[Area] la dimensione tragica della vita

thorgiov thorgiov a libero.it
Mer 1 Apr 2020 20:58:32 CEST


C'era un tempo in cui il senso della morte era presente nella vita di 
tutti. Nella famiglia di provenienza di mio padre, che era una famiglia 
contadina, nacquero sei figli, e tre di essi morirono da piccoli, per 
malattie varie. Gli altri tre rimasero in vita per oltre ottanta anni. 
Nella società moderna, rimbambita da un immaginario edonistico costruito 
sulla futilità, sulla indispensabilità del superfluo, manca il 
sentimento di ciò che è veramente essenziale. L'epidemia colpisce in 
modo violento e imprevisto, perchè avevamo creduto che le nostre 
credenze, i nostri valori, fossero uno scudo valido contro qualunque 
evento. Non è così, e la natura si prende la sua rivincita contro la 
civiltà.

FELICE   PIZZI  ( Giudice del Tribunale di Napoli Nord )

Il 01/04/2020 09:25, mario ardigo ha scritto:
>  Di questi tempi noto la difficoltà di affrontare la dimensione 
> tragica della vita.
>  Dopo gli anni '40 in Italia non se ne è più fatta vera esperienza, 
> come invece poté avvenire durante le guerre mondiali. Gli eventi che 
> in Italia più le si sono avvicinati sono quelli vissuti durante i 
> terremoti. Tuttavia la pandemia da Covid19 li supera di gran lunga. 
> Basti pensare che il devastante terremoto in Friuli del '76 fece poco 
> meno di mille morti.  Quello, tremendo, in Irpinia del 1980, quasi 
> tremila. Numeri lontani da quelli dell'attuale crisi.  Naturalmente 
> nella pandemia mancano le devastazioni dei contesti urbani, le case 
> rimangono in piedi, ma l'impatto sulla popolazione è fortissimo, con 
> limitazioni di movimento che ricordano quelle imposte nei periodi 
> bellici.
>   Tutte le istituzioni pubbliche sono sottoposte a una elevata 
> pressione. La loro risposta condiziona il mantenimento di un contesto 
> civile. La borsa nera e le rivolte locali, organizzate da bande 
> armate, sono alcuni dei più temibili effetti collaterali nel caso di 
> cedimento dell'organizzazione pubblica. La tenuta di quest'ultima 
> dipende anche da un certo livello di civismo che gli italiani, di 
> solito piuttosto diffamati in questo campo, si stanno dimostrando 
> capaci. Nessun dispositivo di polizia potrebbe avere ragione di 
> un'indisciplina generalizzata.
>   Un'analogia con i periodi bellici vi  è nel fatto che solo alcuni 
> settori della popolazione sono impegnati su un /fronte/, che è quello 
> sanitario e dei servizi ritenuti essenziali. In essi si riscontrano 
> caduti e feriti, come in una guerra.  La gran parte del resto della 
> popolazione è sostanzialmente costretta all'inazione, al "restate a 
> casa". C'è però chi comincia a soffrire la carenza di beni essenziali 
> per la sopravvivenza. Sono le fasce di popolazione che vive di lavori 
> altamente precari e con rapporti non formalizzati, i senza tetto, chi 
> riesce a sopravvivere solo di espedienti. Di questi tempi l'azione di 
> una fitta rete di organizzazioni caritative su base di volontariato 
> soccorre, e anche questo è civismo. La stessa organizzazione pubblica 
> della Protezione Civile conta su una vasto numero di volontari. Spesso 
> chi  coinvolto in questa emergenza come volontario è esposto ad un 
> maggior rischio di contagio, al pari di chi lo deve fare come 
> professione. Ancora non ho letto statistiche in merito, salvo che per 
> i preti cattolici, tra i quali si riscontrano decine di decessi nel 
> nord Italia.
>    Solo i molto anziani hanno memoria di qualcosa di simile. Questo 
> comporta che il resto della popolazione non vi è preparato. Da questo 
> lo slogan "Andrà tutto bene". Già, però, va molto male, con oltre 
> dodicimila morti, e non è finita. Si vive sostanzialmente l'emergenza  
> come in un intermezzo, tra un prima in cui si stava bene e un dopo in 
> cui si riprenderà a stare bene.  Sono sopite le lamentazioni di prima 
> su ciò che non andava bene.
>  Questo stato d'animo si vive anche in religione, mi pare. Si 
> manifesta la religione prevalentemente come aiuto psicologico per 
> reggere in questo interludio tragico. Da ciò una certa insufficienza 
> nella predicazione. E' stato osservato che nelle teologie correnti si 
> è rinunciato in genere all'idea del flagello come punizione divina, 
> ma, a quel punto, anche alla fiducia ingenua di poterne essere tratti 
> fuori per grazia divina. E questo anche se nelle liturgie sono 
> talvolta ancora mantenute evocazioni magico-sacrali.
