[Area] Magistratura democratica Newsletter 10

Magistratura democratica md a magistraturademocratica.it
Mar 20 Lug 2021 21:35:27 CEST


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Cari lettori,
 
Magistratura Democratica, per celebrare il suo XXIII congresso, ha scelto Firenze e le parole di Dante, a 700 anni dalla morte: «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?».
 
Già, chi pone mano alle leggi? I fatti di Genova, rappresentano una lezione per tutti. Anche per la magistratura, come sottolinea Riccardo De Vito, presidente di Md, in un suo articolo pubblicato dal quotidiano Il Manifesto.
 
Alla crisi della magistratura e della democrazia è stata dedicata la sessione del congresso coordinata da Silvia Albano, nella quale sono intervenuti Gaetano Azzariti, Franco Ippolito, Marco Tarquinio.
 
Alla democrazia e al ruolo dei giudici, Luigi Ferrajoli ha dedicato la lectio magistralis che ha aperto i lavori congressuali, delineando i necessari criteri di indipendenza e imparzialità che sempre devono assistere l'esercizio della giurisdizione. Temi quanto mai d'attualità se pensiamo alla vicenda di Patrick Zaki, da oltre un anno in custodia cautelare in Egitto, disposta e prorogata da Corti non pienamente indipendenti.
 
Passiamo poi alla crisi dello Stato di diritto in Polonia, in Ungheria e Turchia dove i governi limitano libertà e diritti, controllando la magistratura. Temi sui quali interviene Felipe Marques, presidente di Medel, in un commento sulla conferenza che si è svolta a Firenze, al quale si aggiunge il testo della sua relazione. Significativa è stata, sempre al congresso, la testimonianza di Monika Frąckowiak, magistrata di Poznań e componente del direttivo di Medel. L'ha intervistata Monica Perosino, giornalista de La Stampa, che qui ha aggiunto un'analisi sulla situazione in Polonia. 
 
Su tutte queste vicende Md ha assunto posizioni chiare, come ha fatto su un'altra violazione dei diritti: quella che sta avvenendo in Libia, nei campi di detenzione e da parte della Guardia costiera. 
 
L'appuntamento con la newsletter Md, salvo eccezioni, è ogni martedì, alle ore 20     
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   Genova, a venti anni di distanza
Una lezione per i magistrati di oggi  


 
Le migliaia di persone che a luglio 2001 arrivano a Genova da ogni parte del mondo e d’Europa hanno le idee chiare: la storia non è finita. La globalizzazione neoliberista, uscita vincitrice dal «secolo breve», non ha liberato le persone dal bisogno.

