"il mondo del diritto è largo e profondo . E' pieno di bellezza e di saggezza. E' semplicemente naturale che vi sia pi di un sentiero che consenta di percorrerlo, che vi sia pi di un modo per assorbire la sua bellezza e per nutrirsi della sua saggezza". (A. Barak, Judicial Discretion)
Nell'arco di trentacinque anni il ruolo della magistratura italiana è cambiato in modo radicale. Hanno assunto rilevanza i problemi riconducibili al rapporto tra politica e magistratura, perch tra le pagine del processo e le righe delle sentenze è emersa la figura del giudice, il ruolo della giurisdizione e il sindacato di legalità la cui esistenza distingue lo Stato di diritto dai regimi totalitari. Eppure nel rapporto tra politica e giurisdizione ha di nuovo fatto ingresso la dicotomia sullo status del giudice, magistrato o funzionario e con essa l'idea che politica e magistratura svolgono due attività separate e differenti in cui debbono guardarsi reciprocamente dall'interferire.
Considerazione ovvia, ma anche subdolamente capziosa. Perch se è certo che la giurisdizione non può interferire nell'attività legislativa del Parlamento e allo stesso modo il Governo e il Parlamento non possono influire sulle attività istruttorie e processuali, al contrario, qualunque cittadino che ricopra un ruolo politico e che commetta reati comuni è soggetto alla legge e alla giurisdizione; e solo nell'ipotesi in cui commetta reati politici è lecito fare ricorso alle speciali procedure previste dall'ordinamento.
Considerazioni scontate, ma, di recente, messe in discussione.
Magistratura Democratica, in questi anni, ha diretto la sua azione verso obiettivi di trasparenza, di imparzialità, di indipendenza, di autonomia.
Da molte parti ci viene l'invito a fare un passo indietro e a svolgere una serie autocritica. Se poteva essere fatto di pi e meglio, credo allora che, al contrario, debbano essere fatti parecchi passi in avanti
Sicuramente non dobbiamo patteggiare con nessuno il nostro passato, ed anzi dobbiamo e possiamo esserne orgogliosi. Il bilancio è largamente positivo, anche se in una situazione profondamente cambiata abbiamo la necessità di costruire un progetto, anche non da soli, con forte tensione al nuovo; ma continuando a pensare che l'essenza della giurisdizione rifiuta le concezioni e le prassi della "burocrazia"; non sopporta la "gerarchia", ma solo un sistema di impugnazioni, e che essa , in termini di ordinamento giudiziario, necessita d' indipendenza interna , e, sotto il profilo costituzionale, della garanzia del principio del giudice naturale riferita al singolo magistrato; non dobbiamo pentirci della concezione della giurisdizione come potere diffuso, e del rifiuto dell'accentramento della funzione e della creazione di giudici speciali per processi speciali ; della difesa di una discrezionalità propria della giurisdizione, connaturata alla sua funzione , insopprimibile contro il mito della certezza del diritto, e che, al contrario, abbiamo valorizzato come il punto pi alto del giudizio, alla luce dei valori costituzionali, e, primo fra tutti, del principio di uguaglianza.
Rivendichiamo con orgoglio la difesa quotidiana dello Stato di diritto, che oggi dimostra la sua vulnerabilità da attacchi interni ed esterni, l'esserci opposti a tentativi di derive costituzionali, all'imposizione di un "diritto di Stato". La nostra professionalità si misura anche con l'attenzione che poniamo all'evoluzione di fenomeni politici, sociali, istituzionali, che si manifestano anche attraverso i nostri comportamenti, le procedure che adottiamo.
Rivendichiamo la nostra indipendenza, e di essere soggetti soltanto alla legge, per la nostra funzione, se sentiamo dentro di noi i limiti propri legati alla nostra deontologia e alla nostra professionalità.
La sfera del "diritto" e quella della "morale" non sono sovrapponibili. Ma se la legge, ogni legge, non ha alla sua base un minimo "etico", corrompe la nostra funzione oltre che contaminare il sistema. Scriveva Francesco Carnelutti che "non la legge è misura della giustizia, ma la giustizia è misura della legge".
Ritornano oggi richieste che trasudano pretese "imperiali" per vietare ai giudici scelte interpretative difformi da quelle preferite dal legislatore di maggioranza. Richieste di applicazione automatica e certa di norme di legge spesso generiche, parziali, lacunose , contraddittorie.
Richieste che evocano scenari cupi, quando i giuristi teorizzavano il fondamento politico dell'"antigiuridicità" e indicavano come fonte interpretativa delle "norme di civiltà" (le Kulturnormen) "le intuizioni del popolo interpretate dal capo".
Quando vi è una legislazione di fatto sempre pi lontana dal modello liberale classico della legge generale e astratta, si tenta di ridurre gli ambiti di discrezionalità del giudice ben al di sotto di limiti fisiologici, riconducibili a criteri normativi pi certi ed univoci, scaricando sull'istituzione giudiziaria le tensioni irrisolte derivanti da scelte legislative inadeguate.
E tutto questo avviene mentre vi è una diffusa tendenza degli ordinamenti giuridici moderni, anche quelli processuali comunitari, ad allargare gli spazi affidati alla discrezionalità del giudice.
