Il «potere diviso» e l’interpretazione della legge

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  1. Ciò che mi sgomenta di quanto sta accadendo in Italia in questo momento, per responsabilità di tutti e non soltanto del centrodestra, è che consentiamo alla cronaca di cambiare l’andamento della storia senza averne la consapevolezza.

    Vivendo la storia come cronaca, adattando i nostri argomenti a una polemica che trova la sua sublimazione nei contenitori televisivi (i quali per definizione non riescono ad andare aldilà delle piccole frasi con grandi effetti emotivi), perdiamo il senso di quello che ci sta accadendo e perdiamo il senso delle derive storiche di cui in parte siamo riusciti a liberarci, ma di cui, in altre parti, rischiamo di ricadere ancora prigionieri. E quando questo sarà accaduto ci renderemo conto ex post che è accaduto, ma non avremo avuto la consapevolezza sufficiente di impedirlo.

    Il tema di questa tavola rotonda mi sta particolarmente a cuore perch, anche professionalmente, ho dedicato moltissimi anni del mio lavoro a cercare di districare dal filo rosso del giacobinismo una divisione dei poteri che fosse al plurale e non al singolare, perch questo è un po’ il problema italiano, come lo è degli altri paesi del continente europeo.

    Noi dobbiamo aver presente la nostra storia, la nostra storia lontana, perch essa porta dentro di s (De Rita direbbe attraverso fiumi carsici che passano sotto di noi e che vediamo solo quando emergono) l’assorbimento, da parte degli ordinamenti giuridici europei, dei valori democratici e di libertà,.

    Questo assorbimento è intervenuto faticosamente, nel corso di due o tre secoli, sminuzzando il preesistente monoblocco del potere, la concezione assoluta del potere, secondo cui quod principi placuit legis ma anche sententiae, ma anche misurae habet vigorem.

    La nostra storia, in parte grazie al lavoro giudiziario e in parte grazie all’ingresso dei parlamenti - che segue, non precede, l’avvio del lavoro giudiziario - ha cercato di dividere e di separare dal titolare del potere politico (che era potere statuale amministrativo) gli altri poteri e quindi ha inventato la riserva di legge (se tu vuoi intervenire sulla mia libertà e sulla mia proprietà lo devi fare in base a regole che un’assemblea rappresentativa eletta abbia stabilito) e ha separato il potere giudiziario.

    Ma fondamentalmente - e questo è il nostro peccato originale di cui ancora nessun messia è riuscito interamente a liberarci - è rimasta al fondo l’idea che il potere è uno, è il potere politico, è il potere di chi è legittimato a governare e che gli altri poteri, conseguenti a vicende storiche successive, sono deroghe ed eccezioni pi che poteri paralleli e parimenti legittimati ambiti di diverse funzioni pubbliche.

  2. Nel passaggio dallo Stato di polizia allo Stato parlamentare è accaduto questo, ed è cosa acquisita nella storia del costituzionalismo: cambia il titolare ma non la qualità del potere.

    Con il giacobinismo e con il rousseauismo chi esprime la volontà generale è comunque il titolare del potere al singolare.

    Prima era un signore investito da s medesimo, il re, poi diventa un parlamento, ma l’idea fondamentalmente è la medesima.

    Orbene, su questo troncone noi abbiamo lavorato cercando di essiccarlo ed era sembrato che la costituzione repubblicana questa operazione l’avesse compiuta e che avesse trasferito la divisione dei poteri sull’altro binario storico.

    Chissà perch, a sinistra, c’è stata una antica e pessima abitudine ad arricciare il naso davanti a questo perch appariva liberal-democratico e non sufficientemente “di sinistra”; la sinistra è stata impregnata storicamente dell’idea della volontà generale, ma non pronta a trarne tutte le conseguenze sul piano teorico.
    E' la concezione lockiana della divisione dei poteri quella all’interno della quale i poteri sono davvero plurali, l’uno non dipende dall’altro e c’è una legge superiore.

    Non è un caso che la costituzione come legge superiore si sia afferma in ambiti culturali ad ispirazione prevalentemente lockiana, che rende il giudice un soggetto che affianca il parlamento (affianca non sta sotto). Ed è tipico di quella concezione vedere il garante dei diritti non nel parlamento ma nelle corti. E' questo che crea veramente l’affiancamento.

