La lotta per la Costituzione

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C'erano volute una guerra mondiale ed una resistenza armata per abbattere la dittatura fascista; poi, le forze politiche che erano uscite vittoriose, superando divisioni interne e reciproche diffidenze, avevano introdotto concordemente un suffragio finalmente universale, promosso il referendum per decidere della forma stato e dato avvio all'Assemblea costituente.
Contro la dittatura del partito unico era stata varata così la Costituzione repubblicana, fondata sul pluralismo, sulla separazione dei poteri, sull'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sul riconoscimento a tutte le persone di una serie di diritti politici e sociali.
Ma la Costituzione aveva potuto assumere una tale veste perch la resistenza al fascismo, prima e la lotta di liberazione, poi, avevano forgiato un'elite di politici di varie provenienze ideologiche, ma impegnati tutti a rinnovare le istituzioni del nuovo stato, con forme pi o meno avanzate di democrazia; inoltre, in quel contesto, erano sorte formazioni politiche, che, variamente rappresentative di ampie realtà sociali, avevano dato luogo ad una "comunità di partiti", asse portante della costituzione materiale del paese.
E poich tra i vari partiti, quelli "di massa" rappresentavano la stragrande maggioranza dei lavoratori, tramite queste associazioni - aperte verso il basso (nella società divisa in classi) e proiettate verso l'alto (nell'organizzazione statale) - esigenze ed interessi propri del mondo del lavoro potevano, per la prima volta in modo determinante, incidere a livello di governo e di istituzioni.
Il lavoro quindi, a fondamento della Repubblica; i partiti, inoltre, come solida struttura dell'articolazione istituzionale: attraverso queste mediazioni il cittadino "entrava" in Parlamento e questo, grazie al sistema di voto proporzionale, finiva per rispecchiare le diverse realtà e le divisioni sociali del paese.
Ma neppure il Parlamento aveva un potere assoluto, essendo sottoposto al controllo di una pluralità di "custodi": i "principi supremi della Costituzione" erano sottratti a qualsiasi possibilità di revisione o modifica e dinanzi ad essi doveva inchinarsi lo stesso potere della maggioranza; la costituzionalità di ogni legge, poi, veniva valutata, al momento della sua promulgazione, direttamente dal Capo dello stato e, successivamente, veniva sottoposte al controllo diffuso attuato dal circuito giudici - Corte costituzionale; infine, come integrazione ed ampliamento di questa processualità democratica, accanto alla produzione di leggi da parte del Parlamento erano previste forme di democrazia diretta, come il referendum e l'iniziativa popolare promossa dai cittadini in quanto tali.
Era un grande progetto per il futuro, perch veniva prefigurata una democrazia non elitaria, che ripudiava la guerra e che, all'interno del paese, garantiva il pluralismo e la separazione dei poteri; e, con un meditato equilibrio, la Costituzione riconosceva i diritti del lavoro, la libertà dell'iniziativa privata, nonch un disciplinato diritto di proprietà.
Era ovviamente il progetto di una minoranza, che però, tramite la funzione pedagogica attribuita ai partiti ("una scuola gratuita di massa" li definiva Lelio Basso), intendeva trasmettere questi valori fondanti - e ora resi normativi - alla stragrande maggioranza della popolazione, puntando in prospettiva a diffondere nel paese le radici di una democrazia anche sostanziale (e la norma programmatica di cui all'art. 3 cpv definiva, anche sul piano giuridico, l'impegno in tal senso assunto dai costituenti).

La realtà si sarebbe incaricata, sin da subito, di rendere assai problematica l'attuazione di questo ambizioso progetto.
La guerra fredda internazionale, che accompagnò l'elaborazione della Carta, se non lasciò segni visibili nelle sue disposizioni, radicalizzò peraltro le diversità già esistenti tra i partiti, determinando uno scontro politico che ne bloccò a lungo l'attuazione; e ciò ad opera di una maggioranza "centrista" che sembrava ora temere le troppe libertà proclamate e che si sentiva sempre pi attratta da quelle forme di "democrazia protetta" che le venivano nel frattempo suggerite dal potente alleato americano..
In questa fase la "cultura" della Costituzione fu patrimonio soprattutto di quei partiti che a tali sbocchi autoritari si opposero con forza, grazie al radicamento conquistato tra i lavoratori ed all'organizzazione, per altri versi criticata, propria del partito popolare di massa; nonchè di coloro che, da varie posizioni, riuscirono a mantenere vivo il dialogo tra forze politiche diverse, iniziato durante la Resistenza e formalizzato nella scelta repubblicana e nella successiva elaborazione della Carta.

