[Area] Magistratura democratica Newsletter 21

Magistratura democratica md a magistraturademocratica.it
Mar 26 Ott 2021 20:00:28 CEST


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[Magistratura Democratica]

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26 ottobre 2021

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Cari lettori,

in questa newsletter viene presentata la proposta dell'Esecutivo diMagistratura democratica, per lariforma del sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura.

C'è poi il festival Parole di giustizia, con le tre giornate distribuite tra Urbino e Pesaro dal 22 al 24 ottobre,dense di riflessioni e spunti interdisciplinari. Lo testimoniano i video dei lavori, e i testi di Stefano Musolino eVera Gheno.

Quindi, la lectio magistralis di Luigi Ferrajoli al convegno di Magistratura democratica, Un mare di vergogna, svoltosi a Reggio Calabria l'1 e il 2 ottobre.

Infine, lo spazio dedicato a Medel (Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés) l'associazione di cui fa parte Magistratura democratica.

L'appuntamento con la newsletter MD, salvo eccezioni, è ogni martedì, alle ore 20

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Documento dell'esecutivo di Md
La riforma elettorale del Csm

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Le degenerazioni emerse nell’esercizio del governo autonomo della magistratura hanno trovato terreno di coltura anche nei meccanismi elettorali di elezione del Consiglio superiore della magistratura. Si impone pertanto una riforma del sistema elettorale. Magistratura democratica esprime contrarietà alle ipotesi di selezione dei componenti del Csm fondate sul sorteggio e sulla base di modelli elettorali di stampo maggioritario.
È necessario un modello elettorale che assicuri una rappresentazione plurale della magistratura: equilibrata nella rappresentanza delle ispirazioni culturali, dei generi, dei territori. In questo senso, Magistratura democratica esprime apprezzamento per la proposta elaborata dalla Commissione Luciani, auspicando che – su di essa – si sviluppi un dibattito parlamentare che coinvolga nella riflessione anche la magistratura.

Per il testo completo:
https://www.magistraturademocratica.it/articolo/magistratura-democratica-e-la-riforma-del-sistema-elettorale-per-il-consiglio-superiore-della-magistratura

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Parole di giustizia / Stefano Musolino
L'insicurezza e il senso della giustizia

