'ambiguità della struttura
della Scuola della magistratura e via seguitando. Ma tanto basta a
dimostrare che questa riforma è un'offesa grave non solo per i
giudici ma ancor più per i cittadini.
Da
L'Unità del 1.7.2004