Un
progetto moderno per la giustizia civile
Organizzare
l’ufficio per il giusto processo
Alghero,
29/31 ottobre 2004
1.
Lo Stato di diritto ed il ruolo delle giurisdizione civile.
La
tenuta dello stato di diritto chiama in causa anche i compiti della
giurisdizione, il cui corretto funzionamento, evitando che la difesa
di legittimi interessi resti priva di tutela o sia affidata a
scorciatoie illegali, costituisce un passaggio strategico per gli
stessi compiti affidati al diritto punitivo. Anche, ad esempio,
l’attribuzione del giusto risarcimento al danneggiato od il
recupero di un credito; la sicurezza dei traffici e la stabilità
dei contratti; la tutela del posto di lavoro o di un rapporto di
famiglia; la lealtà e la libertà di concorrenza e la
difesa del consumatore; la trasparenza dei bilanci o il regolare
svolgimento di una procedura espropriativa costituiscono aspetti
essenziali per impedire che la società diventi preda dei
poteri illegali, della prepotenza o dell’astuzia dei più
forti.
In
un momento storico caratterizzato “dal coagularsi di nuove
aspirazioni, dall’affacciarsi di nuove e più complesse
pretese, dal proporsi di nuovi diritti non ancora vincenti ma che
premono alla porta della giurisdizione”, si deve invece
constatare che alla progressiva scomparsa delle garanzie giuridiche
nella vita quotidiana ed al carattere di un mercato sempre più
pervasivo fanno riscontro fenomeni crescenti di impoverimento e di
esclusione anche in ciò che riguarda i più “vecchi”
diritti ed i bisogni più elementari di giustizia.
2.
Le riforme degli anni ’90 e la successiva inversione di
tendenza.
Il
processo riformatore avviato agli inizi degli anni ’90 e
portato avanti con l’attuazione della novella sul processo
civile e della legge sul giudice di pace, l’introduzione dei
g.o.a. per la definizione degli arretrati e l’unificazione
degli uffici giudiziari di primo grado, aveva cominciato a dare i
primi effetti positivi, per quanto in modo frammentario e non
omogeneo sul territorio nazionale. Ma a quei primi interventi, che
dovevano porsi come tasselli di un più ampio disegno
riformatore, non ha fatto seguito il sostegno indispensabile affinché
potessero prodursi risultati diffusi e duraturi. E mentre nella gran
parte degli uffici scarseggiano i mezzi più elementari per il
lavoro quotidiano, si assiste in parallelo – nel contesto della
più generale curvatura restauratrice insita nel progetto di
riforma dell’ordinamento giudiziario – al riemergere di
un diritto “diseguale” e ad un sostanziale
depotenziamento della giurisdizione ordinaria, che si manifesta anche
nella tendenza al progressivo spostamento verso il giudice
amministrativo della giurisdizione sui diritti in ambiti di precisa
rilevanza costituzionale, una tendenza cui la fondamentale sentenza
della Corte costituzionale n. 204 del 2004 è valsa almeno a
porre un freno.
3.
Le risorse, le strutture ed i mezzi materiali.
Il
funzionamento della giustizia civile costituisce dunque una
condizione centrale della vita democratica, e sollecita un impegno
che deve coinvolgere – anche alla luce del nuovo testo
dell’art. 111 della Costituzione - ogni settore dello Stato.
Nulla
hanno a che fare con tale impegno le torsioni dell’assetto
costituzionale della magistratura, che non risolvono neppure uno dei
problemi della giustizia mentre aggravano le esigenze di pieno
adeguamento dell’ordinamento giudiziario a cui continua
inutilmente a far richiamo la VII disposizione transitoria della
Costituzione.
