[Area] CSM e modello Saramago

Braccialini Roberto roberto.braccialini a giustizia.it
Sab 30 Set 2017 12:38:45 CEST


Da qualche  tempo qualcuno di noi  lamenta, sulle nostre mailing list e altrove, una presunta “separatezza” tra la nostra rappresentanza consiliare e la mitica “base”, soprattutto dopo alcune discusse nomine apicali.

Io credo che questa separatezza sia frutto di un paio di precise scelte culturali che definirei il nostro “modello Saramago” (l’indimenticabile autore di “Cecità”): quello che conduce dritti filati al “vicolo cieco delle decisioni al buio”, come mi è scappato di dire recentemente.

Mi spiego meglio. A monte, abbiamo un meccanismo di selezione delle candidature al CSM  che, se non opportunamente messo a punto, rischia di produrre una pattuglia di consiglieri che si riconosce, prima ancora che nelle Carte dei valori ecc., quale  espressione delle rappresentanze territoriali cui essi devono la loro candidatura, primariato, elezione. Ne abbiamo già parlato in tema di primarie cogliendo la distanza che intercorre tra un’ala “strutturata” che parla di un’AREA DG ormai matura per poter decidere in proprio sulle sue candidature, ed un’ala “movimentista” che teme gli steccati e l’impossibilità di far colare per li rami, verso tutti indistintamente i colleghi, i valori distintivi del gruppo. Sul punto ho detto la mia e non ci torno, ma spero che il dibattito interno non sia già chiuso.

Il secondo pilastro del modello Saramago è dato dall’ideologia dell’autosufficienza del Consiglio Superiore e dalla percezione ai limiti dell’“indebita interferenza” di ogni comunicazione/segnalazione scambiata tra il livello locale di AREA e la rappresentanza consiliare: in tale chiave, dovrebbero bastare ed avanzare gli strumenti conoscitivi istituzionali.

Non starò a ricordare quanto le strade dell’inferno siano sempre lastricate di buone intenzioni e quanto quotidianamente si tocchi con mano la fallacia di un sistema di trasmissione delle conoscenze che, mentre si preoccupa di ampliare le fonti conoscitive per i consigli giudiziari, nello stesse tempo taglia le fonti comunicative spurie, ma non per questo meno ricche o precise, per il Consiglio Superiore.

Mi basti dire, a titoli di esempio, che qualche mese abbiamo rischiato di vedere votat* dalla nostra rappresentanza consiliare per un nostro ufficio semidirettivo un* candidat* che aveva al suo attivo due procedimenti disciplinari, di contro ad un* candidat* che nel settore specifico era uno dei lustri della giurisprudenza nazionale.

Sarò giurassico ma rivendico, come preciso dovere della rappresentanza consiliare e dei referenti delle sedi territoriali, la necessità di comunicare tra di loro quando le scelte da fare vadano oltre il livello della semplice routine ma assumano  un valore politico o di indirizzo: non sto certo parlando dell’autopromozione pubblicitaria delle candidature singole, ma delle situazioni nelle quali i competitori incarnino sensibilità, modi di lavorare diversi ed una diversa visione dell’ufficio. Senza, per la santa carità, alcun vincolo di mandato; ma anche senza la presunzione che le relazioni e informative istituzionali esauriscano l’intera materia istruttoria.

Anche qui, mi spiego con un esempio di quello che mi è sempre sembrato un modello decisionale corretto. E’ la terza volta che mi trovo a citare il Consiglio Nazionale di MD in cui si dibattè della scelta consiliare tra Meli e Falcone: ai giorni nostri, forse, sarebbe concepito e vissuto come un’indebita intrusione?

All’epoca, i nostri (si può ancora dire “i nostri”?) consiglieri esposero le ragioni delle loro diverse opinioni. Parlarono le voci informate dal di dentro degli uffici (i vari Conte, Di Lello ecc.), poi molti altri aggiunsero il loro contributo e punto di vista. I consiglieri superiori non furono “coartati” ma poterono decidere con uno spettro informativo e valutativo molto maggiore di quello discendente dai soli incarti consiliari.

Ecco, grazie alla nuova ideologia dell’autosufficienza consiliare noi  siamo riusciti a sterilizzare totalmente la dimensione politica del conflitto, propria di alcune decisioni strategiche, e anche qui preferisco spiegarmi con un esempio concreto.