Fu proprio durante questa "notte della democrazia", che la Costituzione rivelò comunque tutta la sua vitalità: nessuno, neppure tra coloro che l'avevano deliberatamente "sospesa", avanzò la proposta di una sua revisione o modifica; tutti, alla fine, la ritennero una cornice in grado di regolare i conflitti politici, anche quelli pi accesi; e persino i fautori della democrazia protetta pensarono di agire utilizzando, sia pure strumentalmente, alcuni articoli in essa contenuti, quello sulla democrazia interna del partito (art. 49) e quello sul divieto di associarsi in armi (art. 18).
E quel patto condiviso fu così resistente, che, attenuatisi gli effetti della guerra fredda, accantonata l'ipotesi della democrazia protetta, il confronto tra i partiti tornò a farsi meno ostile ed i principi costituzionali cominciarono ad avere, sia pure faticosamente, pratica attuazione; in particolare, l'istituzione di due organismi di garanzia, la Corte costituzionale ed il Consiglio superiore della Magistratura, furono i primi segnali del rinnovamento, ed il circuito "virtuoso" che si venne a creare tra le iniziative di una magistratura rinnovata e le decisioni della Corte consentì la progressiva abrogazione di molte norme del vecchio Regime, che la "continuità dello stato", prima e la colpevole inerzia del nuovo legislatore, poi, avevano mantenuto in vita anche sotto la Repubblica.

Ma la processualità democratica non si sviluppò solo con l'instaurazione degli organi di garanzia o l'attività dei giudici, ma si realizzò, soprattutto verso la fine del decennio, tramite un altro circuito "virtuoso", quello tra organizzazioni di massa ed attività parlamentare.
I vari piani finirono per intersecarsi: all'inizio degli anni â€èœ60, con la forte ripresa economica, crebbe rapidamente la conflittualità nei luoghi di lavoro; le lotte poterono svolgersi con modalità diverse, via via riconosciute legittime dalla giurisprudenza ordinaria e da quella della Corte; la democrazia potè così svilupparsi dentro i sindacati, che articolarono nuove forme di rappresentanza (assemblee interne, consigli di delegati, ecc); la diminuzione della disoccupazione e il ciclo economico favorevole consentì al sindacato rinnovato ed alle forze politiche che lo appoggiavano di ottenere una redistribuzione parziale del reddito (con i rinnovi contrattuali e la riforma del sistema pensionistico); giunse poi anche il riconoscimento formale a livello legislativo, ed il Parlamento, che nel â€èœ66, aveva sanzionato per la prima volta i licenziamenti illegittimi, quattro anni dopo riconosceva ai lavoratori uno "statuto dei diritti" che, negato negli anni 50 al sindacato di Di Vittorio, consentiva ora "alla democrazia di superare i cancelli delle fabbriche".

Il processo si sviluppò a cerchi concentrici: la spinta al rinnovamento contagiò ampi settori della società civile, coinvolgendo fasce di ceto medio, nella scuola e nelle professioni; attraversò ordini e corporazioni, favorì la formazione di gruppi e movimenti al di fuori dei partiti e promosse la richiesta, variamente articolata, di "vecchi e nuovi diritti civili"; ed a sua volta il sindacato, proiettatosi nella società, si impegnò direttamente in una lotta "per le riforme" (casa, sanità, trasporti, senza dimenticare quella della "informazione della RAI -TV"): l'art. 3 cpv della Costituzione cessava così di essere una norma meramente programmatica e la Repubblica fondata sul lavoro diventava una realtà concreta nella costituzione materiale del paese.

