[Area] Intervento di Mariarosaria Guglielmi (Il Foglio, 12 maggio 2020)

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Mar 12 Maggio 2020 19:49:41 CEST



 

Non bastava lo sconcerto prodotto nell’opinione pubblica dalle dichiarazioni
del dottor Di Matteo. Un magistrato, noto per il suo impegno nella lotta
alla criminalità organizzata, ora con un ruolo istituzionale quale
componente del Csm, sceglie una platea televisiva – e l’inevitabile massimo
clamore mediatico – per esternazioni che chiamano in causa l’attuale
ministro della Giustizia (e il contenuto di un colloquio riservato), che di
fatto chiedono conto delle ragioni della sua scelta per i vertici del Dap e
che inevitabilmente mettono in relazione un “ripensamento” del ministro con
la notizia della contrarietà dei vertici della criminalità organizzata alla
designazione del dottor Di Matteo. Con le domande, fatte proprie e divulgate
dal direttore di una importante testata giornalistica, che l’altro giorno si
interrogava su possibili “trattative” intercorse fra lo stato e i detenuti
dopo le rivolte di marzo nelle carceri e sulla relazione con le
scarcerazioni disposte in questi giorni dai magistrati di sorveglianza, si
completa il corto circuito innescato dalle esternazioni del dottor Di
Matteo.

Per le suggestioni non esistono smentite. Le smentite vanno bene per i
fatti. E non esistono argomenti per dare convincenti risposte alle domande e
ai dubbi che, come le suggestioni da cui originano, sono destinati a
“rimanere nell’aria”. Quanti cittadini in questi giorni si sono chiesti se
il nostro è uno stato di diritto solido, in grado di tutelare la sua
collettività, o se invece quelle organizzazioni criminali, che hanno
duramente colpito le istituzioni della Repubblica e scritto pagine tragiche
della storia del nostro paese, ancora oggi riescono ad avere la forza di
“ricattarci” e di condizionare in qualche modo anche le decisioni prese ai
più alti vertici dello stato? Come non porsi queste domande di fronte al
dubbio che inevitabilmente sorge quando un magistrato mette in relazione
proprio alla sua cifra professionale il fatto di essere rimasto escluso da
un incarico istituzionale di particolare rilevanza? Qual è l’effetto a lungo
andare di queste domande, destinate a rimanere senza credibili e convincenti
risposte, perché ciò che le origina non sono i fatti (di cui si può
affermare e dimostrare la verità o la falsità) ma il loro contenuto
evocativo e tutto ciò che suggerisce il loro accostamento?

È stato già ricordato in questi giorni, anche dall’Anm, che dovere dei
magistrati è esprimersi con equilibrio e misura, tenendo conto delle
ricadute che hanno le nostre dichiarazioni sia nel dibattito pubblico che
nei rapporti tra le Istituzioni. Basta essere convinti delle “proprie buone
ragioni”, sia rispetto alla “verità” di ciò che si dice sia rispetto alla
necessità di doverla rendere nota, per saltare a piè pari tutte le cautele
che il nostro ruolo ci impone? Non dobbiamo forse chiederci, quando
scegliamo la platea mediatica e il libero dibattito sulla stampa, cosa resta
delle nostre affermazioni – una volta spenti i riflettori e cessato il
clamore – all’opinione pubblica, a quella generalità indeterminata di
persone che abbiamo scelto come nostri interlocutori ideali? Non fa parte
della nostra responsabilità rispetto alle funzioni che esercitiamo, e ai
nostri doveri verso la collettività, chiederci quando prendiamo la parola
quale traccia vogliamo lasciare nel dibattito pubblico e in che modo, come
magistrati partecipi di questo dibatto, vogliamo contribuire a quella
“consapevolezza comune” che ci rende comunità? L’esigenza di dire la propria
“verità” e di rimettere le “cose al giusto posto” ci libera da ogni dovere
di farci carico del significato che nel circuito pubblico le nostre
affermazioni sono destinate ad assumere? E, prima ancora, non è la nostra
stessa funzione a richiedere che, dentro e fuori dalle aule di tribunale, il
magistrato appaia sempre capace di dubitare, di rimettersi in discussione,
più che portatore di verità assolute? I grandi stati d’animo collettivi, ha
scritto Marc Bloch, hanno il potere di trasformare in leggenda una
percezione alterata. Un rischio destinato ad aggravarsi in tempo di
“guerra”. Per Bloch era il primo conflitto mondiale. Per noi è oggi la lotta
contro un nemico invisibile, che non minaccia solo le nostre esistenze. È la
paura che inocula in ciascuno di noi e nella comunità, rimettendo in
discussione tutti i valori della convivenza civile. In questo stato d’animo
collettivo, ancor più che nel recente passato, è difficile far comprendere
ciò che alla magistratura è richiesto dal ruolo costituzionale di garanzia
della giurisdizione, e quanto siano complesse le scelte che deve compiere.
Alla magistratura di sorveglianza oggi spettano decisioni particolarmente
difficili, che devono garantire un’esecuzione della pena conforme al
rispetto dei principi costituzionali di tutela della salute e di umanità del
trattamento, e che devono realizzare un attento bilanciamento tra il diritto
del detenuto e l’interesse pubblico alla sicurezza sociale. Come magistrati
siamo consapevoli della necessità di dover rendere conto dei provvedimenti
che adottiamo e dell’importanza di essere chiamati a rispondere, di fronte
all’opinione pubblica, del nostro operato. La voce della libera stampa è
fondamentale perché questo “circuito di responsabilità”, per la magistratura
come per ogni altro potere dello stato e ogni organismo pubblico, sia sempre
vigile ed effettivo. La libertà di informazione è un bene prezioso di ogni
democrazia: è ciò che, nel confronto fra il pluralismo delle idee, forma la
sua coscienza critica e costruisce la coesione della sua collettività
intorno ai valori condivisi. Ed è per questo fondamentale che il dibattito
pubblico in corso riceva oggi dalla libera stampa quell’apporto di
consapevolezza critica necessario per affrontare tutte le sfide che
l’emergenza sanitaria pone alla democrazia.

Se i magistrati di sorveglianza diventano gli “scarceratori”, della
complessità del loro lavoro e delle loro decisioni, che si devono
confrontare con la storia di ciascuna persona che è dietro a un
provvedimento e con i parametri di giudizio che impongono la ricerca del
difficile punto di equilibrio fra tutela della salute e ragioni di
sicurezza, non resta nulla. Resta la suggestione di decisioni immotivate,
qualificate solo dal risultato che producono: aprire le porte del carcere,
senza attenzione alle esigenze di tutela della collettività. Se si ventila
l’idea di stato che tratta con la criminalità organizzata, e dei suoi
giudici esecutori – imbelli o consapevoli – di un patto inconfessabile che
ha barattato la necessità di riportare l’ordre dans la rue con
l’alleggerimento del regime detentivo e la scarcerazione di pericolosi
capimafia, di quel diritto/dovere di fare domande e di chiedere conto delle
decisioni prese in nome dell’opinione pubblica non resta nulla. Resta una
suggestione, che incrocia lo stato d’animo collettivo. E che può diventare,
per citare sempre Bloch, la falsa notizia, specchio in cui la coscienza
collettiva contempla i propri lineamenti. Non sono le domande senza risposta
ma le ineffabili suggestioni che una democrazia, specie quando duramente
provata dagli eventi, non può permettersi. 

 

articolo di Mariarosaria Guglielmi

Segretaria generale di Magistratura democratica

pubblicato il 12 maggio 2020, su Il Foglio

 

 

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