Ho seguito con imperdonabile superficialità il dibattito interno che ha fatto seguito al dilemma MELILLO o CAFIERO,  e quindi mi è sfuggito un interrogativo di base. Ho solo capito che eravamo di fronte ad uno scontro tra due eccezionalità e che venivano in conflitto il nostro retroterra culturale ostile alle carriere parallele e la questione delle incompatibilità parentali. Ma non ho ancora capito una cosa: quale diverso modello organizzativo esprimevano i due candidati? Cosa volevano fare per organizzare/riorganizzare l’ufficio inquirente per cui si erano candidati? Quali le priorità strategiche, i moduli organizzativi alternativi, i rapporti da costruire con la p.g. ecc. ecc.?

Spero vivamente che nel prossimo resoconto sulle vicende della V Commissione, che ragionevolmente farà seguito agli interessanti spunti informativi già forniti dai nostri consiglieri per la VII e l’VIII Commissione, avremo modo di sapere qualcosa di più su come  sono stati esercitati i poteri di audizione dei candidati agli uffici direttivi nei casi più problematici e controversi.

L’effetto culturale di questo progressivo scollamento tra il livello operativo territoriale e quello istituzionale per la ritenuta autosufficienza del procedimento consiliare si coglie  anche in una conseguenza, non inosservata, che però non sembra averci ancora allarmato come dovrebbe.

Preoccupati dalle carriere parallele all’esterno della magistratura (timore non peregrino), siamo decisamente meno attenti alle carriere parallele che si stanno costruendo al nostro interno con la rincorsa agli incarichi istituzionali e di collaborazione direttiva che, alla fine, valgono come tante medagliette; dimenticando che in questo modo svalutiamo fortemente il lavoro quotidiano fatto negli uffici.

Abbiamo letto le interessanti analisi riprese nell’articolo di Donatella STASIO sulla rinascita del carrierismo in magistratura. Vorrei aggiungere un piccolo tocco di colore per confermare la pericolosità di un approccio valutativo che obiettivamente favorisce gli scalatori in danno degli spalatori.

Se in una sezione di 5 magistrati ce ne sono 2 che, per incarichi istituzionali, hanno un esonero complessivo del 60%, gli altri tre si divideranno questa percentuale trovandosi un carico di lavoro aumentato del 20%, mentre sarà sempre pari a 100 il carico di lavoro degli esonerati. Questi ultimi potranno esibire tutti i lustrini che meritano, ma nessuno si accorgerà mai che ci sono stati 3 rematori semplici che hanno portato sulla schiena un carico lavorativo aggiuntivo.

Oltre ai  limiti culturali di cui parlavo, la lontananza tra la sfera decisionale e quella conoscitiva nell’attività consiliare  è alimentata anche da altre meno nobili e più prosaiche ragioni, che possiamo definire piccoli incidenti di percorso. Pensiamo ai tempi di messa all’ordine del giorno e deliberazione delle scelte in discussione, alla completezza e fedeltà delle relazioni contrapposte (in un mondo di eccezionalità indistinte), alla possibilità di interloquire su queste ultime, al vuoto informativo sistematico che si realizza tra la scadenza del bando ed il momento della decisione consiliare, spesso a distanza di mesi… L’attenzione per questi dettagli dovrebbe far parte di un vademecum dell’accorto consigliere, che si potrebbe andare a pubblicare a beneficio dei candidati a ridosso della temperie elettorale.

Di sicuro c’è il fatto che ci sono anche meccanismi amministrativi e tecniche decisionali che agevolano le decisioni al buio (quando va bene). Mentre proprio l’esigenza di individuare non il candidato “migliore” in assoluto, ma quello “più idoneo” rispetto alle specifiche necessità del singolo ufficio vacante – di cui ha parlato Marcello BASILICO in una prospettiva che assolutamente  condivido – dovrebbe portare ad una maggiore trasmigrazione di dati informativi dal livello territoriale alla sede decisionale centrale, anche perché il compendio informativo odierno è tutto congegnato in termini di autopromozione dei candidati, non di analisi e valutazione delle esigenze concrete di uno specifico ufficio (che possono essere ovviamente anche molto diverse  tra uffici dello stesso tipo): ma queste, chi le conosce davvero?

Insomma, mi manca un pò il mondo di ieri in cui non c’era bisogno di teorizzare alcun modello comunicativo, ma era direttamente il consigliere superiore a sentire come proprio il dovere di ascoltare anche l’opinione, nei casi che lo meritavano, dei referenti locali del gruppo; libero poi di poter determinarsi come ritenuto più opportuno, ma mai autorizzato a dire: “Non lo sapevo”.

Chiudo, e mi sembra di aver parlato anche troppo. Ma spero che qualche spunto venga raccolto per tempo prima che si debbano leggere ulteriori comunicazioni sulla non conoscenza di certe realtà o candidature, per poi doverci preoccupare (prima e dopo le elezioni) di come rimediare alle nostre inadeguatezze.

Cari saluti a tutti

rbrcc

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