Il ventaglio della rappresentanza si era dunque allargato, con l'apparizione di nuovi canali (i sindacati, apparsi ora anche sul mercato politico) e diversi protagonisti (i cittadini finalmente in grado di esprimersi attraverso l'istituto del referendum, l'ultimo ad essere "scongelato"); i partiti dimostrarono invece di essere sempre pi impegnati a filtrare le domande che venivano dal basso, piuttosto che a sollecitare spinte verso obiettivi autonomamente individuati; i governi, pressati da scioperi sempre pi vasti, introdussero sì nell'ordinamento elementi di welfare e di protezione sociale, ma senza rispettare l'universalità dei diritti: continuarono infatti ad ignorare i disoccupati, privilegiarono fasce importanti del proprio elettorato (pensioni di invalidità per il Sud, pensioni d'oro per i superburocrati), garantendo ad altre l'impunità per l'evasione tributaria (i ceti professionisti in ascesa): scambiarono così l'acquisizione di immediati consensi con l'aumento progressivo del debito pubblico, inevitabilmente prodotto da questa crisi fiscale dello stato.

A questo punto il sistema economico reagì: la paura di imminenti rivolgimento sociali motivò la fuga dei capitali all'estero ed il crollo degli investimenti; il costo del lavoro venne individuato subito come la principale causa dell'inflazione; le garanzie introdotte dallo Statuto, lacci e lacciuoli per la libertà d'impresa, furono al tempo stesso contestate ed aggirate (i primi decentramenti produttivi con le "fabbriche diffuse" nel territorio risalgono agli anni 72-76); i non garantiti furono costretti ad organizzarsi fuori e contro il sindacato (a Napoli, nel 73); i difetti e i costi del welfare, isolati dal contesto (lo choc petrolifero e la nuova politica monetaria americana avevano incendiato il processo inflattivo), furono presi a pretesto per un suo graduale smantellamento.

La questione economica mise in discussione la qualità della democrazia: e l'ideologia neo liberale corse a spiegare che, per molti paesi occidentali, e per l'Italia in particolare, vi era un "eccesso" di esposizione dei governi alle domande sociali, per cui la politica doveva intervenire per ridurre "le complessità esistenti" (Luhmann); era questo "sovraccarico di richieste" che la democrazia proiettava sulle istituzioni e che diveniva perciò causa determinante della loro progressiva ingovernabilità (Crozier / Huntington); e, per giunta, la giustizia distributiva, minando l'ordine spontaneo del mercato, soffocava la libertà dei singoli individui e rischiava di distruggere la società stessa (Hayek).
L'eccesso di rappresentanza fu individuata come la causa della lamentata ingovernabilità: i partiti, pi o meno rapidamente, cessarono di essere un "tramite" per divenire piuttosto un "diaframma" (Lipset) tra istituzioni e società; con la politica delle "larghe intese", alcuni di essi cercarono di recuperare una "centralità del parlamento" diretta, soprattutto, a superare la "conventio ad escludendum" stabilita nei loro confronti nell'attività di governo; ma crescevano per tutti i segnali di una progressiva delegittimazione (il referendum abrogativo del finanziamento pubblico aveva evidenziato la portata dei risentimenti vecchi e nuovi contro la partitocrazia) e presto gli omicidi di mafia e le carte di Gelli avrebbero, con ben maggiore concretezza, individuato a quale livello di degenerazione fossero ormai giunti taluni partiti di governo; i movimenti dei primi anni â€èœ70, privi di sbocchi, si erano nel frattempo spenti o dispersi per mille rivoli, alcuni tragici (ed il terrorismo e l'uso fattone aumentò la frattura già allora creatasi creatasi tra le "due società", quella dei "garantiti" e quella del precariato giovanile in crescita).