I conflitti sociali e politici affermano i movimenti riuniti sotto lo slogan «voi G8 noi 6.000.000.000» non sgorgano più dalle ideologie (spesso tradite), ma dalle drammatiche condizioni di vita dei popoli e degli individui tagliati fuori dal paradigma dello sviluppo quantitativo illimitato, dai miti del progresso cari sia al capitalismo occidentale sia a molte esperienze del socialismo reale.
C’è un sud per ogni nord, una periferia per ogni centro: sono questi gli assi – simbolici oltre che territoriali – lungo i quali si dipanano le nuove lotte. Tanti esclusi contro pochi integrati si potrebbe dire, se non fosse che è proprio quel termine, «contro», a non essere più capace di spiegare la realtà del conflitto che i movimenti portano a Genova.
La nuova aspirazione non è costruire qualcosa «contro», ma qualcosa «per». L’idea che si coagula nei dibattiti pubblici a Genova non è di proporre un mondo a specchio, ma, come suggerisce un’ispirazione culturale che ha nella Pedagogia degli oppressi di Paulo Freire la sua radice più nitida, quella di superare una volta per tutte la contraddizione per cui l’oppresso «non aspira a liberarsi, ma a identificarsi con il suo opposto». È per questo che il movimento fa paura e a Genova trova, come unica risposta, una nuova gestione dell’ordine pubblico, funzionale alla tutela e alla conservazione della città dei garantiti.
Nel bel libro di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci – L’eclisse della democrazia, 2021 (nuova edizione) – si racconta la storia di Oronto Douglas (avvocato di Ken Saro-Wiwa e conoscitore del carcere per aver difeso il popolo Ogoni contro gli scempi della Shell nel Delta del Niger), il quale, mentre si trova sulla via di Genova, viene fermato alla frontiera olandese a causa della mancanza delle somme di denaro necessarie per il visto di ingresso. Racconterà così quell’esperienza: «C’è una lezione che ho imparato dal mio fermo alla frontiera olandese: essere poveri è un crimine che può costare la galera». Non c’è immagine migliore dello «stato penale».
Le persone che a luglio arrivano a Genova da ogni parte del mondo imparano, letteralmente sulla loro pelle, qualcosa di ancora peggiore della galera: «la più vasta e cruenta repressione di massa della storia europea recente». Sono le parole dell’indagine di Amnesty International e non sono distanti da quelle contenute nella prima sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sui fatti della Diaz (Cestaro c. Italia, 7 aprile 2015).
Lo scandalo di quella sospensione della democrazia, tuttavia, non è solo negli scenari militari e di guerra applicati alla gestione della piazza, nella violenza delle forze di polizia, nelle torture alla Diaz e a Bolzaneto; risaltano, anche e soprattutto, le falsificazioni e i depistaggi che le agenzie di polizia e i loro vertici hanno realizzato: a monte, per giustificare arresti illegali di massa (basti pensare alle famose molotov fatte apparire come il frutto della perquisizione e in realtà introdotte dagli stessi dirigenti di polizia); a valle, per ottenere l’impunità nei processi sui maltrattamenti e le torture (coperture, mancati riconoscimenti, false testimonianze).
A fronte di questo scenario, inutile nascondersi, si sono delineate due magistrature.
Una più restìa a mettere in discussione l’idea che le polizie, soprattutto in un Paese democratico, siano assistite sempre e comunque da una sorta di presunzione assoluta di legittimità del loro operato. È questa l’ottica di fondo sottesa alla richiesta – sulla base di verbali che si dimostreranno falsi – delle convalide degli arresti e di misure cautelari nei confronti di 78 persone arrestate alla Diaz e all’impegno di tutte le risorse nel processo per devastazione e saccheggio a carico di 25 manifestanti responsabili degli episodi di danneggiamento più eclatanti.
Vi sono stati invece, su un altro versante, giudici che da subito hanno coltivato il dubbio e che non hanno esitato a rifiutare la convalida di ben 66 arresti su 78, restituendo gli atti alla Procura per indagare sui reati di polizia. Pubblici ministeri, poi, che hanno preso sul serio quelle denunce e hanno cominciato a indagare a tutto tondo sulle forze di polizia, scavando a mani nude nelle prove false, facendosi spazio passo dopo passo in una realtà fatta di omertà, silenzi, distorsioni della verità, ostilità dei vertici di polizia e spesso anche degli uffici giudiziari, mancate collaborazioni. È il lavoro di questi magistrati che rende almeno un po’ meno urticante il senso di ingiustizia dovuto alle mancate risposte della politica e della polizia stessa.
Quella magistratura, sia pure a fatica, ha potuto operare forte dello statuto di indipendenza di un pubblico ministero integrato nella giurisdizione e di un giudice soggetto soltanto alla legge. A questo dobbiamo pensare quando – a distanza di vent’anni e con davanti agli occhi i fatti di Santa Maria Capua Vetere –, come giudici e giuristi, ci interroghiamo oggi sullo scandalo di Genova.
 
Articolo di Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica, pubblicato martedì 20 aprile dal quotidiano Il Manifesto      
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   «Recuperare fiducia, tutelando i diritti»  

 
Di crisi morale e democratica nella magistratura si è parlato nel congresso di Md, nella sessione coordinata da Silvia Albano del Tribunale di Roma, con interventi di: Gaetano Azzariti, professore ordinario di diritto costituzionale, Università di Roma “La Sapienza”; Franco Ippolito presidente Fondazione Lelio e Lisli Basso; Marco Tarquinio, direttore di Avvenire.
 
«I profili storici e culturali – sottolinea Gaetano Azzariti  - sono alla base della progressiva deriva corporativa della magistratura e, delle sue correnti. È necessario tornare a riflettere sul valore che i principi costituzionali possono rappresentare, per riaprire il dialogo tra magistratura e società civile, facendo svolgere alle correnti un ruolo di tutela effettiva dei diritti». La magistratura, continua Azzariti: «ha anticipato la rivolta per la Costituzione, ora forse ha anticipato il degrado. La faticosa costruzione di una democrazia costituzionale e pluralista riguarda tutti i magistrati, nella speranza di farsi avanguardia per una inversione di rotta, una lunga lotta per frenare il degrado e la caduta e nella barbarie».
 
