[Area] la dimensione tragica della vita

mario ardigo marioardigo a yahoo.com
Mer 1 Apr 2020 09:25:07 CEST


 Di questi tempi noto la difficoltà di affrontare la dimensione tragica della vita.  Dopo gli anni '40 in Italia non se ne è più fatta vera esperienza, come invece poté avvenire durante le guerre mondiali. Gli eventi che in Italia più le si sono avvicinati sono quelli vissuti durante i terremoti. Tuttavia la pandemia da Covid19 li supera di gran lunga. Basti pensare che il devastante terremoto in Friuli del '76 fece poco meno di mille morti.  Quello, tremendo, in Irpinia del 1980, quasi tremila. Numeri lontani da quelli dell'attuale crisi.  Naturalmente nella pandemia mancano le devastazioni dei contesti urbani, le case rimangono in piedi, ma l'impatto sulla popolazione è fortissimo, con limitazioni di movimento che ricordano quelle imposte nei periodi bellici.   Tutte le istituzioni pubbliche sono sottoposte a una elevata pressione. La loro risposta condiziona il mantenimento di un contesto civile. La borsa nera e le rivolte locali, organizzate da bande armate, sono alcuni dei più temibili effetti collaterali nel caso di cedimento dell'organizzazione pubblica. La tenuta di quest'ultima dipende anche da un certo livello di civismo che gli italiani, di solito piuttosto diffamati in questo campo, si stanno dimostrando capaci. Nessun dispositivo di polizia potrebbe avere ragione di un'indisciplina generalizzata.  Un'analogia con i periodi bellici vi  è nel fatto che solo alcuni settori della popolazione sono impegnati su un fronte, che è quello sanitario e dei servizi ritenuti essenziali. In essi si riscontrano caduti e feriti, come in una guerra.  La gran parte del resto della popolazione è sostanzialmente costretta all'inazione, al "restate a casa". C'è però chi comincia a soffrire la carenza di beni essenziali per la sopravvivenza. Sono le fasce di popolazione che vive di lavori altamente precari e con rapporti non formalizzati, i senza tetto, chi riesce a sopravvivere solo di espedienti. Di questi tempi l'azione di una fitta rete di organizzazioni caritative su base di volontariato soccorre, e anche questo è civismo. La stessa organizzazione pubblica della Protezione Civile conta su una vasto numero di volontari. Spesso chi  coinvolto in questa emergenza come volontario è esposto ad un maggior rischio di contagio, al pari di chi lo deve fare come professione. Ancora non ho letto statistiche in merito, salvo che per i preti cattolici, tra i quali si riscontrano decine di decessi nel nord Italia.    Solo i molto anziani hanno memoria di qualcosa di simile. Questo comporta che il resto della popolazione non vi è preparato. Da questo lo slogan "Andrà tutto bene". Già, però, va molto male, con oltre dodicimila morti, e non è finita. Si vive sostanzialmente l'emergenza  come in un intermezzo, tra un prima in cui si stava bene e un dopo in cui si riprenderà a stare bene.  Sono sopite le lamentazioni di prima su ciò che non andava bene.  Questo stato d'animo si vive anche in religione, mi pare. Si manifesta la religione prevalentemente come aiuto psicologico per reggere in questo interludio tragico. Da ciò una certa insufficienza nella predicazione. E' stato osservato che nelle teologie correnti si è rinunciato in genere all'idea del flagello come punizione divina, ma, a quel punto, anche alla fiducia ingenua di poterne essere tratti fuori per grazia divina. E questo anche se nelle liturgie sono talvolta ancora mantenute evocazioni magico-sacrali.   