A questo punto la Costituzione fu veramente messa in crisi: e prevalse allora chi, rivendicando una sempre pi completa "autonomia della politica", impostò il proprio agire sostenendo che la capacità decisionale doveva prevalere su quella rappresentativa, e, dando concretezza all'astratta nozione di governabilità, ne fece lo strumento per iniziare lo smantellamento dello stato sociale e tutto ciò che lo accompagnava e lo sosteneva; e fu così che Bettino Craxi lanciò l'idea della "Grande Riforma" della Costituzione, che doveva rafforzare l'esecutivo, depotenziare le assemblee rappresentative ed introdurre il presidenzialismo, inaugurando una stagione in cui, per la prima volta, la Carta cessava di essere "un punto di riferimento fisso per tutti i consociati" (Pizzorusso), divenendo invece materia di contrattazione tra le varie forze politiche.
La scelta politica di comprimere le istanze sociali, che trovavano il fondamento nella prima parte della Costituzione, fu così attuata attraverso la torsione ed i progetti di revisione delle forme di governo contenuta nella sua seconda parte.
I primi colpi, com'era logico date le premesse, furono rivolti contro "la Repubblica del lavoro" e cioè, secondo l'interpretazione dell'art 1 Costituzione fornita dal Mortati, contro quei lavoratori subordinati che ne erano fondamento e presidio; ed il primo segnale venne dalla Fiat, che organizzò la marcia dei "40.000" contro gli operai dei suoi stabilimenti, per giungere poi alla decimazione dei pi combattivi delegati sindacali (e subito dopo, nella sua scia, altre grandi imprese iniziarono a ristrutturare, inaugurando la fase dei licenziamenti collettivi); forte di questi avalli e dei colpi già inferti ai lavoratori "garantiti", la maggioranza di governo, con l'accordo di San Valentino, spaccava il sindacato sulla scala mobile, procedeva a riformare quell'istituto per decreto, ottenendo poi la legittimazione della sua decisione tramite il successivo referendum: il "sindacato di classe" affrettava così la sua parabola, il lavoro, sempre pi frantumato, registrava la perdita della passata centralità, la "dignità" ad esso riconosciuta diventava un lontano ricordo (i licenziati venivano qualificati "esuberi"), l'impresa riacquistava la propria sovranità ed incidenza politica immediata.
Anche la "comunità dei partiti" conosceva rapide e pericolose trasformazioni: attenuatesi in parte le fedeltà ideologiche, rilevato il calo di partecipazione, i vertici delle maggiori formazioni politiche anzich rivitalizzare o rinnnovare i canali del consenso, avevano preferito ricercare adesioni secondo le forme del "partito pigliatutto"; già le elezioni del â€èœ79 avevano visto la partecipazione attiva delle televisioni private alla campagna elettorale e le candidature di personaggi dello spettacolo ed avevano segnato un mutamento significativo della selezione dei candidati e delle forme della propaganda politica; il nuovo corso socialista, promuovendo dunque tendenze già in atto e portando a compimento questo processo, coniugava in stretta sequenza governabilità, decisionismo e leaderismo (con ricadute istituzionali, come la modifica dei regolamenti parlamentari e la limitazione disposta per il voto segreto); nel Paese, poi, il "pentapartito" si assicurava il consenso presso un ceto medio in crescita attraverso la "combinazione perversa" tra la perdurante impunità fiscale e l'incoraggiamento all'acquisto dei titoli di stato, i cui alti tassi d'interesse venivano finanziati da un debito pubblico sempre pi fuori controllo; le televisioni spargevano ottimismo, esaltando individualismo e consumi; il tutto incentivava così questo nuovo corso che registrava il passaggio da una politica basata sulla rappresentanza ad una politica simbolicamente rappresentata (Cotturri).

Non si riuscì comunque ad incidere in profondità sulla forma delle istituzioni: la Commissione Bozzi, malgrado prevedesse il rafforzamento del premier e quello degli istituti di democrazia diretta, produsse esiti insoddisfacenti che furono lasciati cadere; ma i dirigenti del pentapartito inaugurarono invece con successo una "guerriglia istituzionale" con i poteri e gli organi di controllo, indicando una via che altri avrebbero poi percorso con decisione anche maggiore.
Si iniziò con la Corte costituzionale, le cui sentenze che impedivano il formarsi del duopolio televisivo furono dapprima eluse dai decreti pro Berlusconi del 1984, quindi platealmente sconfessate dalla legge Mammì, che legittimò il fatto compiuto, garantendo il monopolio privato della Fininvest; quando poi alcuni magistrati fecero emergere intrecci occulti tra dirigenti della DC e pezzi delle istituzioni con organizzazioni mafiose o con la P2 ed altri evidenziarono le concussioni e le corruzioni con le quali alcuni partiti incrementavano i loro finanziamenti, la reazione della maggioranza parlamentare fu ancora pi decisa ed univoca: a difesa dei vari Calvi e Teardo si schierò infatti Craxi, in persona, ripetutamente; contro i "giudici politicizzati" intervenne subito Andreotti e contro il Consiglio superiore della magistratura addirittura Cossiga, nominato Presidente della Repubblica; il Parlamento poi negò l'autorizzazione procedere nei confronti del socialista Natali, indicato come il coordinatore del sistema delle tangenti milanesi; ed a tutti i magistrati il governo, sollecitando (!) un referendum popolare sulle loro responsabilità, inviò un preciso messaggio di delegittimazione e di avvertimento.