Arghillà è un quartiere ghetto della mia città, Reggio Calabria, uno dei molti che caratterizzano le periferie urbane italiane. Qualche tempo fa, insieme ad attivisti di varie associazioni impegnate nel sociale, abbiamo visitato uno dei tantissimi condomini popolari (li chiamano lotti e sono assegnati da enti pubblici), di cui è composta la parte più degradata del quartiere; in questo, solo due appartamenti erano abitati, da due donne i cui nuclei familiari si erano progressivamente disgregati, sicché erano rimaste da sole ad occuparli. Gli altri appartamenti erano abbandonati ed erano stati vandalizzati e depredati di tutto (infissi esterni, porte interne, elementi di bagni e cucine). Le due donne ci raccontavano la loro costante insicurezza, ma anche l’impossibilità di sottrarsi a quella condizione di cronica ansia e timore, non potendo rinunciare all’unica casa di cui potevano disporre. Un’insicurezza reale, vissuta, autenticamente sofferta. Ma accanto a quella reale appena descritta, ve ne è un’altra percepita socialmente come fattore immanente ed invasivo della tranquillità collettiva, nonostante i numeri si ostinino a raccontare una realtà diversa per cui i reati diminuiscono. Si tratta di un’insicurezza creata ed alimentata dai protagonisti di quello che viene definito colonialismo digitale, una ristretta oligarchia che orienta i sentimenti e le percezioni sociali, al soldo del miglior offerente.
Un’insicurezza irreale, ma sempre più estremizzata a tutela degli interessi dei ceti sociali più abbienti che pretendono di non essere disturbati nel godimento del loro superfluo, da chi vive, elemosinando l’essenziale (per come ben rappresentato da quelle ordinanze sindacali che vietano l’esibizione della povertà nei centri cittadini). L’insieme di queste due dimensioni sociali: una vissuta e reale, l’altra indotta e percepita, genera (come ci ha ricordato Ilvo Diamanti) un’opinione pubblica, fondata sulla paura che condiziona i decisori (il Legislatore).
L’insicurezza indotta è, dunque, un fattore di orientamento politico, ma le scelte della politica, in questa materia, impattano sui diritti fondamentali e li mettono in crisi, talvolta in maniera neppure avvertita alla maggioranza sociale la cui attenzione è spostata altrove da un incalzante produttore mediatico di nuove paure. La stessa legalità viene messa in crisi, giacché l’affermazione della forza e dell’autorità per tutelare i diritti dei già garantiti, diventa strumento normativo per aggredire i diritti fondamentali dei non garantiti. Un corto circuito che coinvolge in pieno la questione in ordine al come la giurisdizione debba interpretare e regolamentare il conflitto implicito in queste dinamiche. Qualcosa, perciò, che ci riguarda profondamente come giuristi; e, soprattutto, come Magistratura democratica un gruppo di magistrati che riconosce i pericoli di autoreferenzialità, insiti nell’esercizio della professione e che, per questo, è aperta al confronto quale momento di critica e, grazie a questa, di progressione della giurisdizione nel suo concreto esercizio. Giacché il diritto è essenzialmente dialogo – oggi più che mai nella precarietà dei tempi – siamo persuasi che solo una magistratura aperta al confronto con l’esterno, non chiusa in circuiti autoreferenziali ed asfittici, possa recuperare l’autorevolezza sociale, perduta inseguendo le paure (di tutela del proprio percorso professionale) e le ambizioni (di carriera) che percorrono la corporazione. A noi pare che sia il “sistema dei diritti umani fondamentali” (la definizione è di Bobbio ed è stata richiamata da Lorenzo Trucco nel suo intervento), costruito alla fine del secolo scorso ed apparentemente accettato quale conquista sociale condivisa, foriera di nuovi progressi, ad essere messo in crisi. E’ sempre più dominante, infatti, la cultura delle ego-libertà: è un mio diritto pretendere tutto ciò che mi conviene; un approccio che è in antitesi con la funzione tipica di un regime democratico che, come ci ricordava ancora Bobbio, tende ad includere tutte le persone nel godimento dei diritti fondamentali e, perciò, tutela il diritto individuale, ma insieme a questo si nutre della cultura del suo limite.
La risposta alla crisi dei diritti fondamentali da parte della politica parlamentare è deprimente. Non solo non si propongono soluzioni per fronteggiare i problemi strutturali (che sono, essenzialmente, di bisogno economico e di inclusione) che generano l’insicurezza realmente vissuta, ma le questioni sono schivate e la percezione dei ceti più poveri e marginalizzati è quella di una politica distante dai reali problemi esistenziali e di sopravvivenza che ne caratterizzano il quotidiano. Mentre, quando se ne occupa, la soluzione offerta dalla politica non è quella di affrontare i nodi che generano l’emarginazione sociale, ma stigmatizzarli con la criminalizzazione dei comportamenti che sono espressione di quel