Intervento di Livio Pepino
signor Presidente,
di nuovo ci troviamo a parlare di politica e giustizia. Non è la prima volta. Non sarà l'ultima. Il rischio è la ripetizione di riti prevedibili e di dialoghi solo apparenti (quando non di scontri aperti). È ciò che vorremmo evitare, incoraggiati dalla sua immediata risposta a una nostra prima riflessione all'indomani della notizia delle misure cautelari emesse dalla Procura della Repubblica di Santa Maria CV nei confronti di familiari e sodali dell'allora ministro della giustizia Mastella, delle dimissioni di quest'ultimo, del dibattito parlamentare che ne è seguito e dei toni che lo hanno caratterizzato.
In quella occasione abbiamo citato Sue recenti parole con cui Ella ha voluto «lanciare un forte appello perché si eviti l'accendersi, ancora una volta, di una deleteria spirale, che procurerebbe grave danno sia alle forze e alle istituzioni politiche, sia alla magistratura, in definitiva alla causa della giustizia nell'interesse dei cittadini e dello Stato». Abbiamo voluto richiamarle non per una sorta di captatio benevolentiae - che sarebbe tanto ingenua quanto inutile - ma perché siamo convinti, non da oggi, che da lì si debba partire.
Partiamo, dunque, da lì, senza nasconderci i pacati ma fermi richiami che Lei in più occasioni, e anche oggi, ha ritenuto di rivolgere ai singoli magistrati, alla magistratura nel suo complesso e all'organo di governo autonomo (cioè a noi, singolarmente e collettivamente considerati).
Mi limito a pochi flash.
Primo. Noi - parlo per me e per le colleghe Cesqui, Maccora e Pilato con cui condivido (ci tengo a dirlo di fronte a gratuite e offensive illazioni anche qui risuonate) non oppressivi vincoli di appartenenza ma consolidate e libere affinità culturali - noi, dicevo, rispettiamo profondamente la politica ed anzi abbiamo nel nostro Dna la convinzione del suo "primato". Sappiamo che il motore e la garanzia prima del "vivere giusto" stanno nella politica e che la giurisdizione non è in grado, per natura, di risolvere stabilmente le patologie del sistema. Su questo versante non c'è possibilità di supplenza giudiziaria ed è lo stesso quotidiano esercizio della giurisdizione, con le sue difficoltà e contraddizioni, che ce lo ricorda. Ma siamo altrettanto consapevoli che la provvidenziale Carta di cui celebriamo quest'anno il sessantesimo anniversario e che chiuse un ventennio di oppressione che non possiamo e non vogliamo dimenticare, vincola tutti e in modo eguale al principio di legalità e attribuisce alla magistratura il ruolo di garante del rispetto di tale principio. Quando si dice tutti, si dice anche la politica. Per questo non temiamo le sollecitazioni e le critiche anche aspre della politica ma guardiamo con preoccupazione - non corporativa ma istituzionale - ai casi in cui quelle critiche nascondono insofferenza al controllo di legalità nei confronti dei potenti (talora spingendosi ad attribuire ad esso la responsabilità di crisi politiche di ben altra origine e natura) e si accompagnano al mancato approntamento degli strumenti materiali indispensabili per il funzionamento della giustizia.
Secondo. Non temiamo le critiche. Sappiamo di meritarne, anche nello specifico rapporto con la politica o con emergenze sociali e civili di particolare rilievo. Un decennio di attacchi continui e spesso pretestuosi ha lasciato il segno nella cultura e nelle prassi di pubblici ministeri e giudici, talora producendo fenomeni, tra loro speculari, di autonormalizzazione preventiva o di contrapposizione esibita come cifra della propria indipendenza. Il susseguirsi, nella scorsa legislatura, di leggi ad personam ha degradato la norma a comando politico diretto, innescando, anche nella giurisdizione, la tentazione di sostituire il primato del giusto (che ne è l'irrinunciabile proprium) con quello dell'utile. L'interessata presentazione del processo come luogo dove si conduce una battaglia senza esclusione di colpi ha, qua e là, determinato l'emergere di spinte tese a far prevalere la cultura del risultato su quella delle regole, spesso esaltando l'intervento cautelare rispetto all'esito del processo. E c'è, anche tra i magistrati, chi ha dedicato maggior cura alla tutela della propria immagine (magari di eroe solitario) che al rigore della motivazione. Non è, questa, una situazione generalizzata; ma ciò è accaduto e accade. Ed è accaduto altresì - cito l'ultimo esempio di due giorni fa al Policlinico di Napoli - che interventi giudiziari improvvidi (anche per le modalità che li hanno caratterizzati) abbiano mortificato la dignità delle persone: quella dignità che, invece, dovrebbero tutelare.
Terzo. Siamo consapevoli di tutto ciò e siamo fortemente e responsabilmente impegnati in un percorso diretto, da un lato, a incentivare e diffondere i comportamenti virtuosi (che ci sono e sono la maggioranza)e, dall'altro, a correggere le storture e a rimuovere le cadute di professionalità. È un percorso rigoroso e coraggioso che non può essere messo in dubbio - non è messo in dubbio - da gratuite delegittimazioni talora provenienti, purtroppo e con scarsa coerenza, anche da componenti di questo Consiglio. Ed è un percorso senza scorciatoie in cui si collocano anche interventi disciplinari e paradisciplinari che sappiamo necessari (purché rispettosi dell'indipendenza di ciascuno e non finalizzati alla creazione di comodi "capri espiatori", magari funzionali a che nulla cambi). Ma la via maestra per realizzare adeguati passi in avanti è quella culturale e della formazione. Perché - cito parole di un indimenticato maestro come Pino Borrè - «la scarsa professionalizzazione della magistratura è sempre stata (la storia dell'istituzione lo insegna) garanzia di subalternità agli interessi dominanti, mentre all'inverso la crescita di professionalità racchiude potenzialità emancipatrici e liberatorie che non possono non tradursi in altrettante garanzie di effettiva indipendenza (esterna e interna) dei magistrati».
Quarto. Ritorno ai rapporti con la politica. Ad essa dobbiamo e diamo rispetto. Ma chiediamo reciprocità. Non solo per evidenti ragioni che risiedono nel sistema costituzionale e nel necessario bilanciamento dei poteri. Ma anche per una ragione, solo apparentemente minore, che la politica più avvertita dovrebbe cogliere con lungimiranza. Una magistratura sotto attacco continuo e che si sente assediata tende a realizzare chiusure corporative che ne diminuiscono la sintonia con la società e la capacità di rinnovarsi. Una magistratura - criticata quando lo merita ma - rispettata nelle sue prerogative e nel suo ruolo è incentivata a dare un servizio migliore. Anche per questo il rasserenamento di rapporti da Lei ripetutamente auspicato è una necessità per tutti. Noi lavoreremo per questo.