Ma, all'inizio del decennio successivo, questi conflitti istituzionali conobbero un salto di qualità, poich fu proprio il primo "garante della Costituzione" a minare, davanti all'opinione pubblica, la legittimità stessa della Costituzione del â€èœ48: facendo un uso costante delle televisioni, con una serie di "esternazioni" a tutto campo, Cossiga attaccò con insolita violenza verbale partiti e magistrati, ricuperò i neofascisti del MSI, difese i "patrioti" della P2., ritenne maturi i tempi per una "seconda Repubblica", con a capo un Presidente dotato di maggiori poteri; a tal fine individuò, con un apposito messaggio alle camere, la necessità di un "percorso costituente" per rivedere l'ormai obsoleta Carta del â€èœ48.

Le iniziative di Cossiga si inserirono, alimentandola, in quella "rivolta popolare" contro i partiti che si tradusse innanzitutto nei due referendum del â€èœ91 e del â€èœ93 sulle leggi elettorali, preparatori di quel sistema maggioritario che avrebbe dovuto semplificare il quadro politico, introducendo in Italia la possibilità concreta dell'alternanza; ma le inchieste giudiziarie di Milano dimostrarono che proprio i partiti di governo erano stati quelli che pi si erano inoltrati nella strada della corruzione e della concussione, per cui milioni di elettori si vennero improvvisamente a trovare senza le tradizionali figure di riferimento; dal "nuovo", confusamente evocato, emersero allora, localmente, la Lega di Bossi e, a livello nazionale, il partito azienda che Berlusconi e Dell'Utri costruirono, in soli tre mesi, con altri 26 dirigenti di Publitalia, al fine di "sbarrare la strada del potere ai comunisti".
Entrambi questi partiti ben poco avevano a che vedere con quelli previsti dai costituenti all'art. 49, trattandosi di formazioni politiche "personali", dirette dai leader dotati di poteri assoluti e prive di qualsiasi articolazione democratica al loro interno; quello di Berlusconi, poi - un potere economico e mediatico fattosi immediatamente politico- costituiva una novità assoluta nelle moderne democrazie occidentali; e poich questa "macchina da guerra" prevedeva uno scontro frontale con gli avversari politici, considerati comunisti o criptocomunisti, era logico che ogni accordo per "un patto costituzionale condiviso" fosse estraneo all'orizzonte politico della coalizione da lui guidata: tuttavia saranno proprio questi i protagonisti, evocati dal popolo referendario, che si impegneranno, a partire dal 94, nel "percorso costituente" indicato da Cossiga.

In una prima fase, dopo la vittoria elettorale del 94, il Polo della libertà costituiva, con un decreto del presidente del consiglio, un Comitato di esperti appartenenti all' area politica di centro destra, presieduto dal leghista Speroni ed incaricato, tra l'altro, di "rafforzare il potere di decisione diretto dei cittadini", ma la prematura fine di quel governo rendeva inutilizzabili i peraltro scarsi risultati raggiunti: l'iniziativa era stata del governo e non del Parlamento, gli esperti erano in sintonia con la sola maggioranza, le proposte da presentare avevano avuto un obiettivo ben preciso; ma, per i grandi mezzi mediatici posseduti dall'azienda di Forza Italia, l'iniziativa era stata presentata come una battaglia del popolo che intendeva chiudere la vicenda della "Prima Repubblica"e che sino ad allora non aveva potuto farlo per colpa dei conservatori e dei comunisti tuttora alla guida del centrosinistra.
In una seconda fase, nel gennaio 97, l'ansia di riformare la Costituzione veniva fatta propria anche dal centrosinistra,con il varo di una nuova Commissione bicamerale presieduta da D'Alema: in questo caso l'iniziativa era del Parlamento, la partecipazione equamente divisa tra componenti della maggioranza e della opposizione, il tema, aperto, riguardava le "riforme costituzionali in materia di forma stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie". Rimaneva il fatto, non certo secondario, che una volta approvata dal Parlamento, la legge di revisione avrebbe dovuto essere confermata (o respinta) in blocco da un referendum e cioè da un plebiscito (Pizzorusso), così come a suo tempo indicato da Miglio e Cossiga.
Il Polo delle libertà, ottenute sostanziose adesioni alle sue proposte volte a dividere la magistratura ed il suo organo di autogoverno, insoddisfatto per le soluzioni di compromesso adottate invece per altri istituti (Presidenza della Repubblica e premierato), bloccava platealmente l'iter della legge e, cambiando strategia e sfruttando le divisioni degli avversari, prometteva a tutti un nuovo miracolo economico e si avviava a vincere le elezioni del 2001.