disagio. Sgomberi, divieti, perquisizioni, inibizioni sono le uniche parole di giustizia che la politica è in grado di “dire”, soggiogata ed orientata dal main stream del momento, deciso dalle oligarchie che governano il soft power della comunicazione creata ad arte dai social media. La differente posizione assunta dai sindaci di Firenze: La Pira (negli anni ’50) e Nardella (oggi), a fronte di problemi omogenei, che ci ha descritto Tomaso Montanari, nel suo caleidoscopio iconografico della sicurezza, ben esprime la decadenza della politica, la sua attitudine a negare la questione sociale esistente, con scelte securitarie che sopiscono paure indotte. Questa crisi non riguarda solo la coercizione dei diritti dei tipi di autore noti: quelli dei migranti, dei rom, dei senza fissa dimora, ma anche la coercizione dei diritti di intere aree geografiche del Paese. Nel bel libro di Giuseppe Smorto “A sud del sud” si dà conto come, in Calabria, la povertà reddituale incida anche sull’unico diritto espressamente definito fondamentale nella Costituzione: quello alla salute (art. 32); la mia regione si caratterizza come quella a più basso accesso alla medicina preventiva e tale circostanza costituisce fattore oggettivamente incidente sulle attese di vita. Insomma, in Calabria si muore di più, rispetto al resto d’Italia perché ci si cura peggio e di meno.
Ecco, dunque, che la debolezza della politica, etero-orientata da oligarchie economiche, genera un deserto dei diritti in cui anche quelli fondamentali, sono piegati alle esigenze di chi li ha già garantiti e non solo non si cura di coloro che ne sono privi, ma talvolta deliberatamente afferma il suo totale disinteresse per i destini di questi ultimi. L’obiettivo finale di quelle oligarchie è quello di avere un mercato omogeneo di consumatori ben profilati; sicché, i diritti individuali e collettivi dei cittadini sono deliberatamente trascurati, se non sono funzionali a quell’obiettivo. Ma la politica, invece, di mediare le contrapposte istanze di tutela, è piegata alle prime in una corsa elettorale, senza fine in cui il mood sociale governa le scelte politiche, piuttosto che esserne influenzato.
Lo scenario è fosco e come magistrati non ci lascia insensibili, perché la tutela dei diritti fondamentali costituisce il principio e fondamento dell’autonomia ed indipendenza che la costituzione ci garantisce. Perciò, la nostra capacità di tutelarli esprime la cifra del nostro essere adeguati e coerenti - qui ed oggi - al mandato che la costituzione ci affida. Ma da soli non saremo capaci di farlo; abbiamo bisogno - come i confronti ed i dialoghi di questi giorni ci hanno confermato - di restare aperti all’ascolto di chi, da poliedriche prospettive, esprime sensibilità omogenee a tutela dei diritti. Uno sforzo collettivo, consapevole della gravità della crisi del “sistema dei diritti fondamentali”, può suscitare risposte all’altezza della gravità dei problemi e nell’assenza della politica è compito dei giuristi e di tutti coloro che sono sensibili al tema delle ingiustizie, trovare parole per definire l’esistente, sollecitando la difesa dei più deboli quale momento essenziale del sistema democratico. Ecco, allora, che questo festival dei diritti, Parole di Giustizia, può trasformarsi in qualcosa di più di quanto sinora non sia stato: un momento in cui si incrociano e confrontano persone e storie eterogenee, mosse da un un’unica sensibilità, ispirata dalla tutela dei diritti fondamentali, per costituire un fronte comune di resistenza costituzionale. La pandemia ha sciolto molte paure presunte per metterci davanti a quelle reali, rammentandoci che la cifra autentica della nostra esistenza è la sua precarietà. La consapevolezza del nostro limite individuale può essere l’occasione per ritrovarci in un nuovo spazio collettivo. È una comprensione che può spingerci a replicare l’esistente che conosciamo oppure partire da queste rinnovate consapevolezze per guardare collettivamente, con sana ambizione ed audacia al futuro. Il recente passato ci ha insegnato che replicare lo status quo (l’agognato ritorno alla normalità), significa mettere in crisi i diritti fondamentali, senza affrontare i nodi genetici della loro crisi, chiamandoci a svolgere un ruolo sentinella delle dinamiche sociali e mediatiche che quella crisi alimentano. Ed allora, abbiamo la necessità di scoprire un nuovo patriottismo costituzionale che impegni i giuristi a contaminarsi con i protagonisti della resistenza sociale a tutela dei diritti fondamentali (un campione in questo senso lo abbiamo avuto tra noi: Yvan Sagnet), per costruire una rete capace di essere fonte di proposte e soluzioni e guardare al futuro con maggiore ottimismo; perché riuscire a mettere insieme anime diverse, coagulate da uno spirito comune, costituisce, di per sé, un segno di speranza. Ed allora, non mi resta che augurarci di ritrovarci a raccontare e sentirci raccontare ancora nuove Parole di Giustizia.