    Ora, mi sono sempre domandato quanto noi storicamente fossimo capaci di renderci conto che uno schema, un’architettura istituzionale come quella della costituzione repubblicana era pi su questa seconda pista che non sulla prima e quanto invece la stessa interpretazione della costituzione repubblicana abbia finito per essere in pi casi figlia dell’altro filone (quello giacobino-roussoiano secondo cui chi deve avere l’ultima parola è comunque il titolare legittimato ad esprimere in sede politica la volontà generale).

    Sappiamo che questa concezione è rimasta in Francia. I cultori di giustizia costituzionale sanno che l’organo di giurisdizione costituzionale in Francia in realtà non esiste perch si è ritenuto che comunque l’assemblea dovesse avere l’ultima parola e quindi non si è avuto il coraggio di configurare il Conseil costitutionel come organo di controllo successivo all’entrata in vigore della legge ma lo si è costruito come organo che interviene prima che il parlamento abbia detto l’ultima parola.

    E' l’ultima vestigia sul piano formale di quel tipo di impianto per cui un giudice, sia pure speciale, non può dire che il parlamento ha sbagliato (cosa che, invece, noi siamo arrivati a fare con la nostra giurisdizione costituzionale, non a caso tutta affidata ad un circuito giudiziario, avendo la proposizione incidentale come meccanismo di attivazione della giurisdizione costituzionale).

    Abbiamo fatto una lunga strada verso Locke, abbiamo istituito le autorità indipendenti, abbiamo definito aree di aggiudicazione di singoli casi sottratti alla pubblica amministrazione e aree di regolazione tecnica sottratte all’organo politico, abbiamo cioè acquisito quello che è il cuore di quella concezione non roussoiana. Quando in gioco sono diritti, essi non possono essere affidati agli umori delle maggioranze politiche e quindi, tanto in chiave di regolazione tecnica quanto in chiave di aggiudicazione, è bene collocarli in ambiti separati ed è nata, in qualche modo, nel nostro sistema una sorta di funzione di controllo che non è giurisdizionale ma non è tradizionalmente amministrativa.

  3. Non c’era nessuna ragione, in termini di impianto e coerenze, per cui l’adozione, all’interno delle istituzioni politiche istituzionali del principio maggioritario, facesse da controforza rispetto al nostro progredire verso la direzione che ho chiamato lockiana.

    Non c’era nessuna ragione perch, se così fosse, non avremmo sistemi politici imperniati sul maggioritario in paesi nei quali questo parallelismo della funzione giudiziaria e delle funzioni indipendenti rispetto ai titolari della volontà politica è un dato storicamente ed istituzionalmente affermato.

    In realtà la prova del fatto che noi ci eravamo avviati - permettetemi questo schematismo, una formula ellittica che mi aiuta a far presto - sulla strada lockiana avendo ancora dentro di noi un residuo roussoiano (che è quello pi forte nella nostra storia passata, per cui il potere è uno ed è quello di chi è legittimato a governare e gli altri sono eccezioni che come eccezioni sono i pi deboli e i pi esposti), la prova , dicevo, di questa permanenza sta nella reazione che ha avuto l’Italia all’avvento del principio maggioritario.

    E ciò - sia pure con toni e accenti pi equilibrati degli attuali - anche con il centrosinistra.

    In qualche modo è stato come un ridare la stura a quel peccato originale che evidentemente non aveva trovato ancora il messia ma soltanto dei provvisori pentimenti.

    Io l’ho vissuto quando ero presidente dell’autorità antitrust. Avevo una legge - la n. 287 - che mi abilitava, come abilita tuttora il mio successore, tanto a ius dicere in singoli casi di violazioni della legge antitrust quanto ad esprimere pareri al parlamento e al governo sulle iniziative legislative in corso e in relazione all’impatto eventualmente negativo che queste iniziative potessero produrre sull’interesse collettivo affidato all’autorità che presiedevo, cioè la concorrenzialità di mercato.

