[Area] 23 maggio 1992: In quella voragine è finita anche una parte dello Stato

Domenico Ielasi domenico.ielasi a giustizia.it
Sab 25 Maggio 2019 13:13:31 CEST


La condivisibile considerazione di Stefano Musolino sulla utile opportunità di svolgere diversi ruoli nell'ambito della giurisdizione richiama alla mia memoria una riflessione proprio di Giovanni Falcone su quanto gli fosse tornata utile nella nuova funzione di G.I. la pregressa attività di Giudice delegato ai fallimenti presso il Tribunale di Trapani. Era la primavera del 1984 ed eravamo a Palermo, dove si svolgeva un convegno fra Pubblici Ministeri e Giudici Istruttori che trattavamo processi di mafia. Non è stata, quella, l'unica occasione di incontro. Sin dai primi anni ottanta avevamo ravvisato la necessità del collegamento fra Uffici Giudiziari omologhi, e, pertanto, ci incontravamo spesso in luoghi diversi non solo per lo scambio di informazioni relative alle indagini, ma anche per darci coraggio, dal momento che vivevamo abbastanza isolati nei nostri rispettivi contesti professionali, come testualmente riportato dal compianto Ferdinando Imposimato nel suo libro dal titolo molto significativo per il caso di specie “la Repubblica delle stragi impunite”. In quel periodo cominciava ad affiorare il pentitismo di mafia, subito contrastato dai maggiorenti politici dell'epoca, oltre che da un non esiguo schieramento di “addetti ai lavori” e di intellettuali. Questi ultimi, in particolare, oltre a delineare una errata e offensiva immagine di professionisti dell'antimafia, sostenevano la non configurabilità del “pentito di mafia”, concepibile invece per il terrorista politicizzato. Dogma che qualche anno dopo sarà smentito da più di un mafioso, il cui pentimento sembra avvicinarsi molto al significato extraprocessuale del termine: penso alle dichiarazioni dello Spatuzza, colpito dal rimorso per gli efferati omicidi del piccolo Giuseppe Di Matteo e del Beato Pino Puglisi, ma pure a quelle del Messina Leonardo, al cui pentimento avrebbe contribuito il nobile monito della vedova di Vito Schifani (“io vi perdono, ma dovete inginocchiarvi”). In fondo - magari molto in fondo ! - una scintilla di umanità può scoccare anche nell'animo dell'essere più malvagio. Sta di fatto che quel primo affiorare di pentitismo di mafia è rimasto sotterrato sotto la valanga referendaria della responsabilità civile dei Magistrati, che aveva ampiamente strumentalizzato il “caso Tortora”. Ha resistito invece a quella prima “onda d'urto” la gestione del maxiprocesso scaturito dal teorema Buscetta, in virtù della grande professionalità di quanti se ne sono occupati, in primis Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E gli effetti di quel grande lavoro, fatto di professionalità e coraggio, nemmeno il tritolo di Capaci e di via D'Amelio ha potuto, né potrà, disperderli fra le voragini causate dalle bombe, a condizione che quel “motore che ha dato forza allo Stato”, menzionato dal Presidente della Repubblica e del CSM, continui a girare ogni giorno dell'anno, non solo in occasione delle manifestazioni celebrative, come purtroppo temo. Ma, forse, è il pessimismo della ragione indotto dal mio ormai biennale status di magistrato a riposo (forzato) a farmi pensare che, se sin dalla metà degli anni ottanta si fossero coagulate le sinergie idonee a rafforzare le norme di contrasto a tutte le forme di criminalità organizzata, e non solo mafiosa, senza dover poi scendere a patti con nessuno, si sarebbe potuto evitare lo spargimento di altro sangue di eroici Servitori dello Stato. Domenico Ielasi


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Inviato: giovedì 23 maggio 2019 09:22
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Oggetto: [Area] 23 maggio 1992: In quella voragine è finita anche una parte dello Stato


In quella voragine è finita anche una parte dello Stato

 Il Manifesto, 23 maggio 2019

 Ventisette anni fa, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, sapevano di rischiare molto, ma rappresentavano lo Stato e dovevano garantire la sicurezza dei magistrati che li precedevano nella carovana di autovetture che percorreva l’autostrada in direzione Palermo. Davanti a loro Francesca Morvillo e Giovanni Falcone; quest’ultimo era appena rientrato da Roma dove era stato chiamato dal Ministro della giustizia alla direzione degli Affari penali di quel Dicastero. Per ucciderli fu fatta esplodere una tonnellata di tritolo.

Non è stato facile interpretare l’operato di Giovani Falcone, quando era in vita. Ci furono molti fraintendimenti inspirati da altrettanti pregiudizi. Neanche Magistratura democratica ne fu esente, perché non seppe cogliere la specialità e la complessità in cui Falcone agiva.

Ma la complessità dell’uomo continua ad offrirci attuali spunti di riflessione.

Giovanni Falcone per diversi anni fu giudice civile e quell’esperienza fu decisiva per innovare la modalità di coordinamento delle indagini da giudice istruttore prima e da pubblico ministero, poi; la possibilità di svolgere ruoli giudicanti e requirenti – che già oggi sono fortemente ostacolati e che si vorrebbe definitivamente inibire – gli consentì una fruttuosa commistione di saperi e di esperienze che egli fu capace di sintetizzare nella sua attività inquirente.

Questa sua capacità di progettare l’investigazione, da una prospettiva diversa dagli schemi sin lì praticati, fu gravida di felici intuizioni: il lavoro di gruppo, il costante scambio di informazioni nell’ufficio e tra uffici, la specializzazione che affina le conoscenze; ma anche un esercizio prudente ed attento dell’azione cautelare e di quella penale, al punto da essere accusato di proteggere livelli superiori, la cui esistenza era, spesso, frutto di teorie complottistiche, prive di riscontri processuali.

Elogiare Giovanni Falcone impone di fare i conti con il suo stile professionale che mal si concilia con gli slogan del populismo penale, con le teorie cospirative, con la paura della complessità ed i tanti cavalieri bianchi privi di dubbi e carichi di certezze con cui addomesticare i diffusi timori sociali, sapientemente alimentati da chi ne trae profitto. Mille chili di tritolo hanno aperto un voragine e quella voragine ci ha privato di uomini di valore.

Ma in quella voragine è finita anche una parte dello Stato che quegli uomini e quella donna rappresentavano, singolarmente e nella dimensione collettiva di quel tragico momento.

La nostra strada di magistrati è ancora piena di quelle metaforiche voragini, perché c’è sempre il rischio che una parte dello Stato che rappresentiamo possa restarvi intrappolata tra tentazioni carrieristiche, timori reverenziali, atteggiamenti burocratici ed individualismi esasperati.

Speriamo che il gusto per la complessità, l’arte del discernimento, il senso profondo della giustizia, che animarono l’operato di Falcone, insieme allo spirito di sacrificio di Schifani, Montinaro, Dicillo ed all’amore profondo di Francesca Morvillo, possano essere la bussola per le nostre scelte ed i nostri comportamenti.

Allora potremo dire davvero che non sono morti invano.

Stefano Musolino,

sostituto procuratore della Repubblica presso la Dda di Reggio Calabria e componente dell’Esecutivo di Magistratura democratica


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