Stefano Musolino, magistrato a Reggio Calabria, è segretario generale di Magistratura democratica

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Parole di giustizia / Vera Gheno
Quella diversità che ci arricchisce

Sicurezza: dal latino securum, da se(d) ‘senza’ cura ‘preoccupazione’. Dunque, sentirsi sicuri vuol dire essere privi di preoccupazioni, spensierati. Vuol dire non avere paura, non temere per la propria vita e per il proprio benessere. Ma sicuri rispetto a chi, a cosa? Spesso, rispetto agli altri, a chi potrebbe farci del male. E chi sono questi altri? Il modo migliore per individuarli è notare ciò che ci differenzia, ci divide. Guardarsi dallo xénos, da chi non si conosce, se non riconoscendolo come diverso da sé (perché ha la pelle nera, o gli occhi a mandorla, o ha una disabilità o una neurotipicità; perché ha un corpo non conforme, perché porta su di sé i segni della povertà; perché non è eterosessuale e non è cisgender, cioè non si riconosce nel sesso biologico assegnato alla nascita; perché non parla la nostra lingua, o perché si copre i capelli per questioni religiose) è naturale, nel senso che nell’essere umano esiste una potente parte biologica programmata per provare avversione per la diversità e per considerarla come potenziale fonte di pericolo. La xenofobia è connaturata all’umano perché risale a un momento evolutivo in cui l’altro era davvero soprattutto fonte di guai. E così, sopravvivendo all’evoluzione, quel pezzettino di istinto ci sussurra – o ci urla – di guardarci dall’altro. L’operazione di othering, o altrizzazione, permette contemporaneamente di individuare il nemico, ma anche di sollevarsi da ogni responsabilità: sono gli altri a essere diversi, non è mica colpa mia. Io sono una mera vittima di questa situazione. Sono gli altri a essere cattivi, a sbagliare, a fare affermazioni pericolose, a essere ignoranti. Sono loro a sbagliare, non io.
Se si alimenta una psicosi collettiva – basata su un sentire istintivo – che altrizza il problema della sicurezza, che gli dà un nome, lo identifica nell’altro da sé, inevitabilmente ci scopriremo in un mondo di nemici; contro i quali, ovviamente, va fatta una guerra. Bisogna difendersi, bisogna scendere in trincea, bisogna resistere all’invasione. Ecco che si viene a creare, quasi senza accorgercene e grazie a un linguaggio esplicitamente bellico, uno stato di insicurezza perenne.
All’inizio della pandemia da Covid-19, i primi – di una lunga sequela, a oggi non conclusa – a venire altrizzati furono i cinesi. Non importa se persone di seconda o terza generazione, che magari la Cina l’avevano vista al massimo in un documentario; il solo fatto di essere cinesi bastava per additarli come untori (figura, ricordo, leggendaria, ma la cui esistenza non è mai stata confermata storicamente: non ci sono prove del fatto che esistessero persone che andavano in giro a ungere le porte con un unguento infetto, in modo da spargere il contagio della peste bubbonica). Mi trovavo, in quei giorni, in giro per scuole del territorio fiorentino. In una di queste, presenti in aula alcuni ragazzi di origine asiatica, nacque una discussione: “Non capisco”, commentava un ragazzino bianco, “il senso di prendersela con un cinese a caso: mica sono stati tutti in Cina”. “Ma è semplice”, rispose uno dei ragazzini cinesi; “siamo identificabili”. A dodici anni, aveva già compreso il senso dell’othering, ma anche di essere lui, il diverso. Ma diverso rispetto a chi, a cosa?
L’altrizzazione funziona dunque in modo ottimale quando la differenza è evidente. E quella differenza è tale rispetto a una presunta “normalità”, che è a sua volta definita in maniera assolutamente aleatoria. I “normali” non ritengono di avere bisogno di etichette, ma le applicano ai “diversi”. I “normali” si spingono al punto di decidere per cosa dovrebbero e non dovrebbero offendersi i “diversi” (per esempio, se due comici bianchi ed eterosessuali vanno in televisione a usare i termini ne*ro e fro*io, hanno il potere di spiegare alle persone a cui vengono abitualmente rivolti quegli epiteti che no, non c’è alcun motivo per offendersi, perché le intenzioni non sono quelle. Vaglielo a spiegare che cosa voglia dire sentirsele dire tutti i giorni, quelle parole. Vai a spiegare loro cosa significhi il concetto di microaggressione).
La linguista e attivista tedesca di origine turca Kübra Gümüsay descrive così il “museo della lingua”: ci sono gli innominati – i normali – che gironzolano liberamente e gaiamemte per il museo e guardano i nominati sistemati dentro alle teche, etichettati in modo da essere facilmente riconoscibili. E finché gli altri stanno belli tranquilli nelle teche che gli innominati hanno preparato per loro, tutto pare funzionare in maniera ottimale. Siamo sicuri, siamo al sicuro. Sine cura. Se, però, i nominati iniziano ad agitarsi, ecco che ci sono agitazioni, tafferugli; la sicurezza è messa a rischio. Ma la sicurezza di chi, se non di quella piccola parte di presunti “normali” la cui tranquillità, a ben guardare, era preservata a scapito del benessere di tutti gli altri?
Personalmente, io non ci sto, come diceva in un altro tempo Oscar Luigi Scalfaro. Rifuggo una società in cui la sicurezza sembra essere esclusivo appannaggio di una minoranza; priva di particolari meriti, ma che possiede caratteristiche intrinseche definite in maniera del tutto aleatoria. Occorre superare il paradigma di una società normocentrica, in cui chi non corrisponde ai parametri di una presunta normalità è di per sé un pericolo per la “sicurezza pubblica”. Se non altro, perché potrebbe esserci un momento in cui improvvisamente si modifica il paradigma stesso di ciò che è normale, ritrovandosi senza preavviso dalla parte dei diversi, del “pericolo pubblico”. E allora, perché non ragionare già ora su una società in cui le diversità abbiano il compito di impegnarsi a convivere reciprocamente? I privilegi dei “normali” sono costruiti su basi assai friabili: forse è ora di prenderne atto, invece che cercare spasmodicamente di preservarli. Magari ci si renderebbe finalmente conto che la parte che ci accomuna è molto più grande di quanto ci differenzia.