Al
funzionamento della giustizia servono interventi che incidano sulle
risorse e quindi servono:
a)
uffici giudiziari razionalmente distribuiti sul territorio,
dimensionati nell’organico in modo da consentirne autonomia di
funzionamento ed effettiva possibilità di gestione, presidiati
da tecnologie informatiche corrispondenti alle necessità di un
processo moderno e di un’organizzazione dinamicamente rivolta
ai bisogni di giustizia, integrati da un circuito di giudici di pace
professionalmente adeguati e con uffici a loro volta razionalmente
distribuiti sul territorio[1];
b)
serve che non si lascino trascorrere anni prima di dare
attuazione alla legge sull’aumento dell’organico della
magistratura o di ricoprire ed adeguare l’organico del
personale amministrativo e degli ufficiali giudiziari;
c)
serve che siano ridisegnati e valorizzati, nella cornice della
Costituzione e nella logica complessiva del servizio, compiti e
funzioni della magistratura onoraria, oltre che facendo crescere nei
fatti, con un serio sostegno di mezzi e di strumenti e non solo
declamandoli a parole, strumenti conciliativi capaci di favorire il
superamento e la composizione dei conflitti senza necessità di
ricorrere al giudice, avendo bene in mente che lo scopo della
funzione conciliativa non è soltanto quello di deflazionare il
carico del lavoro giudiziario, ma soprattutto di rendere possibile un
luogo di ascolto in cui ritrovare il metodo della convivenza e la
qualità del legame sociale;
d)
serve l’insieme di misure necessarie a far sì
che il processo possa costituire per tutti, abbienti e meno abbienti,
un luogo accessibile ed effettivo di tutela.
Tutto
ciò comporta per il bilancio dello Stato spese e costi. Ma la
democrazia è complessa, implica che si investa e che si
spenda, ed immettere mezzi e risorse è l’unica scelta
consentita al Ministro dall’art. 110 della Costituzione.
4. L’organizzazione
del lavoro giudiziario.
Ma
il corretto funzionamento della giustizia impone, con non minore
urgenza, un radicale mutamento sul modo di concepire l’organizzazione
all’interno degli uffici giudiziari superando quella duplice
scissione per cui, da un lato, il magistrato continua a restare
indifferente “alle questioni, considerate sempre un “altro
da sé”, dei tempi e della durata dei processi, delle
priorità e della migliore combinazione delle risorse e dei
“fattori della produzione”, e dall’altro si
assiste all’ organizzazione amministrativa di “un
comparto giustizia (con relative dinamiche contrattuali del personale
amministrativo, ampliamento di ruolo della dirigenza amministrativa,
introduzione massiccia delle nuove risorse tecnologiche con problemi
assolutamente inediti di gestione e finalizzazione “letteralmente
“separato” e spesso del tutto avulso dai reali e
prioritari bisogni della giurisdizione”.
Anche
il governo del singolo processo e del ruolo individuale di ciascun
giudice, la programmazione del lavoro e la verifica dei risultati di
ogni singola sezione, la resa complessiva dell’ufficio e del
servizio costituiscono una dimensione immanente all’esercizio
delle funzioni giurisdizionali; e l’emergere di questa
consapevolezza ha favorito il passaggio da una visione che affidava
alla disciplina del processo il ruolo di fulcro del funzionamento
della giustizia, a quella che ravvisa nell’organizzazione
giudiziaria il ruolo decisivo per il funzionamento del processo.
All’immagine
frammentata e disarticolata dell’organizzazione giudiziaria,
che ha fatto parlare di un sistema in cui “ciascuno è
responsabile di una singola fase del “processo produttivo”
ma nessuno è responsabile del risultato finale”,
occorre dunque sostituire una visione ed una pratica capaci di
attuare il coinvolgimento di tutti i soggetti (magistrati dirigenti,
dirigenza amministrativa, singoli magistrati, cancellerie, avvocati,
ordini professionali) nella preventiva elaborazione di un progetto,
nella concreta applicazione di esso e nella sua verifica successiva.
E’ questa anche la premessa per ridisegnare professionalità
e competenze avendo in mente un modello operativo fondato non sugli
aumenti indiscriminati degli organici, sulle immissioni in massa nei
ruoli della magistratura (sia pure “onoraria” o “di
complemento”) e sulla moltiplicazione di nuove figure, ma sul
coordinamento funzionale e sull’impiego ottimale delle risorse.
Più che ad aggiungere, si deve pensare a come utilizzare
meglio ciò che si ha giovandosi delle energie e delle
potenzialità liberate da un generale processo di
riqualificazione e dall’uso delle nuove tecnologie, in
particolare, dalla risorsa telematica.