«La fiducia dei cittadini – è il parere di  Franco Ippolito - si recupera dando fiducia alle tante espressioni della società civile impegnate a ricostruire questo Paese, ispirandosi alle promesse di emancipazione sociale della Costituzione. È indispensabile un forte rilancio etico, ma occorre anche trasformare l'indignazione verso il malcostume emerso in questi anni in una forte tensione morale capace di determinare una formidabile spinta culturale e politica per il rinnovamento, non solo del costume dei magistrati, ma anche della loro responsabilità professionale sui temi vitali per le persone e per le libertà dai bisogni e dai condizionamenti. Penso alla mia città, Taranto, dove lo stabilimento siderurgico ha ucciso lo sviluppo e continua a uccidere i suoi abitanti; penso ai conflitti di lavoro in alcune città italiane che sono stati ostacolati e repressi da interventi di alcune procure della Repubblica; penso al “delitto di solidarietà” verso i migranti, che non è una esclusiva francese, ma purtroppo è stato contestato ad alcuni cittadini italiani al confine nord-est del Paese».
 
«Stanno espropriando il popolo di un conflitto sano e per dividerlo dentro trincee lontane, con in mezzo un campo di battaglia dove muoiono i poveracci – è la posizione di  Marco Tarquinio – C'è bisogno di ricostruire tutti i rapporti fondamentali di fiducia, a partire dai giornali. Dove sono finite le persone nella nostra società? Se un influencer ha un seguito che vale quanti tutti i giornali messi insieme, qualche domanda dobbiamo porcela. Occorre recuperare il rispetto da parte dell'opinione pubblica, spezzare la logica del “noi contro loro”. Non è una sfida facile. Serve un nuovo patto di alleanza con la cittadinanza, con l'opinione pubblica da parte di politici, giornalisti, magistrati. E regole utili a migliorare vita gente, senza le quali c'è il dominio dei signorotti di turno».     
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Ferrajoli: indipendenza e imparzialità
per restituire credibilità alla magistratura   


 
Quali misure sono idonee a garantire indipendenza e imparzialità della giurisdizione, e perciò da un lato a rifondare la legittimazione e la credibilità della magistratura e, dall’altro, a porre riparo ai guasti dell’autogoverno rivelati dagli scandali recenti? Dico subito che si tratta non solo e non tanto di misure istituzionali, quanto piuttosto di mutamenti profondi del costume giudiziario, in grado di bonificare i presupposti sia culturali che istituzionali delle lesioni sia dell’indipendenza che dell’imparzialità della funzione giudiziaria.
 
L'indipendenza
Cominciamo dal primo corollario delle fonti sopra illustrate – la garanzia dei diritti e la verità giudiziaria – della legittimazione della giurisdizione: il valore dell’indipendenza. Anzitutto l’indipendenza esterna, quale risulta dall’autogoverno, che a sua volta comporta la rappresentatività e perciò il pluralismo, quale si esprime nelle correnti, assunte oggi come responsabili degli scandali. Tornerò più oltre sulla questione delle correnti. Qui mi limito a rilevare che c’è un parallelismo tra la crisi dell’auto-governo giudiziario e la crisi della democrazia parlamentare. La crisi involutiva e regressiva delle correnti è infatti analoga e parallela alla crisi involutiva e regressiva dei partiti. Ma questa crisi non toglie che così come una democrazia politica non può funzionare senza partiti, nello stesso modo neppure un autogoverno rappresentativo dei magistrati può funzionare senza correnti in grado di fondare la rappresentanza.
È perciò illusorio pensare di sanare il malgoverno dei magistrati colpendo le correnti, che sono il luogo del confronto collettivo e trasparente, e pensare di risolvere il problema con una riforma del Csm. Qualunque riforma del Csm non può risolvere nulla, dato che non può sopprimere le dinamiche e le lotte di potere inevitabilmente determinate dalla scelta dei capi degli uffici.
Ma allora, se questo è vero, il problema va risolto alla radice: sopprimendo o quanto meno riducendo queste lotte di potere, cioè gli stessi poteri che formano gli oggetti e i soggetti di queste dinamiche e di questi conflitti: da un lato il potere dei capi degli uffici, dall’altro il potere discrezionale che si esprime nella nomina dei capi degli uffici. È insomma il problema della carriera che va risolto alla radice, eliminando o quanto meno riducendo i presupposti e le ragioni del carrierismo. (...)
 