Il 13 luglio il maggioritario consegnava ai vincitori, ben al di là degli effettivi voti di lista, maggioranze schiaccianti in entrambe le Camere; ed il Polo chiariva subito nei fatti che la democrazia di cui parlava altro non era che una procedura necessaria per eleggere una maggioranza ed un suo capo, cui venivano in tal modo conferiti pieni poteri: in sede di governo, Berlusconi poteva coordinare i propri numerosi interessi, uscendo se mai al momento delle decisioni e facendo votare per lui i fedeli alleati; alle Camere le leggi che la maggioranza riteneva di dover approvare non richiedevano una confronto reale con le opposizioni, e, se queste volevano discuterle, i tempi loro concessi erano limitati dalle nuove norme regolamentari e dall' interpretazione datane dai Presidenti; se poi erano i rappresentanti dei partiti satelliti a disturbare o a tergiversare, si inanellavano i voti di fiducia e si moltiplicavano gli scambi all'interno della sola maggioranza.
I frutti di questo decisionismo sono ampiamente noti: leggi criminogene (i 15 condoni di Tremonti), leggi personali (quelle sui processi penali), leggi razziste (la Bossi-Fini uno e due), nonchè quelle bocciate ripetutamente dalla Corte costituzionale; per i giovani che manifestavano per la pace a Genova veniva sperimentata la tolleranza zero della Diaz e di Bolzaneto; per i lavoratori veniva varata una normativa che, nell'interesse delle imprese, prevedeva per loro oltre venti ipotesi di impieghi precari; per gli studenti veniva riscoperta la scuola pubblica di classe ed incentivata invece quella privata; per le donne infine veniva varata l'umiliante legge sulla fecondazione assistita e, periodicamente, veniva prospettata la minaccia di rivedere quella sull'aborto (ultimo sberleffo, la penosa vicenda delle quote rosa). Il tutto in nome della libertà, contro il pericolo del ritorno dei comunisti, come il monopolista delle televisioni e i suoi portavoce non si sono stancati di ripetere tutti i giorni, senza contraddittorio, entrando nelle case di ogni teleutente.