5.
L’ufficio per il processo
Per
tradurre questa ipotesi in un progetto concreto, abbiamo scelto la
formula “ufficio per il processo”, da realizzare
mediante:
a)
l’organizzazione degli uffici giudiziari secondo un metodo
partecipativo che valga a trasformare le tabelle in un programma
comune da elaborare per il tramite del preventivo confronto con gli
utenti “esterni” (l’avvocatura, le associazioni che
operano nel campo della promozione dei diritti, gli enti locali a cui
si chiede di contribuire alla funzionalità del servizio) e la
successiva definizione di concerto sia con la dirigenza
amministrativa sia con le unità organizzative intermedie
(sezioni dell’ufficio), che debbono diventare il centro
propulsivo della nuova organizzazione;
b)
la creazione di uffici statistici, anche su base
distrettuale, idonei a consentire la rilevazione dei flussi, la
tipologia e l’entità della domanda, l’analisi
anche comparata dell’andamento dei ruoli individuali e
sezionali in modo da verificare lo stato di attuazione dei programmi
organizzativi e da consentire l’adozione dei conseguenti rimedi
e correttivi;
c)
la dotazione delle singole sezioni con assistenti di
studio per la ricerca dei materiali giurisprudenziali e la
catalogazione e trattamento informatico dei precedenti ai fini della
loro successiva socializzazione, assistenti di udienza cui
affidare, oltre a compiti di verbalizzazione, la cura del fascicolo
prima dell’udienza e la registrazione degli esiti di questa
anche con l’impiego di nuove tecniche di archiviazione, ed
assistenti amministrativi per la collaborazione nella stesura
di minute di provvedimenti aventi carattere di ripetitività,
nel quadro delle istruzioni impartite dal titolare del fascicolo;
d)
l’attuazione e lo sviluppo del Processo Civile Telematico,
nella triplice direzione della comunicazione tra i soggetti del
processo, della conduzione dell'udienza "informatizzata" e
della dotazione a giudici e cancellerie di strumenti di analisi dei
ruoli per la più consapevole ed efficace gestione del
contenzioso.
La
valorizzazione delle risorse telematiche, liberando energie oggi
malamente o impropriamente utilizzate costituiscono anche la premessa
di un generale processo di riqualificazione professionale, nel cui
ambito potrebbe essere presa in considerazione anche l’ipotesi
della delega a funzionari amministrativi di eventuali compiti di
natura paragiurisdizionale, alla stregua di quanto già accade
in ambito europeo;
e)
l’appropriata utilizzazione della magistratura onoraria.
Occorre
puntare ad un completamento della riforma che ha introdotto il
giudice di pace, recuperando profili propri della giustizia
coesistenziale e di prossimità; rivitalizzando
la stessa funzione conciliativa in sede non contenziosa con un serio
impegno diretto a creare le condizioni materiali, culturali e
professionali entro le quali tal funzione possa crescere ed
affermarsi; approntando idonee misure – con riferimento al
reclutamento ed ai controlli – per garantire e verificare che
il giudice di pace risponda ad adeguati standards di professionalità
e di credibilità, anche affidando la direzione degli uffici
del giudice di pace ad un magistrato togato con funzioni
semidirettive: ciò che varrebbe tra l’altro a realizzare
il coordinamento giurisprudenziale cui fa riferimento l’art. 47
quater dell’ordinamento giudiziario,
In
una prospettiva di valorizzazione della funzione conciliativa anche
non contenziosa, sostenuta nei fatti e non soltanto declamata a
parole, è ben possibile immaginare - anche nell’ottica
dell’art. 116, terzo comma della Costituzione, come modificato
con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 - un proficuo
coinvolgimento degli enti locali nei problemi concreti della
giustizia ed un modo di realizzazione del decentramento che non nasca
soltanto dall’urgenza di governo della complessità e
dall’esigenza di tener conto anche della specificità
della domanda presente sul territorio, ma concorra ad una prospettiva
di arricchimento pluralistico e democratico della vita
istituzionale[2].