L'imparzialità
Non meno essenziale alla credibilità della magistratura è il secondo corollario delle fonti di legittimazione della giurisdizione più sopra indicate: il valore dell’imparzialità.
L’imparzialità comporta anzitutto il rifiuto del diritto penale del nemico, cioè di una concezione più generale delle pubbliche funzioni che non a caso sta inquinando anche la democrazia politica. C’è infatti anche sotto questo aspetto un’analogia tra la crisi della giurisdizione e la crisi della politica. Entrambe le crisi si manifestano nel ritorno della logica schmittiana dell’amico nemico che caratterizza tutti i populismi e accomuna perciò sia il populismo politico che l’ancor più grave populismo giudiziario.
Ebbene, il valore dell’imparzialità impone tre mutamenti profondi nel costume giudiziario, corrispondenti ad altrettante regole di deontologia giudiziaria.
La prima regola consiste nel rifiuto di ogni atteggiamento partigiano o settario, non solo da parte dei giudici ma anche dei pubblici ministeri. La giurisdizione non conosce – non deve conoscere nemici, neppure se terroristi o mafiosi o corrotti – ma solo cittadini. Ne consegue l’esclusione di qualunque conno­tazione partigiana sia dell'ac­cusa che del giudizio e perciò il rifiuto della concezione del processo penale come "lotta" al crimine. 
 
Tratto dalla lectio magistralis di Luigi Ferrajoli al congresso di Magistratura democratica (Firenze, 9 luglio)
 
Link
Testo integrale di Ferrajoli:
https://www.magistraturademocratica.it/congresso/articolo/letio-magistralis-di-luigi-ferrajoli      
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Md per Patrick Zaki  

Patrick Zaki è un giovane studioso, da oltre un anno detenuto in condizioni intollerabili solo per avere promosso la tutela dei diritti umani e perché stava frequentando un master in Italia in studi di genere. 
Quelli che in un ordinamento democratico sono valori da tutelare e promuovere, in un regime come quello egiziano divengono idee pericolose da reprimere e combattere con ogni mezzo, compreso un uso distorto ed illiberale della custodia cautelare protratta senza limiti di tempo, ed in assenza di alcun controllo sui presupposti.
Tutto ciò è, non solo per i magistrati, ma per qualsiasi cittadino di una democrazia liberale, inaccettabile.
Magistratura democratica auspica che, in tempi rapidi, venga concessa a Zaki la cittadinanza italiana, così da poter svolgere un'azione di tutela più incisiva, e che si intraprendano tutte le iniziative politico-istituzionali per la verifica delle sue condizioni di salute e per la sua liberazione. Invita la società civile a mobilitarsi e ad organizzare iniziative per difendere non solo Patrick, ma i principi fondamentali di qualsiasi ordinamento democratico.
 
Da un comunicato stampa di Md
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   Stato di diritto e pilastro sociale
Ripristinare la fiducia in Europa  

 
Nella conferenza organizzata da Medel al Congresso di Firenze, il 9 luglio, si è sottolineata la necessità di far crescere la fiducia dei cittadini in un progetto non solo economico ma anche (e soprattutto) sociale e di diritti fondamentali, che impone alle autorità dell'Unione una nuova prospettiva, basata non solo sull'attenzione al mercato, ma essenzialmente sul rispetto delle libertà e per un'effettiva uguaglianza dei cittadini europei nell'accesso alla salute, all'educazione, al lavoro - in sostanza, alla dignità che è alla base di ogni comunità di diritto e dei diritti.
 
Questa nuova prospettiva, tuttavia, non potrà mai essere realizzata senza il rispetto del principio fondamentale dell'indipendenza del Potere Giudiziario e delle regole dello Stato di Diritto. È quindi essenziale che i tribunali non si lascino prendere dalla "trappola populista al potere giudiziario" e che le istituzioni comunitarie diano una risposta forte e decisa alle tendenze autoritarie di Stati membri come la Polonia e l'Ungheria, i cui cittadini sono oggi sempre più privati dell'accesso a una magistratura indipendente e libera dalle interferenze dell'esecutivo. 
 