Dopo aver declinato in tal modo nozioni quali libertà, democrazia e parlamentarismo, il Polo di Berlusconi ha deciso infine di portare a compimento la sua "marcia dentro le istituzioni", riprendendo con forza l'idea di riformare la Costituzione: naturalmente, dopo aver per anni trasformato ogni avversario politico in un nemico, non si è avvalso delle procedure "tradizionali" delle bicamerali o delle Assemblee costituenti, pure richieste quando era all'opposizione, ma ha preferito seguire l'insegnamento di Miglio secondo cui la Costituzione non è un sistema organico di regole condivise, ma è invece "un patto che i vincitori impongono ai vinti": di qui l'incarico di elaborare una nuova Carta dato a quattro "esperti" della maggioranza riunitisi in una baita.
Il risultato ha rispettato le premesse: copiando qua e là tra le varie costituzioni esistenti, i "saggi" hanno riscritto una cinquantina di articoli del testo originario ed hanno elaborato una legge che poi una maggioranza blindata, ormai minoranza nel paese, ha varato definitivamente il 16 novembre 2005: questa non è una data come un'altra, anche se non molti hanno dimostrato di averlo compreso; quel giorno il Parlamento, guidato dal Polo delle libertà, ha semplicemente abolito il parlamentarismo, posto le camere alla dipendenza del primo ministro, reso superfluo il ruolo delle opposizioni, depotenziato il ruolo di controllo degli organi di garanzia.
Secondo il nuovo testo approvato, infatti, il premier nominerà e revocherà personalmente i suoi ministri (art. 95); il governo non dovrà avere la fiducia dei parlamentari, ma sarà invece il primo ministro a determinare lo scioglimento della Camera dei deputati, se insoddisfatto del suo funzionamento (art. 88); solo la maggioranza potrà proporre - caso di scuola - una mozione di sfiducia costruttiva, designando al suo interno un nuovo primo ministro; i parlamentari della minoranza non avranno analogo potere, essendo i loro voti espressamente ritenuti irrilevanti (art. 94); la Corte costituzionale verrà modificata, con l'aumento dei giudici di nomina latu sensu politica, nella concreta attesa di giurisprudenze pi "comprensive" (art. 135); per la magistratura ordinaria già si è provveduto (ma si può sempre peggiorare con le ulteriori, già prospettate, modifiche costituzionali mirate).

I partiti di una minoranza del paese hanno quindi cancellato gran parte della Carta del â€èœ48, trasformando, tra baratti e voti di fiducia, una democrazia pluralista in un anomalo esempio di monocrazia elettiva (Ferrara); poi, per evitare la prevista sconfitta elettorale, hanno buttato a mare dieci anni di chiacchiere sul sistema maggioritario e, studiando sondaggi, circoscrizioni e possibili alleanze (ivi compresa quella coi fascisti dichiarati), hanno cambiato improvvisamente anche le regole elettorali, introducendo una normativa che, impedendo al cittadino di scegliere tra i vari candidati delle singole liste, ha delegato alle segreterie dei partiti la nomina diretta del 90% dei futuri membri del Parlamento.

La crisi del sistema dei partiti è giunta così ad una svolta cruciale: quelli al governo hanno impresso un'accelerazione ulteriore per trasformare il regime mediatico in atto in un regime autocratico compiuto; quelli, un po' esangui, rimasti in questi anni all'opposizione, non sono riusciti, a tacer d'altro, ad impedire che il Parlamento, in cui pure erano presenti numerosi, abrogasse non questa o quella legge di garanzia, ma addirittura l'intera seconda parte della Costituzione; e si è visto come queste modifiche non siano mera "ingegneria istituzionale", ma siano in funzione di un decisionismo volto a ridimensionare i diritti previsti nella prima parte della Carta.

Ora la parola passa ai cittadini; e quelli che si oppongono a questa riduzione della democrazia a mera procedura volta ad eleggere un capo ed un governo hanno davanti a loro una strada obbligata, quella di utilizzare il voto di aprile per impedire al Polo della libertà di portare a termine la sua svolta autoritaria e quello di giugno per spazzare via il lavoro già fatto in questa direzione. Ma agli stessi cittadini spetta un compito ancora pi gravoso: partecipare in massa al referendum istituzionale, perch eliminare la legge del Polo non basta, se non si fa comprendere, in primo luogo ai partiti dell'attuale opposizione, che la "società civile e riflessiva" ritiene insufficiente, per non dire altro, l'attenzione da essi dedicata a questa vera e propria emergenza democratica; e che, in futuro, prima di impegnarsi nuovamente in contingenti, spesso astruse, operazioni di "ingegneria costituzionale" sarà bene fare il punto su due o tre cose preliminari e necessarie: quali debbano essere oggi le forme, i canali e l' estensione della rappresentanza politica; quale peso debbano avere le questioni dell'istruzione, dell'informazione, del lavoro e della pace nel definire la qualità del processo democratico; e, infine, domandarsi se le istituzioni della Repubblica abbiano ancora il dovere di dare concretezza ai diritti civili e sociali previsti dalla Costituzione o se invece possano continuare ad ignorarli o, peggio, delegittimarli o svuotarli in silenzio, in nome della sovranità dei mercati, per la tranquillità delle oligarchie e nell'indifferenza dei teleutenti.

30 04 2006
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