Per
quanto concerne i g.o.t., è necessario uscire dalla caotica
situazione attuale e disegnare con chiarezza le funzioni che ad essi
si ritiene di poter attribuire, con la previsione di un organico ex
lege che fissi per ciascun ufficio un tetto numerico al fine di
arginare l’indiscriminato aumento cui neppure il CSM è
riuscito a porre un freno a causa delle pressioni provenienti dalle
diverse sedi. In una prospettiva tesa a recuperare la funzione
conciliativa come metodo di risoluzione dei conflitti, e nel contesto
di un ufficio adeguatamente organizzato per lo svolgimento dei
relativi compiti, non appare astratto considerare l’ipotesi di
un impiego dei g.o.t. in questa direzione; né appare esclusa
la possibilità di fondare su questa figura un supporto per
l’attività di udienza del magistrato togato in funzione
di presidio per determinati snodi costituiti dal carico di lavoro o
in rapporto a progetti di smaltimento del contenzioso, sempre
nell’ambito di una delega di singole fasi processuali e non di
interi ruoli contenziosi, allorché il giudice professionale
risulti contemporaneamente impegnato in altre attività più
urgenti o più importanti.
Nel
reclutamento di questo nuova figura di g.o.t., si potrebbe pensare di
attingere dai ranghi degli specializzandi delle scuole Bassanini o
delle scuole forensi, come terzo anno previsto a completamento del
progetto formativo.
6.
Gli Osservatori sulla giustizia civile
Come
rilevato in tante occasioni, il buon andamento della giustizia
investe a tutti i livelli anche i compiti dell’autogoverno; e
non dobbiamo stancarci di ripetere che il corretto funzionamento
dell’autogoverno rimanda anche al nodo dei criteri di scelta
per ciò che concerne il conferimento degli incarichi direttivi
e semidirettivi ed alla coerenza nella loro applicazione, richiede
effettività dei controlli e capacità di intervento
contro ogni forma di sciatteria, di inettitudine o di inerzia, come
richiede capacità di riconoscere le esperienze positive, di
incentivarle e di favorirne la diffusione.
Protocolli
di udienza; svolgimento delle riunioni previste dall’art. 47
quater ord. giud. per discutere sugli orientamenti
interpretativi e sulle questioni organizzative; analisi dei flussi di
lavoro anche con la costituzione di specifici uffici statistici e di
apposite commissioni di studio e di supporto; progetti organizzativi
proficuamente elaborati e periodicamente monitorati; incontri di
formazione decentrata costituiscono aspetti di un incoraggiante
fermento che anima la vita di diversi uffici giudiziari italiani, una
positiva realtà in espansione che ha dimostrato nei fatti come
tante cose potrebbero migliorare, in termini di efficienza e di
qualità del servizio, se solo vi fosse la volontà di
far funzionare gli strumenti esistenti, nel processo di cognizione
come in quello di esecuzione.
In
questo contesto di positiva proiezione verso il cambiamento, affidata
alla capacità autorigeneratrice delle prassi oltre che
fortemente incentivata dal circuito della formazione professionale –
una della realtà più feconde dell’esperienza
dell’autogoverno - non può non sottolinearsi come da
qualche anno sia in corso un processo di presa di coscienza che
coinvolge la gran parte dei giudici civili di tutte le sedi
giudiziarie del nostro paese: si avverte come assoluta ed
improcrastinabile la necessità di farsi carico, in prima
persona e pur lavorando in condizioni di obiettiva difficoltà
sulle quali non sempre il giudice è in grado di intervenire,
delle gravi inefficienze organizzative in cui annaspa la giustizia
civile del nostro paese. Di questo movimento sono forza motrice gli
“Osservatori sulla giustizia civile”, già operanti
in alcuni distretti d’Italia (Bologna, Bari, Salerno, Reggio
Calabria, Firenze, Roma, Genova, Milano e Rovereto) con lo scopo di
favorire, al fuori di ogni logica di appartenenza, il confronto e la
collaborazione tra quanti sono coinvolti nella gestione del processo
(magistrati, avvocati, personale di cancelleria, professori
universitari).