Come ricordato alla conferenza, Jean Monnet ha detto che «l'Europa sarà forgiata nelle sue crisi». Questa è la crisi dei nostri tempi - questa è la sfida che dobbiamo affrontare. E dalla risposta che daremo tutti - cittadini e istituzioni - dipenderà il futuro dell'Europa.
 
 
Considerazioni di Filipe Marques, giudice in Portogallo, presidente di Medel – Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés. Di seguito, uno stralcio del suo intervento al congresso e il link al testo completo     
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   La "via giudiziaria" alla politica  

 
Una delle principali sfide e minacce per lo Stato di Diritto è la giudiziarizzazione della politica. L'incapacità dei partiti politici di raggiungere compromessi sta spesso e sempre più portando all'uso dei tribunali come istanze di risoluzione delle controversie politiche, sia attivamente che passivamente.
Quando le decisioni sono prese unilateralmente da un partito o da una parte dello spettro politico, senza raggiungere o scendere a compromessi con gli altri partiti, questi ultimi impugnano le decisioni davanti ai tribunali, sperando di avere le loro argomentazioni convalidate dalla magistratura. In altri casi, le diverse parti non raggiungono una soluzione in quelle che sono questioni eminentemente politiche, sapendo che i tribunali saranno costretti ad applicare la legge alla situazione - sperando di presentare come una vittoria la decisione giuridica che sarà presa, se favorevole a loro, anche se ciò non porterà ad una soluzione globale di quello che è un problema politico.
Un chiaro esempio di questa realtà sono le conclusioni adottate al Consiglio Europeo del 10 e 11 dicembre 2020. Anche se queste conclusioni sono state presentate proprio come un modo per risolvere una situazione di stallo, possiamo vederle come nient'altro che la "giudiziarizzazione della politica" che è una tendenza globale. Incapace di raggiungere una decisione politica, non solo il Consiglio ha invaso la sfera di competenze di un'altra istituzione dell'Ue (la Commissione), imponendo un obbligo di non azione fino al completamento delle linee guida sul modo in cui applicherà il regolamento sullo Stato di Diritto, ma ha anche deciso che queste stesse linee guida sarebbero state finalizzate solo dopo la sentenza della Corte di Giustizia in un ricorso per annullamento nei confronti del regolamento (che, all'epoca, era già stato annunciato ma non ancora introdotto), "in modo da incorporare qualsiasi elemento rilevante derivante da tale sentenza". Questo è un chiaro caso di tutti gli attori politici che cercano di distogliere l'attenzione da una situazione di stallo politico che non sono stati in grado di risolvere. Il risultato è facilmente prevedibile: qualsiasi decisione presa dalla Corte di Giustizia europea sarà presentata come una vittoria o una sconfitta da tutte le parti in conflitto e la Corte sarà accusata di aver preso una decisione politica. 
 
Link
L'intervento integrale di Felipe Marques alla conferenza Il futuro dell’Europa tra Rule of Law e pilastro sociale, organizzata da MEDEL - Magistrats Europeéns pour la Démocratie et les Libertés (9 luglio 2021 XXIII, Congresso Nazionale di Md): 
http://www.europeanrights.eu/index.php?funzione=S&op=5&id=1797     
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   Polonia: le scelte della signora Ewa
«Libertà, diritti? Sono parole per ricchi»  

 

Il partito al potere in Polonia si chiama Diritto e Giustizia. Ma da sei anni attua la più agguerrita ed efficace strategia di smantellamento dello stato di diritto in Europa.
 
Quando, nel 2019 sono stata inviata a Varsavia per seguire le elezioni parlamentari – vinte di nuovo dal partito ultraconservatore – mi aveva particolarmente colpito una donna, la signora Ewa, una contadina che ogni mattina vendeva le sue cassette di mele al mercato di Na Polnej: «Tutti a parlare di libertà, di diritti – mi aveva detto con una risata -. Sono parole per i ricchi. Io preferisco dignità, e la dignità ce l’hai solo quando hai da mangiare». A un’osservazione del genere c’è poco da controbattere. Come spiegare, senza l’arroganza del privilegio, l’importanza della libertà di espressione, dell’indipendenza della magistratura, dell’uguaglianza di genere a chi fatica a sopravvivere?
 