>   Dal 2011 si è vissuta in Italia una profonda rivoluzione nella 
> politica nazionale, con la quasi completa sostituzione della classe 
> dirigente. Anche in questo campo, le guide appaiono insufficienti 
> nell'interpretazione della realtà che si sta vivendo. Mi pare in 
> particolare che, salvo alcune virtuose eccezioni,  siano poco capaci 
> di mantenere a lungo un atteggiamento di serietà, non rinunciano alla 
> battutina brillante, alla polemica spicciola e via dicendo, come 
> prima. E questo anche se, per coloro che, a tutti i livelli, sono 
> coinvolti nel governo della crisi da pandemia e nella correlata 
> depressione economica, questa esperienza sarà probabilmente altamente 
> formativa, ne usciranno profondamente cambiati, e probabilmente 
> migliori di prima. E' una dura scuola quella delle tragedie della 
> vita, da essa uscì la classe politica che costruì la nuova Repubblica 
> democratica, sulle rovine dello Regno fascistizzato.
>   La tragedia è, in realtà, una condizione permanente della vita 
> umana. Nell'Occidente ricco è però spesso vissuta  prevalentemente 
> come un fatto individuale o familiare, come /malasorte/,  non tanto 
> collettivo, salvo i periodici disastri naturali che ci si abbattono 
> contro. "A chi tocca, tocca", ho sentito dire. L'ha detto anche il 
> presidente brasiliano qualche giorno fa. Ora tocca a tutti, tutti ne 
> risentono, non solo quelli che si aggravano in ospedale e quelli che 
> rischiano la salute per soccorrerli.
>  Certo, la vita umana non è /solo / tragedia, ma la tragedia non è 
> solo un intermezzo tra un prima e un dopo in cui si sta bene. La 
> sapienza tragica si apprende e si apprende collettivamente. A questo 
> servono le liturgie civili e religiose. Le tragedie inscenate come 
> rappresentazioni teatrali nell'antica Grecia avevano proprio questa 
> funzione educativa, e non a caso in tempi come questi vi si fa ancora 
> riferimento. Di liturgie simili non mi pare che siamo più capaci, per 
> cui le predicazioni civili e religiose che si fanno mi paiono per lo 
> più futili e, comunque, insufficienti. I grandi templi che ancora sono 
> in esercizio tra noi mi sembrano tutto sommato una cornice inadeguata, 
> nella loro inutile iattanza. Ma noi stessi, tutti, in genere lo siamo, 
> mi pare.
>  L'inazione certamente deprime. In questo c'è una notevole differenza 
> rispetto, ad esempio, alla guerra civile italiana '43/'45, in cui chi 
> voleva poteva darsi da fare. In particolare gli uomini, per i quali il 
> darsi da fare richiama istintivamente il menare le mani. Ora  è invece 
> l'ora di un darsi da fare diverso, di precisione, di accudimento, che 
> comporta sapienza e competenza professionale, non lo scomposto 
> agitarsi dell'assalto bellico, l' "ammazza-ammazza" tutto sommato 
> bambinesco, dei nostri giochi di fanciulli. E non soccorre lo 
> smanettare sui nostri dispositivi telematici, che ci rendono, in 
> fondo, solo la realtà, insufficiente, in cui siamo immersi, sono come 
> uno specchio, in un momento in cui invece vorremmo vedere lontano, 
> oltre ciò che stiamo vivendo. E anche le liturgie religiose, che 
> qualche volta sono piuttosto coinvolgenti vissute di persona, 
> trasferite su un network appaiono depotenziate, trasformate nella 
> stessa realtà evanescente degli altri sogni che ci passano davanti 
> sullo schermo, e questo  anche se attraverso quest'ultimo talvolta ci 
> dovremmo convincere addirittura di essere perdonati dal Cielo. No, il 
> Cielo non riesce a passare nei network, ne viene come triturato. Senza 
> possibilità di relazioni personali reali, il messaggio stenta a passare.
>  Che fare, dunque?
>  C'è una soluzione che è quella attuata da certi ordini di monaci, 
> sulla scorta del "prega e datti da fare" di Benedetto da Norcia. 
> Evitare che l'inazione diventi accidia. Darsi una regola di vita anche 
> nell'isolamento e poi rispettarla con pervicacia. Una regola che 
> comporti un darsi da fare, un lavorare, secondo un programma preciso, 
> meglio se cercando di accudire, soccorrere o almeno consolare persone 
> reali. Qualcosa che non assomigli solo a un solitario con le carte o a 
> un videogioco. E poi, su quella base, la sera, meditare 
> sull'esperienza che si sta vivendo, collocando la tragedia all'interno 
> di una vita che può essere anche bella ma che comporta di farne 
> esperienza.
> Mario Ardigò
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