In
questa prospettiva gli Osservatori, innestando altresì un
processo di superamento dei riflessi corporativi insiti nelle diverse
categorie professionali, hanno svolto e svolgono una importante
funzione formativa, in quanto:
*
costituiscono strumenti privilegiati nel cui ambito l’avvocatura
può, spontaneamente e senza timori, esprimere la propria voce
sulla organizzazione degli uffici giudiziari e partecipare
alla discussione dei progetti tabellari;
*
sono la sede dove l’università in senso ampio (
professori, ricercatori, dottorandi, specializzandi, le scuole
Bassanini), può trovare un collegamento culturale ed
organizzativo con la formazione decentrata dei magistrati e con le
esperienze di formazione per l’acceso alla professione forense,
nella prospettiva di formazione giuridica comune;
*
possono rappresentare un momento informale di confronto entro il
quale il personale di cancelleria, i magistrati, gli avvocati hanno
modo di rappresentare il proprio punto di vista e di prendere
coscienza del punto di vista altrui talvolta semplicemente ignorato.
7.
I protocolli di udienza
L’impegno
degli Osservatori si è manifestato in modo peculiare nella
elaborazione di “protocolli di udienza” che
tendono a regolare le modalità di svolgimento delle attività
processuali colmando gli spazi bianchi lasciati dalle norme ed a
proporre le prassi applicative e organizzative ritenute più
adeguate: al riguardo vanno segnalati, con
riferimento al processo civile, il protocollo dell’Osservatorio
di Salerno, che risale al giugno del 2002, quello di Roma, approvato
il 28 ottobre 2003, il protocollo di Firenze del giugno scorso e,
quindi, il protocollo di Reggio Calabria, adottato nel luglio del
2004.
Si
tratta di un’esperienza che appare destinata ad una crescente
diffusione e raccoglie anche gli spunti offerti dalla stessa ANM con
l’elaborazione del libro bianco distribuito in occasione del
convegno su “‘Processo e organizzazione”’ del
12/13 dicembre
I
protocolli sino ad ora elaborati presentano regole che si sviluppano
su vari piani: in generale e sinteticamente può dirsi che
alcune riguardano prassi di natura organizzativa, come ad esempio le
regole sull’agenda del giudice; altre richiamano norme di
comportamento già direttamente o indirettamente codificate;
altre ancora risolvono questioni interpretative controverse poste
dalle norme processuali e mirano a dare
certezza e informazione sugli orientamenti di un dato ufficio
giudiziario.
I
protocolli sono frutto di esperienze legate alle specifiche
situazioni degli uffici giudiziari in cui operano i singoli
Osservatori; essi pertanto, sia per tale ragione, sia perché
si tratta di un’esperienza ancora in fase di sviluppo e
assestamento, presentano eterogeneità di contenuti. Vi sono
tuttavia delle aree di significativa convergenza. Tutti i protocolli,
infatti, affrontano le questioni connesse ai tempi e
all’organizzazione delle udienze con regole apparentemente
minimali, ma in realtà non solo direttamente funzionali alla
corretta gestione del processo, quanto anche dirette a ‘ridurre
al minimo il disagio degli utenti della giustizia e dei loro
difensori’, in aderenza ad un criterio indicato anche nella
circolare del CSM sulla valutazione di professionalità del
30.7.2003, n. 16103, che ha significativamente inserito tale
riferimento sotto il profilo della “capacità del giudice
di organizzare il proprio lavoro”.
Altrettanto
significative sono le regole che sembrano ribadire norme già
presenti nel sistema, come quelle che affermano il dovere per il
giudice di svolgere effettivamente le attività processuali
previste da una data norma: inserite nel protocollo, esse acquistano
un fondamento pattizio che aumenta la probabilità di
osservanza rispetto alla norma di fonte eteronoma.
Questa
sorta di normazione ‘secondaria’ affidata
all’elaborazione degli operatori appare una via dalle
potenzialità ancora non compiutamente esplorate: già
ora i punti di convergenza dei vari Protocolli rivelano la diffusione
di una nuova cultura organizzativa che inizia ad affermarsi nella
magistratura e la consapevolezza che l’effettività delle
norme riposa in massima parte nella adesione ai
valori di fondo che vi sono sottesi.