Vera Gheno, ricercatrice universitaria, si occupa prevalentemente di comunicazione digitale; molti suoi interventi su giornali o riviste riguardano il sessismo e l'inclusività nella lingua italiana. Traduce libri dall'ungherese

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Parole di giustizia

22 ottobre
Saluti e lectio magistralis di Ilvo Diamanti
https://www.youtube.com/watch?v=qUahgLqNxmE&t=15s
La città e il buongoverno: Antigone o Creonte?
Livio Pepino e Nello Rossi
https://www.youtube.com/watch?v=T9_SgIroULo&t=82s

23 ottobre
Parole della sicurezza. Vera Gheno e Chiara Gabrieli
https://www.youtube.com/watch?v=8o5Uxrvwkyc&t=288s
Politiche per le vittime.
Marco Bouchard, Alberto Ambrosoli, Silvia Cecchi
https://www.youtube.com/watch?v=pOpVlSf7oz0&t=8s
Sicurezza e immigrazione.
Yvan Sagnet, Lorenzo Trucco, Elena Valentini
https://www.youtube.com/watch?v=P2tLoCVr8Lo&t=368s
Pandemia, sicurezza, democrazia.
Francesco Pallante, Antonio Cantaro
https://www.youtube.com/watch?v=xNLZmgJnWHk&t=133s
Sicurezza del lavoro, sicurezza sul lavoro.
Paolo Pascucci, Rita Sanlorenzo, Michele De Palma
https://www.youtube.com/watch?v=L4tdZ2W9m9E&t=1387s