In Polonia, come del resto anche in Ungheria e, in misura minore, in altri Paesi dell’Ue, i capisaldi dello smantellamento dello stato di diritto sono il controllo totale dell’informazione e della magistratura. Il primo ha richiesto l’asservimento dei mass media pubblici e la riduzione al silenzio di quelli privati che non si adeguano. Il secondo la sottoposizione del potere giudiziario a quello esecutivo nonché l’egemonia sulla Corte costituzionale. Ma vallo a spiegare alla signora Ewa che informazione libera e giustizia indipendente sono fondamentali, anche nella vita di una contadina polacca. 
 
La lunga chiacchierata con la giudice Monica Frąckowiak, coraggiosa magistrata a Poznań, è stata illuminante. Volevo che spiegasse a una qualsiasi Ewa l’importanza di vivere in uno stato pienamente democratico, dove lo stato di diritto non è intaccato dal potere esecutivo, e dove la Costituzione non è un libro da imparare a scuola, ma lo scudo all’ingiustizia. L’ha fatto come se stesse prendendo un caffè con Ewa, con esempi concreti e chiari, perché occorre proteggere «l'inviolabilità dei diritti fondamentali dei cittadini, che pongono fondamento e limite al potere dello Stato. Lo stato di diritto è per tutti, ma pochi ne sono consapevoli. Eppure garantisce che nessuno possa essere discriminato, che il potere giudiziario sia indipendente dal potere politico, che i giornali siano liberi, che il governo sia trasparente, che la parità tra uomini e donne sia effettiva». Che per Ewa si traduce in: se lo Stato ti espropria i terreni, quelli che ti danno da mangiare, senza averne diritto – come successo in Polonia – l’unica protezione che hai è la legge applicata in modo indipendente.
 
Oppure: se vieni arrestata durante le manifestazioni per difendere il diritto all’aborto, la polizia ti mette in carcere e finisci a processo, l’unica salvezza è che un giudice riconosca la primarietà della Costituzione sull’arbitrio e ti assolva (migliaia di donne polacche arrestate nelle piazze negli ultimi due anni sono state “salvate” dalla Costituzione e da magistrati ancora indipendenti). È così che Monica Frąckowiak, colpita da cinque procedimenti disciplinari per le sue critiche alla riforma giudiziaria, assieme a numerosi magistrati polacchi, riesce a rendere vivo un concetto così «lontano» come lo stato di diritto. Lo fa protestando con l'Associazione dei giudici polacchi Iustitia, ma lo fa anche con esempi e azioni che non hanno paura di semplificare, e per questo, arrivano anche alle tante Ewa.
 
Testimonianza della giornalista Monica Perosino. Sua anche l'intervista sottostante, pubblicata venerdì 16 luglio 2021 sul quotidiano La Stampa     
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   Frąckowiak: «Princìpi calpestati da anni, la Polexit è ormai diventata una realtà»  

 
«La Polexit è già realtà, siamo nel pieno dell’uscita della Polonia dall’Europa». Monica Frąckowiak, magistrata a Poznań, ex capitale medievale e magnifica città rinascimentale, combatte da anni contro l’implacabile erosione dello stato di diritto nel suo Paese. In Italia, al congresso di Magistratura Democratica, con Medel ha dato voce ai giudici nel mirino di Varsavia.
 