I
protocolli – al di là del contenuto di ciascuno di essi
e del dibattito aperto sull’opportunità o meno di
estenderli anche a scelte di tipo interpretativo o all’area dei
poteri discrezionali del giudice - testimoniano l’emersione
dello stretto collegamento da sempre esistente tra regole del
processo e deontologia organizzativa, ed aiutano a comprendere, a
scoprire o a “riscoprire” come tra gli ostacoli che si
oppongono alla piena realizzazione dei diritti ed all’accesso
alla giustizia si annoverano a volte anche nostre pigrizie,
insensibilità, chiusure che contribuiscono ad accrescere “il
senso di estraneità e di disorientamento, le incomprensioni, i
disagi, i danni, le vere e proprie sofferenze dei cittadini che
entrano in rapporto con la giustizia”.
Essi
testimoniano, inoltre, come il metodo del confronto dialettico con
gli altri “operatori” e la collaborazione con il
ceto forense sia un fattore indispensabile per far funzionare il
processo, nel pieno rispetto del ruolo e delle funzioni di ciascun
soggetto, in vista di valori condivisi.
8.
Il giusto processo
Di
fronte al moltiplicarsi dei modelli processuali che rivelano come
“alla novità degli interessi ed alle domande di nuova
efficienza… della società civile il sistema
politico istituzionale reagisce con la produzione” di
sempre nuovi “riti di difficile dominio culturale ed
organizzativo”, dobbiamo ribadire che il cattivo
funzionamento della giustizia non può essere superato
rifuggendo dalle vere cause che troppe volte nell’esperienza
concreta finiscono per trasformare il processo in luogo di
burocratici passaggi e di vuoti adempimenti, ma assicurando le
condizioni organizzative, materiali, culturali e professionali che
permettano ovunque al processo di funzionare.
Riportare in primo piano la
questione organizzativa, nei molteplici aspetti più sopra
indicati, non significa sottovalutare l’importanza del sistema
processuale e delle sue regole, poiché – anzi - il modo
in cui il processo viene configurato dalle norme positive costituisce
la cartina di tornasole del rapporto tra Stato e cittadino. Né
può dubitarsi che anche la disciplina del processo abbia
bisogno di interventi, idonei a semplificarne e renderne più
moderne le forme, a contrastarne gli abusi e l’uso dilatorio,
ad incidere sul sistema delle impugnazioni, a dare risposta alle
domande in cui si riflettono posizioni collettive e diffuse.
La
rigeneraziore della giustizia civile, tuttavia, non può essere
affidata a riforme che rischiano di inaridire ancor di più la
dialettica tra giudice e parti nel processo[3],
quanto invece incidendo sui nodi che ne ostacolano l’esercizio,
ed avendo come punto di riferimento da assumere a modello non le
prassi negative, ma quelle in cui – esplicandosi il rapporto
dialettico giudice/parti fin dall’inizio della
controversia in modo pieno ed effettivo, in una sequenza ordinata di
atti, in un comune contraddittorio che mira a sfrondare l’inutile
e il vano, in un contesto organizzativo adeguato, con un ruolo di
udienze umano e tollerabile - se ne giova la speditezza del processo,
ne guadagna la qualità della risposta giudiziaria, ne risulta
agevolato lo stesso svolgimento dell’attività dei
difensori.
In
questa prospettiva – e non certo per affollare il campo con
l’ennesima proposta di riforma – abbiamo inteso offrire
al dibattito alcune ipotesi di intervento sulla disciplina del
processo muovendo dalla duplice premessa che i cardini su cui fondare
la ragionevole durata del processo giusto si identificano da un lato
con un’organizzazione funzionale, responsabile, consapevole
degli obiettivi ed attenta ai risultati; dall’altro sulle
finalità della giurisdizione quale tramite d’inveramento
dei principi costituzionali e dell’ordinamento giuridico
interno e sovranazionale, un tramite cui è funzionale il ruolo
di impulso che il giudice ha il potere-dovere di esercitare nel pieno
rispetto del contraddittorio e sotto il controllo costante delle
parti nell’ambito di un processo duttile nelle forme e ricco
nei mezzi di tutela: ciò che – reciprocamente - esalta
al massimo grado anche la funzione dei difensori e la loro
professionalità.