Nel civile, se il concetto del giusto processo esprime il legame indissolubile fra giustizia sostanziale e processuale nel senso che il processo civile deve essere regolato e gestito in modo da favorire il perseguimento di una decisione giusta, è lo stesso articolo 111 della Costituzione, consacrando i principi su cui deve reggersi un processo giusto, che chiede anche al giudice l'impegno di darvi l'indispensabile attuazione in ogni singolo processo.
Se il legislatore ne darà corretta attuazione, il principio che regge il precetto costituzionale deve essere quello della responsabilità del giudice, cui debbono essere assicurate le condizioni di governo del processo, insieme ai suoi corollari : la discrezionalità, la tensione verso la verità, l'assunzione di responsabilità delle parti di fronte alle proprie scelte processuali per evitare l'abuso del processo.
La discrezionalità del giudice ha spaventato spesso gli interpreti, confusa con l'arbitrio o persino con la mancanza di imparzialità.
La sua vera essenza, è quella di strumento efficace di regolazione del conflitto anche processuale e di garanzia di equità e speditezza del processo. Essa assicura la migliore adattabilità delle regole formali alle esigenze concrete di garanzia di una parità sostanziale delle parti e consente un controllo fondato sul canone della ragionevolezza.
E' una prospettiva assunta dal legislatore anche nel settore penale dove, nel momento di istituire la Corte penale internazionale, per realizzare un sistema processuale, che in qualche modo mediasse tra le diverse culture giuridiche, ha dato origine ad un complesso di norme che riservano numerosi ed ampi spazi alla discrezionalità del giudice, nell'applicazione del diritto; lentamente, ma in modo inesorabile, il processo penale tende a divenire anche un centro di produzione, e non solo di applicazione , delle norme giuridiche penali, anche, in ragione dei canoni di razionalità introdotti dalla Corte costituzionale .
E' dunque una scelta legislativa che obiettivamente si muove nel senso che il diritto, per potersi definire tale, deve necessariamente perseguire la giustizia. E proprio la pluralità di fonti, massimamente nel diritto internazionale, impone nell'attività dello ius dicere scelte, che coinvolgono valori nuovi, ove la discrezionalità del giudice è chiamata a riempire l'assenza di certezza delle norme, forse pi correttamente delle fonti giuridiche.
E' vero che la proliferazione delle fonti normative e l'accelerazione dei processi sociali ha comportato l'aumento della densità del sistema normativo e l'accorciamento della vita media delle norme. Si crea spesso un attrito tra norme nell'ambito del sistema, insieme a un estraneamento tra norme e sistema sociale: le norme durano troppo poco perch possano sedimentarsi nella coscienza sociale.
In questo scenario di progressiva oscurità della legge, invocare la esattezza nella sua applicazione ha l'amaro sapore della illusorietà. Essa rinvia all'idea del formalismo giuridico in cui l'interpretazione è mero sillogismo nell'ambito di un sistema coerente e gerarchizzato di norme. Ma l'applicazione del diritto non è calcolo o deduzione: è ricerca problematica attraverso tentativi ed errori.
Oggi sulla magistratura, nelle sue diverse funzioni, convergono una pluralità di responsabilità, che rendono il suo ruolo, ad un tempo, possente e vulnerabile, realistico e rischioso.
Non si tratta pi soltanto di ridurre la complessità del sistema normativo, attraverso una operazione concettuale di mediazione tra norme in potenziale collisione, ma occorre nel contempo mediare tra il giudizio di fatto e la norma: operazione difficile, perch al senso sfuggente delle norme si aggiunge la crescente complessità dei fatti da giudicare.
Da ultimo, al giudice è rimesso il compito anche di governare il tempo: di decidere nel presente un caso passato nella prospettiva dei casi futuri.
Nasce da qui il problema della persuasività del precedente come strumento regolativo del fluire delle decisioni giudiziali.
E la magistratura diventa il centro di convergenza di tensioni molteplici: tra norme, tra norma e fatto, tra pluralismo delle interpretazioni e uniformità delle decisioni, tra stabilità e cambiamento dei valori e delle attese sociali.
Ma se la certezza del diritto è -come diceva Bobbio- un mito inutile, ad essa occorre sostituire un obbiettivo meno ambizioso, ma pi funzionale: la prevedibilità del diritto, appunto, come ragionevole e condivisa aspettativa dell'applicazione del diritto.
Il diritto giurisprudenziale come diritto prevedibile è la sfida della modernità che un sistema di giustizia efficiente deve saper affrontare e Magistratura Democratica deve saper raccogliere.
Se tutto questo è vero essere favorevoli a fattori di flessibilità affidati alla discrezionalità del giudice, dunque, non significa avere concezioni autoritarie. Al contrario, la discrezionalità giudiziale in una società democratica è pienamente compatibile con il principio di legalità (con la rule of law) ed anzi è la legge, che senza discrezionalità produce arbitrarietà.
E allora, pi in generale, il problema non è quello di ridurre i margini di discrezionalità ma quello di lavorare all'origine , per mantenere uno statuto del giudice autonomo ed indipendente, proprio perch, le pur comprensibili perplessità che possono nascere da una giustizia "etica" trovino il loro naturale contrappeso in un ruolo garantito del giudice come attore della sintesi del giudizio sulla fattispecie e dei presupposti della responsabilità ove è necessario affermarla.
Con la consapevolezza che al sistema sono richieste regole idonee a proteggere il soggetto debole di fronte al potere dell'Autorità pubblica, ma con l'altrettanta chiara coscienza che la funzione assegnata alla giustizia non è quella di conservare le ingiustizie consacrate nei codici.