    Ogni volta che arrivavo in parlamento con un mio parere mi veniva detto «di che cosa ti impicci; questa è politica, tu non c’entri» ed ogni volta dovevo tornare davanti a illustri presidenti di commissioni con la fotocopia della legge per dire che dire «non entro nel dibattito politico generale, non vi vengo a dire se dovete andare in Iraq con i carri armati o con qualcos’altro, io vi vengo a dire in un ambito che mi riguarda e rispetto al quale la legge espressamente mi abilita quale può essere l’effetto che provocherete se farete una certa cosa, poi naturalmente decidete voi». Ecco il senso della interferenza che ho vissuto. E' forte la spinta a dire: «tu devi obbedire al parlamento».

  4. Il percorso roussoiano è un percorso che cancella la interpretazione.

    Non a caso subito dopo la rivoluzione francese il giudice ( sia pur per ragioni storiche, perch i giudici erano probabilmente reazionari, ma queste cose si pagano sempre: io lo dico a me stesso come persona di sinistra che quando si adattano i principi alle circostanze, i principi li si perde) era subordinato all’assemblea parlamentare.

    Siccome il giudice era reazionario, meglio che gli si dicesse quotidianamente quale era l’interpretazione autentica delle leggi. Nasce di lì quel principio che segue immediatamente la rivoluzione francese che vide l’esplosione dell’interpretazione autentica mentre, al posto della cassazione, c’era l’assemblea.

    Ciò cancella l’interpretazione e fa identificare il diritto oggettivo nell’ultima legge.

    Cancella il fatto che un ordinamento giuridico è un insieme di norme e principi che si stratificano, un sorta di legge superiore che rimane s medesima al di là delle singole leggi e il giudice esiste perch è l’unico abilitato a dirci qual è il risultato, sulla fattispecie esaminata, dell’insieme di questo combinarsi di interrelazioni tra norme.

    C’è in questa fase, anche nell’opposizione (per affermare degli strumenti del proprio status oppositorio), la tentazione di prevedere il ricorso alla Corte costituzionale da parte di un certo quorum di parlamentari che lamentano la incostituzionalità di una legge appena approvata. Io cerco di essere attento all’unità della opposizione (che è un bene tanto prezioso quanto impossibile da salvaguardare) e quindi non faccio le barricate per una cosa come questa, ma molto garbatamente ho rifiutato di firmare una proposta in questo senso perch per me è importante che la norma che arriva alla Corte costituzionale sia non quella che esce dalla lettura di un articolo fatta dall’opposizione il giorno successivo all’approvazione parlamentare, ma sia quella norma di diritto vivente che solo il giudice è in grado di dire come arriva alla fattispecie e con quanta parte di ciò che inizialmente sembrava caratterizzarla a seguito della sua immersione nell’ordinamento.

    E' un dato di fatto che, con uno strumento come quello, la cosiddetta legge sulle rogatorie sarebbe finita il giorno dopo davanti alla Corte costituzionale creando una gigantesca deflagrazione nella Corte.

    Invece - affidata a quella forma di “biodegradazione” che ciascun articolo di legge finisce per ricevere quando si innesta nel sistema e quando fa i conti con la legge superiore, con i principi superiori - la giurisprudenza è già riuscita a biodegradarne una significativa parte.

    Se poi rimane un nucleo non biodegradabile ci sarà un giudice, visto che ne abbiamo tanti, che lo porterà - quel nucleo non biodegradabile - davanti alla Corte costituzionale.

    E' così che il diritto oggettivo esiste ed opera, ed è in questa chiave che è essenziale lasciare la giurisprudenza e quindi la funzione giudiziaria.

    Ma bisogna accettare tutti quanti queste regole, non farsi prendere in nessun caso dalla tentazione giacobina secondo cui “siccome ora il potere sono io, ce l’ho io che sono pi bravo, pi simpatico, pi popolare e pi legato ai grandi valori della Repubblica di altri allora da questo momento in là tu fai quello ti dico io e se lo fai, fai il bene mentre se fai quello che ti dice lui fai il male”.