Il
nuovo dettato dell’articolo 111 della Costituzione assegna al
legislatore, al sistema di giustizia e a ciascun giudice il compito
di assicurare che ciascun processo sia giusto, che si concluda
rapidamente, e che si svolga in conformità ai fondamentali
principi di garanzia stabiliti dalla Costituzione: diritto di difesa,
contraddittorio, parità sostanziale tra le parti. Affinché
tutti questi principi possano inverarsi nella realtà concreta
dei processi, è necessario un ruolo di impulso, di
coordinamento e di controllo dell’attività processuale,
un centro di imputazione che non può non essere individuato
nella figura del giudice. Ma il giudice può essere reso
responsabile di ciò (solo) se a lui siano dati adeguati
strumenti di governo del processo per indirizzarlo all’obiettivo
di una trattazione sollecita e giusta della controversia: strumenti
di governo che non si trasformino tuttavia né in fattori di
autoritarismo né in fattori di formalismo, e che comunque
implichino una forte responsabilizzazione delle parti. Un processo
giusto e ragionevole, quindi, ma anche semplificato e governabile: un
processo che non traduca regole e garanzie in trabocchetti
formalistici, né in espedienti dilatori o in alibi per
rifiutare od ostacolare la decisione sulle ragioni sostanziali
dell’una e dell’altra parte.
Questo
è la finalità che ha ispirato la nostra elaborazione.
Abbiamo ritenuto di tradurla in un articolato non per supponenza, ma
perché – per abitudine professionale – riteniamo
che il linguaggio delle regole sia quello che meglio evita il rischio
del discorso suggestivo, impressionistico e affetto da ideologismi,
quello che rende più chiara e netta la proposta e che ne
agevola quindi la verifica e il confronto.
9.
Il ruolo della cultura giuridica
Promuovendo
questo convegno, abbiamo inteso sottolineare il nesso indissolubile
che lega processo e organizzazione, e mettere in luce che un ufficio
organizzato intorno ad un progetto comune, regole di condotta
condivise e rispettate dagli attori del processo, disciplina positiva
del codice di rito non sono fattori distinti e separati, ma
costituiscono aspetti complementari di un mosaico dal cui intreccio
dipendono l’esito del giudizio e lo scopo del processo, che è
quello di dare alla parte che ha ragione tutto quello e proprio
quello che la parte che ha ragione ha il diritto di ottenere
Senza
attendere palingenesi che non verranno e senza limitarci a
recriminare per le riforme pericolose e sbagliate che sono
all’orizzonte, abbiamo inteso ribadire – con le parole di
Carlo Verardi - che l'attuazione del giusto processo passa, prima di
ogni altra cosa, “da una riforma delle culture e della
deontologia, che consegni al processo protagonisti culturalmente
preparati, efficacemente organizzati, legati da una comunanza dei
valori di fondo”.
La
nostra proposta nasce da questo contesto, e vuole essere un tentativo
di riportare la discussione sul terreno dei problemi veri della
giustizia, da cui per distrazione, per colpevole negligenza o per
ragioni interessate l’attenzione continua ad essere distolta.
Essa è, per definizione, una proposta aperta al confronto e,
come tale, destinata attraverso il confronto a chiarirsi,
specificarsi, arricchirsi e modificarsi.
Sui
“mali” del processo e sui rimedi per farlo funzionare si
possono avere, naturalmente, opinioni diverse; ma siamo convinti che
il processo non può trasformarsi in fattore di divisione e di
scontro, e che la sua disciplina non può essere costruita come
se dovesse sancire la vittoria o la sconfitta di questa o quella
categoria professionale. Esso dovrebbe costituire, all’opposto,
luogo di analisi costruttiva in cui – confrontando le diverse
soluzioni – si possano trovare quelle più conformi
all’interesse generale della collettività. Avviare quel
confronto che sino ad oggi è mancato sarebbe di grande aiuto
per superare visioni astratte ed evitare soluzioni affrettate.