Dal 2011 si è vissuta in Italia una profonda rivoluzione nella politica nazionale, con la quasi completa sostituzione della classe dirigente. Anche in questo campo, le guide appaiono insufficienti nell'interpretazione della realtà che si sta vivendo. Mi pare in particolare che, salvo alcune virtuose eccezioni,  siano poco capaci di mantenere a lungo un atteggiamento di serietà, non rinunciano alla battutina brillante, alla polemica spicciola e via dicendo, come prima. E questo anche se, per coloro che, a tutti i livelli, sono coinvolti nel governo della crisi da pandemia e nella correlata depressione economica, questa esperienza sarà probabilmente altamente formativa, ne usciranno profondamente cambiati, e probabilmente migliori di prima. E' una dura scuola quella delle tragedie della vita, da essa uscì la classe politica che costruì la nuova Repubblica democratica, sulle rovine dello Regno fascistizzato.   La tragedia è, in realtà, una condizione permanente della vita umana. Nell'Occidente ricco è però spesso vissuta  prevalentemente come un fatto individuale o familiare, come malasorte,  non tanto collettivo, salvo i periodici disastri naturali che ci si abbattono contro. "A chi tocca, tocca", ho sentito dire. L'ha detto anche il presidente brasiliano qualche giorno fa. Ora tocca a tutti, tutti ne risentono, non solo quelli che si aggravano in ospedale e quelli che rischiano la salute per soccorrerli.  Certo, la vita umana non è solo  tragedia, ma la tragedia non è solo un intermezzo tra un prima e un dopo in cui si sta bene. La sapienza tragica si apprende e si apprende collettivamente. A questo servono le liturgie civili e religiose. Le tragedie inscenate come rappresentazioni teatrali nell'antica Grecia avevano proprio questa funzione educativa, e non a caso in tempi come questi vi si fa ancora riferimento. Di liturgie simili non mi pare che siamo più capaci, per cui le predicazioni civili e religiose che si fanno mi paiono per lo più futili e, comunque, insufficienti. I grandi templi che ancora sono in esercizio tra noi mi sembrano tutto sommato una cornice inadeguata, nella loro inutile iattanza. Ma noi stessi, tutti, in genere lo siamo, mi pare.  L'inazione certamente deprime. In questo c'è una notevole differenza rispetto, ad esempio, alla guerra civile italiana '43/'45, in cui chi voleva poteva darsi da fare. In particolare gli uomini, per i quali il darsi da fare richiama istintivamente il menare le mani. Ora  è invece l'ora di un darsi da fare diverso, di precisione, di accudimento, che comporta sapienza e competenza professionale, non lo scomposto agitarsi dell'assalto bellico, l' "ammazza-ammazza" tutto sommato bambinesco, dei nostri giochi di fanciulli. E non soccorre lo smanettare sui nostri dispositivi telematici, che ci rendono, in fondo, solo la realtà, insufficiente, in cui siamo immersi, sono come uno specchio, in un momento in cui invece vorremmo vedere lontano, oltre ciò che stiamo vivendo. E anche le liturgie religiose, che qualche volta sono piuttosto coinvolgenti vissute di persona, trasferite su un network appaiono depotenziate, trasformate nella stessa realtà evanescente degli altri sogni che ci passano davanti sullo schermo, e questo  anche se attraverso quest'ultimo talvolta ci dovremmo convincere addirittura di essere perdonati dal Cielo. No, il Cielo non riesce a passare nei network, ne viene come triturato. Senza possibilità di relazioni personali reali, il messaggio stenta a passare. Che fare, dunque?  C'è una soluzione che è quella attuata da certi ordini di monaci, sulla scorta del "prega e datti da fare" di Benedetto da Norcia. Evitare che l'inazione diventi accidia. Darsi una regola di vita anche nell'isolamento e poi rispettarla con pervicacia. Una regola che comporti un darsi da fare, un lavorare, secondo un programma preciso, meglio se cercando di accudire, soccorrere o almeno consolare persone reali. Qualcosa che non assomigli solo a un solitario con le carte o a un videogioco. E poi, su quella base, la sera, meditare sull'esperienza che si sta vivendo, collocando la tragedia all'interno di una vita che può essere anche bella ma che comporta di farne esperienza.Mario Ardigò
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