24 ottobre
Carcere e comunicazione ai tempi del populismo penale.
Marcello Bortolato e Lella Mazzoli.
Lectio magistralis di Tomaso Montanari. Conclusioni
https://www.youtube.com/channel/UCH5cQ8yPRG6rQuCf6BOUeWA

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Un mare di vergogna / Luigi Ferrajoli
Diritti umani, diritto disumano

Ho molto apprezzato il titolo del vostro convegno, “un mare di vergogna” nel quale rischia di naufragare la nostra civiltà giuridica e politica. La vergogna consiste anzitutto nelle innumerevoli violazioni del diritto internazionale e dei diritti fondamentali stabiliti nella nostra Costituzione e nella Carta europea dei diritti, che così lucidamente avete illustrato – in tema di libertà personale, di diritto d’asilo, di divieto di respingimenti collettivi e di dovere di soccorso in mare – nei vostri ottimi, interessantissimi interventi.
Ma c’è un’altra vergogna, forse ancor più grave perché in grado di minare le basi sociali della nostra democrazia, della quale voglio qui parlare. Essa consiste nel discredito e nella squalificazione, fino alla criminalizzazione, dell’impegno civile, morale e politico di quanti salvano in mare la vita di migranti che tentano di raggiungere il nostro paese e di chi si batte in difesa dei loro diritti e della loro dignità di persone. Questa seconda vergogna della nostra vita pubblica è stata inaugurata, all’inizio di questa legislatura, dalle politiche dell’ex ministro Matteo Salvini, che hanno segnato un salto di qualità nelle forme del populismo. Il vecchio populismo penale faceva leva sulla paura per la criminalità di strada e di sussistenza, cioè per fatti enfatizzati ma pur sempre illegali, onde produrre paura e ottenere consenso a misure inutili e demagogiche ma pur sempre giuridicamente legittime, come gli inasprimenti delle pene decisi con i vari pacchetti di sicurezza. Il nuovo populismo punitivo, esattamente al contrario, fa leva sull’istigazione all’odio e sulla diffamazione di condotte non solo lecite ma virtuose, come il salvataggio di vite umane in mare, al fine di alimentare paure e razzismi e ottenere consenso a misure illegali, come la chiusura dei porti, la preordinata omissione di soccorso, le lesioni dei diritti umani e la trasformazione in irregolari di immigrati regolari.

Lectio magistralis al convegno Un mare di vergogna di Luigi Ferrajoli, professore emerito di Filosofia del diritto, Università di Roma Tre

Link per il testo completo:
https://www.questionegiustizia.it/articolo/diritti-umani-diritto-disumano?fbclid=IwAR3Qzbwodt9YWMsSrWMZ8P7nI9X0EgI6eNKJdQjQIR8I6XhHPowvWZ-fFPg

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Medel #1
Filipe Marques al congresso dell'Unione giudiziaria della Repubblica Ceca

Il Presidente di Medel Filipe Marques, presente al congresso in Praga dell’associazione Soudcovská Unie České Republiky, il 22 ottobre, ha ricordato l’importanza dell’associazionismo giudiziario nella difesa dello Stato di diritto.

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Medel #2
Mariarosaria Guglielmi al congresso
dei Pubblici ministeri spagnoli

Mariarosaria Guglielmi è intervenuta il 22 ottobre, quale vicepresidente di Medel, al congresso della associazione di pubblici ministeri Upf (Unión Progresista de Fiscales) in Cordova, e per rappresentare l’esperienza italiana nella tavola rotonda su indipendenza del Pubblico Ministero e ruolo dei Consigli di Giustizia.

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Medel #3
La vicepresidente al webinar sull'indipendenza dei Pubblici ministeri

La vicepresidente Mariarosaria Guglielmi ha rappresentato Medel al webinar "L'indipendenza dei Pubblici ministeri in Europa centrale", intervenendo sul rapporto tra indipendenza del Pm e formazione. L'evento, che si è svolto il 20 di ottobre, è stato organizzato dall'Odhir(Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce) e dalla Procura dell'Estonia.

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