Il
dovere etico di migliorare le condizioni umane e di collocare i
principi di libertà e di dignità al centro di ogni
attenzione, forse potrà aiutarci a far sì che (anche)
il processo torni ad essere strumento a servizio dei cittadini, e non
luogo dal quale essi rifuggono spaventati dai suoi costi, dai suoi
ritardi e dalle sue ingiustizie.
[1]
L’irrazionale ed anacronistica distribuzione delle risorse sul
territorio, sia per la magistratura sia per il personale
amministrativo, costituisce per concorde riconoscimento uno dei
problemi più gravi dell’amministrazione giudiziaria, a
cui l’istituzione del giudice unico ha posto un rimedio del
tutto insufficiente, con la conseguenza che da un lato si sono
creati tribunali metropolitani di dimensioni gigantesche, dall’altro
lato permangono uffici le cui ridotte dimensioni non consentono di
colmare i periodici congelamenti dei ruoli che vi si determinano e
di articolare sezioni con specializzazioni interne, condizione
essenziale per rendere più celere la trattazione delle
materie omogenee.
Al nostro
interno è stata avanzata una proposta che, pur tenendo conto
delle esigenze di decentramento, si configura come un’equilibrata
contromisura alle spinte localistiche: la totale sovrapposizione tra
circoscrizioni giudiziarie e quelle amministrative, salvo che per i
tribunali metropolitani di Milano, Napoli e Roma, in modo da far
coincidere i distretti con le regioni, i circondari con le province
e prevedere la formazione di consorzi comunali per individuare la
competenza del giudice di pace. Si è inoltre prospettata
l’ipotesi di un decentramento agli enti locali delle
competenze per le strutture giudiziarie e per alcuni servizi
[2]
Può essere utile segnalare che la Regione Trentino Alto Adige
– anche al fine di favorire la crescita di consapevolezza
intorno al ruolo innovativo del giudice di pace – ha assunto
diverse iniziative quali l’organizzazione, di intesa con il
Consiglio giudiziario, di corsi di aggiornamento professionale per i
giudici di pace; l’adeguamento delle sedi e la dotazione degli
uffici con moderne attrezzature tecniche informatiche; i corsi di
formazione permanente per il personale amministrativo; il sostegno
fornito, con la messa a disposizione di personale particolarmente
qualificato, all’attività di mediazione delle strutture
pubbliche o private presenti sul territorio; la stipula di
convenzioni con organizzazioni o enti di assistenza sociale e di
volontariato per l’applicazione della pena alternativa del
lavoro di pubblica utilità; la più intensa
collaborazione scientifica con l’Università di Trento
ed il Dipartimento di Scienze giuridiche per da luogo ad un
laboratorio critico sulle tematiche attinenti al giudice di pace,
tramite convegni di studio sulla conciliazione e sui reati devoluti
alla sua competenza; la realizzazione di borse di studio postlaurea
per attività di ricerca n materia di giudice di pace e
dottorati di ricerca.
[3]
La riduzione del ruolo del magistrato a quello di mero oracolo
decidente, come previsto dal procedimento formale del codice
del 1865, “portava l'inconveniente di affidare la
continuità e sollecitudine della trattazione giudiziaria allo
zelo dei patrocinatori soltanto; di tenerne estraneo il magistrato
quasi fino al momento della decisione, promuovendone l'ingerenza
solo a modo intermittente, sia per decidere con sentenza
interlocutoria eventuali controversie preliminari o incidentali, sia
per deliberare l'esecuzione di particolari atti d'istruzione. Questo
modo d'intervento del magistrato, non iniziale e non continuo, non
conferiva alla lite il profitto di quella costante direzione che è
uno dei caratteri essenziali della struttura moderna del rapporto
processuale, conseguente alla funzione che spetta all'organo di
giurisdizione. Per di più, mentre era causa di maggiore
dispendio, non serviva a frenare eccessi e tergiversazioni che nella
soverchia larghezza trovavano stimolo ed alimento”: così
L. Mortasa, Manuale della procedura civile, 9° ed.,
Torino, 1929, I, 303 richiamato da G. Costantino, in Il Processo
civile telematico, cit., di prossima pubblicazione.