Perché la Polexit è già realtà?
«Dal 2015, passo dopo passo, in Polonia è verificata una “Polexit legale”, ovvero un’uscita del Paese dall’Unione decretata dalla violazione di Varsavia dei principi e delle leggi Ue. Quando un Paese non rispetta i valori fondamentali e smantella i diritti delle donne e della comunità Lgbt+, distrugge l’indipendenza dei media e della magistratura, allora è chiaro che, in modo meno esplicito del Regno Unito, sta uscendo dall’Europa».
Molte delle leggi polacche, come quelle anti Lgbtq+, hanno “ispirato” successive scelte politiche di Budapest?
«Sì, ma con una differenza fondamentale. La situazione in Polonia sembra peggiore perché il governo è più sistematico. Ma se si guarda meglio vediamo che Budapest è riuscita perfino a cambiare la Costituzione. Inoltre i giudici ungheresi e la società civile sembrano non riuscire a reagire contro Orban, mentre i polacchi sono più forti e i giudici riescono ancora a tenere gli argini al dilagare del governo. Pensiamo, per esempio, alle migliaia di denunce contro le donne che manifestavano per il diritto all’aborto: il governo le ha fatte arrestare, ai processi i magistrati le hanno assolte».
Però la società civile polacca ha continuato a votare PiS...
«Per forza, se escludiamo le grandi città, dove infatti non vince, la propaganda dei media allineati - perché gli altri sono stati messi a tacere - è riuscita a creare un’atmosfera di odio e paura - delle donne, degli omosessuali. E quando la gente ha paura è facile presentarsi come il principe sul cavallo bianco e far credere che li salverai. Funziona sempre».
Cosa crede succederà ora?
«Finché non si toccano i soldi l’azione europea non sarà sufficiente. Fondi in cambio di diritti insomma. Nel frattempo dobbiamo far capire ai nostri cittadini cos’è in ballo, ché non credo sia così chiaro. Dobbiamo sostenere le ong e gli attivisti, solo così sfonderemo il muro della propaganda tra i cittadini. Citizens on the ground, per usare un’immagine militare».
Cioè?
«Alla contadina polacca parlare di diritti e libertà pare quasi offensivo. Se hai fame la libertà è secondaria, e i diritti sono un concetto astratto. Ma quando lo Stato ti espropria la terra, per difenderti dovrai andare in tribunale. Solo allora capirai che è fondamentale avere dei giudici che rispondono alla legge e non al governo».
La Polonia è ancora una democrazia?
«Dalla storia del XX secolo abbiamo imparato che non basta avere partiti ed elezioni per essere Paesi democratici. Abbiamo visto che non è sufficiente, che una democrazia limitata è pericolosa. Sappiamo com’è finita».
La Commissione disciplinare è composta da giudici, come lei..
«È molto triste, sono nostri colleghi ma uccidono l’indipendenza della magistratura. Forse questi giudici erano marginalizzati, non avevano carriere molto brillanti, e quando il governo ha offerto loro gloria, soldi e potere non hanno saputo resistere».
Anche lei ha subito un procedimento disciplinare?
«Cinque. Ma non sono sola».
E che cosa avrebbe fatto?
«Sono un giudice, non critico mai il governo, ma ho criticato la riforma della giustizia, e questo è stato sufficiente».
E ora?
«I polacchi sono decisamente filo-europei, ma il gioco del governo è molto pericoloso e potrebbe indurre il Paese a guardare al Regno Unito. Spero che la società civile sia forte abbastanza da non cadere nella trappola».      
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   Libia: il dramma sotto gli occhi  

 
La Camera dei deputati ha bocciato la risoluzione che chiedeva la chiusura definitiva della missione di collaborazione dell'Italia con la Guardia costiera libica. 
 
Eppure, abbiamo ancora davanti agli occhi le immagini dei militari libici che, nella zona Sar Maltese, inseguono i migranti sparando colpi di mitraglia ad altezza uomo. Lo stesso possiamo dire per le parole spese dall’autorità giudiziaria italiana nelle sentenze che descrivono gli orrori subiti dai trattenuti nei centri di detenzione libici.
 
Come ha scritto la segretaria generale Mariarosaria Guglielmi nella relazione introduttiva del XXIII congresso di Magistratura democratica, «Sono più di 13 mila le persone riportate in Libia quest'anno: un numero che – come ricordavano l’Oim e l'Unhcr nel comunicato congiunto del 16 giugno, dopo l’ultimo episodio dei 270 migranti della nave Vos Triton – ha già superato il totale di tutti i migranti intercettati in mare nel corso dell’intero 2020, e riportati indietro verso luoghi di condizioni disumane, dove spesso sono destinati a scomparire come “merce” nelle mani dei trafficanti di esseri umani». Le proteste, le relazioni di autorevoli organizzazioni internazionali e i tentativi parlamentari, per adesso, non sono stati sufficienti.
 
Da un comunicato stampa di Md     
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Per rivedere il XXIII congresso di Md   
 9 luglio: https://www.radioradicale.it/scheda/642513
10 luglio:https://www.radioradicale.it/scheda/641943
11 luglio: https://www.radioradicale.it/scheda/641944        [  ]( # )
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