  5. E' fondamentale che da questa tentazione tutti in effetti rifuggano. In questo senso dovrebbe essere acquisita proprio l’idea (che noi non abbiamo mai acquisito) che i poteri sono distinti ed equiordinati, che non esiste una primazia dell’uno rispetto agli altri, che i poteri sono collocati in ambiti diversi.
    Il mio maestro Lavagna era un personaggio stravagante, ma aveva dentro di s alcune coordinate espresse in modo formale di fortissimo valore democratico: il legislatore è quello che mette i pezzettini e fa i singoli mattoni ma come viene fuori il disegno non lo sa neanche e non lo può neppure sapere, perch il diritto è un’altra cosa.

    Il diritto non è scrivere un articolo, il diritto è vedere una fattispecie e sapere quale è la regola che si applica a questa fattispecie, da dove viene quella regola, che viene in effetti da una infinità di pezzi.

    La legge di cui parla la Costituzione non è “il comma due dell’articolo tre della legge 399 del 2001”, ma è l’ordinamento giuridico e dell’ordinamento giuridico come tale non è depositario il legislatore, che è solo quello che ci mette i singoli pezzi.

    Vedete come suona strano, come suona eccessivo detto in Italia, perch dentro di noi è rimasto quel residuo giacobino, è rimasta l’idea che non è così, che il legislatore esprime la volontà popolare e quindi deve stare sopra.

    No, il legislatore la esprime e, per questa ragione, è l’unico che può innovare, nel senso che è l’unico che può mettere i nuovi pezzi ma l’insieme è affidato alla giurisprudenza, a questa funzione diversa.

    Ed è affidato a questa funzione diversa perch questa è una funzione che si esercita identificando al di fuori di ogni parzialità e della tutela di qualunque interesse specifico la regola che fa a quel caso.

    Se così non fosse, che senso avrebbe addestrare il giudice? Dirgli che deve essere imparziale, che non può avere determinate relazioni, che non può collocarsi in certi ambiti o in certi altri, ha l’unico significato di dirgli: «tu non puoi decidere come ti aggrada, mentre il legislatore lo può fare. Tu devi decidere fornendo argomentazioni che reggano in base a una logica che è quella giuridica, che reggano al vaglio dei tuoi colleghi che stanno al piano funzionalmente superiore e possono rivedere la decisione adottata, che reggano, con quei mattoni che ti ha dato il legislatore, una costruzione che sta saldamente in piedi».

  6. Questa è una cosa, vedete, che non sempre viene capita. Io mi sono trovato pi volte con degli studenti i quali, avvezzi al cinismo che purtroppo la scienza politica ha introdotto (perch la scienza politica è cinica, e anche gli economisti che si occupano di politica sono spaventosamente cinici, cioè non lasciano alcun spazio ai ruoli istituzionali), mi dicevano: ma, in fondo, che differenza c’è tra la decisione di un giudice e la decisione di un politico? non c’è nessuna differenza: tutti e due decidono - e probabilmente decideranno - in base alle loro preferenze.

    Allora è c’è un’operazione di rieducazione sentimentale da fare in questi casi: certo anche il politico deve dare, nella realtà di oggi, delle motivazioni (e ci mancherebbe altro: non è che può decretare e punto), ma può decidere semplicemente perch ha una spiccata preferenza a fare una certa cosa (io decido di entrare nel capitale della Fiat perch secondo me corrisponde all’interesse pubblico); un giudice, invece, non può adottare la decisione che qualcuno entri nel capitale della Fiat. Cioè un giudice deve trovare un fondamento nell’ordinamento; la sua motivazione è qualitativamente diversa dalla motivazione delle decisioni politiche, proprio perch ha questa qualità diversa; è l’unico al quale affidiamo l’architettura del sistema; altrimenti il sistema cesserebbe di esistere, sarebbe esposto a mille venti, potrebbe cambiare una settimana si e una settimana no.

    Ora queste cose vanno riaffermate, riaffermate proprio in termini di principi perch altrimenti noi ci troveremo poco alla volta, e senza esserne del tutto consapevoli, in un sistema nel quale si affermeranno come nuovi principi vecchi, e i principi pi vecchi sono questi: «io ho l’investitura all’esercizio del potere, quod mihi placuit legis habet vigorem». Ci abbiamo messo tre secoli e non ce ne siamo ancora liberati...

22 01 2003
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